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Nell’antisemitismo nazista c’è anche la paura di un “progresso” spietato e anti-umano

di Francesco Lamendola - 24/08/2012

 


 

L’idea illuminista del progresso illimitato può piacere o non piacere, ma è certo che segna una cesura, una svolta nel cammino della cultura europea.

Con essa, i “philosophes” creano qualche cosa di nuovo e di inaudito: affermando la continua perfettibilità dell’uomo e dichiarando guerra alla natura per sottometterla al suo volere, essi creano, esplicitamente o implicitamente, le premesse non solo per la defenestrazione di Dio, ma anche per l’auto-deificazione dell’uomo. L’uomo illuminista, grazie alla ragione, è il signore del mondo; come per la Bibbia, la natura è ai suoi piedi, affinché egli vi eserciti tutto il suo potere; ma, a differenza del cristianesimo, egli non è il depositario di un tale potere perché lo ha ricevuto da Dio, ma perché la ragione lo rende autonomo e lo emancipa dagli istinti, cioè dalla natura medesima. In  altre parole, tutto dipende da lui ed egli non dipende da nessuno, non riconosce nessuno al di sopra di sé, non ammette limiti alla sfera del proprio potere: tutti gi enti dipendono dal suo buon volere, egli li manipola a piacere, per la propria utilità e per la propria convenienza; non deve rendere conto a nessuno di quello che fa e bolla come regresso e come superstizione qualunque obiezione alla sua onnipotenza.

Un effetto accessorio di questa impostazione - che era già presente, in embrione, nei maggiori esponenti della cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo, Francis Bacon e Cartesio in primis - è l’idea che il vero, anzi, l’unico sapere è quello scientifico; che il sapere scientifico è quello logico-matematico, contrapposto al sapere umanistico; che lo scienziato è il vero “savant”, il vero sapiente; che quanto è vero per la scienza razionalista e quantitativa è vero in assoluto, senza residui; e che ogni aumento di quel genere di sapere corrisponde a un aumento del progresso, del benessere, della felicità del genere umano.

Si assiste, di conseguenza, a una progressiva intellettualizzazione della mentalità europea; e a ciò danno un generoso contributo le idee di Lutero e di Calvino sulla libera lettura ed interpretazione delle Sacre Scritture: ogni fedele è in grado di leggere e capire la Bibbia da solo, così come - dice Comenio - ogni studente può essere istruito su tutto, indipendentemente dall’età, e sia pure per gradi; la tradizione non basta più, né quella aristotelica in ambito scientifico, né quella ecclesiastica in ambito religioso. In fondo, è l’estensione e l’assolutizzazione completa, conseguente e intransigente, del metodo scientifico sperimentale e induttivo.

A partire dal principio dell’autonomia e della eccellenza della ragione umana, si definisce, nel corso di alcune generazioni, un nuovo concetto del giusto e dell’ingiusto: giusto è il massimo del sapere (un sapere sempre più laicizzato, sempre più razionale, sempre più progressista) per il massimo numero di persone; concetto che troverà poi, col trionfo dei regimi liberali, la sua espressione giuridica nell’esclusione del diritto di voto per quanti non sanno leggere e scrivere - cioè, guarda caso, per una percentuale quasi ovunque maggioritaria della popolazione europea.

La figura del “philosophe” incarna perfettamente questo nuovo tipo umano: colui che sa e che sa di sapere (o che crede di sapere); e che, dall’alto del proprio sapere, non solo si propone di portare il benessere e la felicità al “popolo”, ma si ritiene anche autorizzato ad esercitare il massimo rigore nei confronti di ogni eventuale resistenza alla marcia del progresso, a cominciare da quegli strati della popolazione - i contadini prima di tutti - i quali, abbrutiti dalla loro barbarica ignoranza (unica forma di sapere ammesso: il sapere codificato dalle classi egemoni, con conseguente svalutazione e negazione di ogni forma di sapere popolare), vengono sin troppo facilmente strumentalizzati dalla reazione feudale e clericale.

All’idea illuminista che solo l’intellettuale “progressivo” è depositario del vero sapere si aggiunge poi l’idea romantica che l’intellettuale è, per definizione, un puro in lotta contro un mondo di bruti; di qui alla creazione del superuomo non c’è che un passo e Nietzsche, figlio del tardo Romanticismo, che venera Voltaire e la filosofia dei lumi, lo compirà d’un balzo, assemblando il peggio delle due tradizioni, l’illuminista e la romantica: l’arroganza intellettuale della prima e il titanismo melodrammatico della seconda. Come dire: Voltaire più Wagner, «écrasez l’infâme» più Bayreuth, la risatina ironica di La Mettrie col suo uomo-macchin più la «Cavalcata delle Valchirie»: difficile immaginare un più denso concentrato di kitsch.

Eppure, proprio a partire da quegli anni una nuova diga si rompe e le pretese avanguardie dilagano, facendo a gara per «épater le bourgeois», sempre più intellettuali, sempre più cerebrali, sempre più stravaganti e sempre più irridenti e provocatorie verso tutto ciò che è tradizione: fino all’esibizione di pisciatoi come opere d’arte; fino al teatro della crudeltà, dello sberleffo e dell’assurdo; fino alla suprema ostentazione dell’osceno, del sadico, del ripugnante, beninteso non come corteggiamento dei più bassi istinti del pubblico, ma come sacrosanta, indignata denuncia dei vizi della società costituita. Ed ecco che l’uomo con gli occhiali, lo studente universitario, lo scienziato chiuso nel suo laboratorio e il poeta “maledetto” che sfida le regole, l’ordine e il decoro (curiosa alleanza, nel caso delle ultime due figure d’intellettuali) si auto-promuovono non solo al ruolo di coscienza critica della società - anche se, spesso e volentieri, mangiano nella greppia dei poteri stabiliti -, ma anche a quello di solitari custodi dell’autentico sapere, in un mondo di pecore e di filistei che li criticano solo perché non li capiscono o perché sono invidiosi della loro audacia.

L’intellettuale progressista  non fa eccezione, al contrario: imbottito delle teorie marxiste, egli sa di sapere quel che gli altri non sanno, e si auto-promuove al rango di condottiero degli oppressi, che sa meglio di loro quel che ci vuole per ristabilire la giustizia nel mondo e che punta alla dittatura per riuscirvi, strappando le erbacce che ostacolano il progresso; dittatura benefica e necessaria che, poi, si estinguerà da se stessa, e lo stato insieme a lei, quando il socialismo avrà trionfato e l’ultimo nemico sarà stato abbattuto.

La poesia, l’arte, la scienza e la filosofia del XX secolo hanno questo di caratteristico: che non si rivolgono al “popolo”, se non, eventualmente, con sussiego e degnazione; non si preoccupano di essere comprese dalla maggioranza dei cittadini; vanno ciascuna per la sua strada senza dover dare spiegazioni a nessuno, si spingono deliberatamente oltre la capacità di comprensione della persona media; e tuttavia sostengono che la loro marcia è necessaria per migliorare il mondo, per portare la felicità agli uomini e per realizzare una società più giusta e più felice. Gli intellettuali, e loro soltanto, sanno cosa sia bene e cosa sia male; non riconoscono alcun limite alla loro marcia trionfale, non riconoscono alcuna tradizione, non accettano alcuna mediazione, alcun dialogo con ciò che, secondo loro, rappresenta il “passato”: danno per scontato che il nuovo sia meglio dell’antico e che, per esempio, distruggere un vecchio quartiere abitativo per realizzare un simbolo del “progresso” come la Tour Eiffel sia giusto, lecito e necessario.

Dopo la prima guerra mondiale, nel clima esasperato dalla crisi economica, specialmente nei Paesi sconfitti, si verifica una reazione contro le avanguardie e, per estensione, contro le intellighenzie: per la prima volta l’intellettuale, specialmente se portatore di una visione culturale ed estetica eterodossa, non gode più dell’ammirazione incondizionata della società: è un dio che ha fallito, che aveva promesso la rigenerazione dell’umanità attraverso il progresso e che, quasi ovunque, ha approvato ed esaltato il bagno di sangue del 1914, assicurando che sarebbe stato breve e vittorioso: invece è durato più di quattro anni e ha inferto un colpo mortale all’Europa, non solo sul piano materiale, ma anche su quello spirituale.

Di solito si presentano il Dadaismo e il Surrealismo come espressioni di una reazione morale contro la prima guerra mondiale; ma può darsi che molti Europei li abbiano interpretati, invece, come uno sberleffo contro qualcosa di estremamente serio, uno sberleffo che offendeva i sentimenti tanto di coloro che avevano creduto nella guerra, quanto di coloro che l’avevano avversata.

D’altra parte, molti intellettuali hanno salutato l’Ottobre del 1917 come l’inizio di una liberazione mondiale e hanno eletto l’Unione Sovietica a loro patria ideale, con Lenin e, poi, Stalin, nelle vesti di profeti infallibili della nuova religione d salvezza, che è, sotto mentite spoglie, sostanzialmente la stessa di prima: la religione del progresso illimitato, da imporre con le buone o con le cattive, se necessario anche mediante lo sterminio di intere classi sociali, cominciando dall’aristocrazia e dalla borghesia urbana e proseguendo con i contadini benestanti.

Tanto nel campo borghese-capitalista, quanto in quello bolscevico, gli Ebrei erano assai attivi e numerosi. Erano presenti nelle maggiori banche d’Europa e degli Stati Uniti, ma anche nei quadri dirigenti dell’Unione Sovietica: Rotschild e Trotzkij apparivano come le due face di una stessa cosa, di uno stessa presenza, di uno stesso potere. Così come, durante la belle époque, la figura dello studente ebreo o della studentessa ebrea si era fatta notare in tutto il mondo, partecipando ai movimenti culturali emergenti e più controversi, come la psicanalisi (con Lou Salomé o Sabina Spielrein), durante e dopo la prima guerra mondiale diventa estremamente caratteristica la figura dell’agente rivoluzionario ebreo. Dal ricchissimo finanziere Parvus che, agendo dietro le quinte, organizza e sovvenziona il rientro di Lenin in Russia, al giornalista Karl Radek il quale, dopo aver accompagnato Lenin sul “vagone piombato” che lo riporta dalla Svizzera a Pietrogrado, si fa propagandista internazionale della causa bolscevica: l’opinione pubblica mondiale si abitua  ad associare l’ebraismo con tutto ciò che è intellettuale, d’avanguardia, cosmopolita, avverso alla tradizione e all’ordine esistente, più o meno contestatore e rivoluzionario.

Gustav Mahler nella musica, Franz Kafka nella letteratura, Albert Einstein nella fisica, Sigmund Freud nella psicanalisi, Oskar Kokoscha nella pittura (ma un elenco competo sarebbe interminabile) si mettono in vista in maniera tale che diventa impossibile separare l’idea della ebraicità da quella dell’intellettualità; una intellettualità che, specialmente dopo il 1918, viene percepita, e in molti casi è davvero, fortemente polemica nei confronti delle norme e dei valori stabiliti, graffiante, apertamente o potenzialmente dissolvitrice. In alcuni casi questi intellettuali proclamano essi stessi di voler distruggere la vecchia società e la vecchia cultura e di volerne creare di nuove, in pratica ripartendo da zero.

L’Espressionismo è una delle forme pittoriche che con maggiore violenza hanno irriso, aggredito e mostruosamente deformato l’immagine della realtà “borghese”; nei quadri di Otto Dix, per esempio, esponente della corrente della Nuova Oggettività, la figura umana, e specialmente l’eros (nel suo immancabile binomio con tanatos) appaiono distorti in maniera oltremodo ripugnante, suscitando nell’osservatore un senso di cupo disgusto e quasi una triste sazietà, paragonabile al risveglio di un bevitore cronico in preda alla nausea.

Le reazioni contro l’arte degenerata (una espressione, si badi, coniata da un ebreo, anzi dal capo del sionismo, Max Nordau) non potevano mancare, nel clima amareggiato del primo dopoguerra, e si possono considerare come uno degli aspetti di una reazione più vasta contro tutte le avanguardie, contro tutti gli intellettualismi, contro tutte le forme di “modernità” che l’opinione pubblica europea, in larga misura, finì per associare con la tragedia della guerra e con le sue catastrofiche conseguenze. Inoltre, sia nella forma capitalista dei profittatori di guerra, sia nella forma marxista dei fiancheggiatori della Rivoluzione d’Ottobre, gli Ebrei venivano associati a quegli aspetti del cambiamento sociale e ideologico che facevano maggiormente rabbia o paura, che scatenavano antiche o recenti insicurezze e che ridestavano inquietudini mai sopite.

Il nazismo si fece interprete di queste paure, di queste inquietudini, di queste angosce, in certi casi anche di un atteggiamento di disgusto nei confronti di espressioni e atteggiamenti che apparivano insultanti verso coloro i quali avevano sopportato i sacrifici della guerra, avevano avuto dei morti, o erano tornati dal fronte mutilati, si erano impoveriti o avevano perso il posto di lavoro. Certo, nel mirino non c’erano solo gli Ebrei; anche artisti come George Grosz, che pure non era ebreo, incorsero nell’ira di una opinione pubblica che si sentiva offesa dalla feroce violenza delle sue caricature; ma gli Ebrei, per il loro numero e per la loro visibilità ai vertici delle nuove tendenze culturali, destavano maggiormente l’attenzione; senza contare che essi già da prima erano oggetto di una profonda diffidenza anche nei Paesi dell’Europa occidentale in cui sembravano meglio integrati, come ad esempio si era visto, in Francia, all’epoca dell’affaire Dreyfus.

Dreyfus, il capitano ebreo che portava gli occhiali, come li portava Karl Radek, l’infaticabile propagandista della rivoluzione: l’Europa dei primi decenni del Novecento è percorsa da eserciti di intellettuali occhialuti che sembrano ostentare il loro disprezzo per tutto ciò che è tradizione e che, con un sorriso ironico e sprezzante, si aggirano ovunque predicando il nichilismo o la palingenesi di un mondo destinato alla dissoluzione; sono i “figli” di Turgenev, contrapposti ai “padri”  foderati di piatto buon senso; sono i Raskolnikov o i Necaev, apocalittici fiammeggianti di derivazione più o meno nietzschiana; sono gli sradicati dalla testa piena di letture ambiziose e velleitarie, confuse e deliranti, che vogliono distruggere il mondo per ricostruirlo daccapo, ma senza sapere come: la loro cultura non getta dei ponti verso l’altro, ma li isola nelle altezze rarefatte di un aristocraticismo alla rovescia, magari rivestito di formule marxiste.

È un caso che i totalitarismi nati dalla rabbia e dalla paura, il comunismo e il nazismo, guardino con odio implacabile l’intellettuale occhialuto e che, sotto Stalin e Hitler, il fatto di portare un paio di occhiali e di avere un titolo di studio universitario sia sufficiente, specie se si appartiene a un gruppo nazionale diverso e “sgradito”, come il polacco (e quanti cittadini tedeschi dell’Est cambiano il proprio cognome per germanizzarlo, negli anni Venti e Trenta!) costituisca un viatico per il plotone esecuzione e le fosse comuni, così come sarebbe avvenuto, alcuni decenni più tardi, nella Cambogia di Pol Pot?

Scontenti, sradicati, smaniosi di qualunque novità e, soprattutto, impazienti: tale è il ritratto degli intellettuali anti-borghesi fra le due guerre. Vogliono cambiare tutto e subito, non sono disposti ad aspettare nemmeno un giorno, nemmeno un’ora; ritengono di aver aspettato anche troppo e che il vaso della loro pazienza sia colmo. Lo scrittore Jurii Trifonov e il filosofo Etienne Gilson sono d’accordo: è l’impazienza il tratto comune del nuovo intellettuale europeo; l’impazienza della volontà e quella della ragione. L’impazienza prende le forme del gioco alla cospirazione, come in Paul Nizan (che passa disinvoltamente dall’estrema destra all’estrema sinistra francese), o del farsi commessi viaggiatori di una rivoluzione in cui non si crede nemmeno più, come appare nella narrativa di un Manès Sperber. Molti di questi intellettuali impazienti - è una constatazione - sono di estrazione ebraica (come, appunto, Sperber): per cui l’opinione pubblica tende a fare una equivalenza tra la nuova figura dell’intellettuale nichilista e quella dell’Ebreo, cittadino di un popolo senza stato, e quindi, non legato alla patria in cui vive, anzi ad essa segretamente ostile.

Così, gli Ebrei appaiono come la più perfetta incarnazione di quella mentalità apolide, cosmopolita, irrispettosa verso i legami del sangue e della terra, legami sentiti così importanti specie dopo la tragedia del 1914-18, poiché in essi molti milioni di uomini e donne cercavano un senso di sicurezza di fronte ai meccanismi sempre più incontrollabili dell’economia e della società moderne: l’inflazione che bruciava i risparmi di una vita di lavoro, la rivoluzione che minacciava di genocidio sociale le classi abbienti; e non si dimentichi che l’Europa degli anni Venti era percorsa da migliaia di esuli russi “bianchi” che diffondevano il terrore per quanto avevano vissuto dopo l’Ottobre e l’instaurarsi della dittatura bolscevica. E gli Ebrei, a torto o a ragione, insieme ai Lettoni, erano descritti come gi elementi più intransigenti e più spietati all’interno della polizia politica bolscevica, i più inflessibili nella crociata contro le vecchie forze sociali, mirante e distruggere la borghesia non solo in senso economico, ma proprio in senso biologico.

L’Europa post 1917, dunque, aveva paura di quanto stava accadendo in Russia e, nello stesso tempo, era sconcertata, turbata, talvolta indignata dalle forme che andava assumendo la cultura della nuova intellighenzia; e tanto alla sua paura che alla sua rabbia non sfuggiva il ruolo importante che gli Ebrei stavano svolgendo nei bruschi mutamenti cui la massa della popolazione faticava alquanto ad adattarsi, vittima, com’era, di ciò che possiamo definire come “shock del futuro”.

Secondo lo storico e filosofo Ernst Nolte, il nazismo, e Hitler in particolare, finirono per identificare l’ebraismo con la “modernità”, ossia con quegli aspetti della modernità che più stavano angustiando e spaventando i ceti medi tedeschi nel periodo fra le due guerre; a ciò possiamo aggiungere che la grande crisi del 1929, partita dalle banche newyorchesi nelle quali era forte la presenza del capitale ebraico, doveva necessariamente alimentare quelle preoccupazioni e quelle idiosincrasie, apparendo come una conferma dei peggiori timori.

Così si esprime Nolte nel suo studio ormai classico «Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945» (titolo originale: «Der europäische Bürgerkrieg 1917-45. Nationalsozialismus un Bolschewismus», Frankfurt/Main, Verlag Ullstein, 1987; traduzione dal tedesco di F. Coppellotti e altri, Firenze, Sansoni, 1988, pp. 413):

 

«Quello che Adolf Hitler intendeva in verità con la parola “ebreo” non è altro che quello che quasi tutti i pensatori del XIX secolo aveva chiamato con accento positivo IL PROGRESSO, quel complesso di crescente dominio della natura e alienazione dalla natura, di industrializzazione e libertà di commercio, di emancipazione e individualismo, che per la prima volta Nietzsche e dopo di lui alcuni filosofi della vita come Ludwig Klages e Theodor Lessing avevano dichiarato essere una minaccia per la VITA: Per Hitler questa VITA è identica con L’ORDINE NATURALE, cioè con la struttura al tempo stesso contadina e guerriera della società, che secondo la sua opinione è presente tuttora in forma classica nel Giappone attuale, mentre in Europa è stata pregiudicata in primo luogo dall’utopia pacifica del cristianesimo e poi da un’industrializzazione smisurata con i suoi fenomenici crisi e di decomposizione. Hitler ha dunque di mira lo stesso processo storico universale che per Marx era stato al tempo stesso progresso e decadenza, quel processo che potremmo chiamare l’intellettualizzazione del mondo. Tuttavia, nonostante alcuni accenni, Marx, Nietzsche, Lessing e lo stesso Klages erano rimasti sempre ben lontani dall’affermare che fosse possibile dimostrare una causa concreta, umana di questo processo. Hitler invece fece questo passo, che eraun rovesciamento radicale di tutte le ideologie precedenti, , ma che non doveva iù essere chiamato ideologia in un senso originario, poiché egli attribuisce ad un gruppo umano il potere di risuscitare un processo trascendentale. Tuttavia la tesi non era semplicemente assurda poiché gli ebrei, già in quanto “popolo della scrittura”, e poi in quanto gruppo in apparenza particolarmente avanzato a causa dell’EMANCIPAZIONE e in verità colpito in maniera particolarmente profonda, avevano effettivamente un rapporto spiccato con quella INTELLETTUALIZZAZIONE, ma essi on erano la causa bensì, viceversa, una forma fenomenica. In questo senso non era senza conseguenza il fatto che Hitler nella sua difesa della guerra come parte irrinunciabile dell’ORDINE NATURALE volgesse le tendenze genocide della guerra moderna soprattutto contro gli ebrei. Ma un genocidio che avviene secondo questa intenzione non è più un semplice genocidio. Quanto per Hitler vadano assolutamente insieme il rovesciamento della filosofia della storia, la difesa dell’ORDINE NATURALE e l’esperienza della rivoluzione del 1918, appare incontrovertibilmente chiaro se aggiungiamo ancora una frase detta al maresciallo croato Kvaternik il 22 luglio 1944: “Se anche un solo Stato per qualsiasi motivo tollera in sé una famiglia ebraica, questa sarà il focolaio di una nuova decomposizione”.»

 

Hitler, dunque, vede negli Ebrei l’incarnazione della modernità nei suoi aspetti più paurosi e distruttivi; in loro egli può riconoscere, finalmente, il volto di quelle forze anonime, anche se impersonali, che stanno dissolvendo i modi di vivere e di pensare cui egli è disperatamente attaccato, come lo sono milioni di altri cittadini europei.

Che si tratti di una identificazione arbitraria e, per molti aspetti, paranoica, non vi è dubbio; ma quello che conta, se si vuole capire il suo antisemitismo al di là degli stereotipi “metafisici” cui finora è ricorsa gran parte della storiografia sul fenomeno nazista, è che tale identificazione paranoica trovava alcune apparenti conferme in precisi dati di fatto ed era condivisa, anche se in forma meno estrema (e, soprattutto, senza la sua consequenzialità criminale) da molti milioni di persone in tutto il mondo, e specialmente in Europa, fra le due guerre.

La paura della modernità, così come ha generato l’utopia reazionaria ruralista (reazionaria non in se stessa, ché non vi è nulla di reazionario nel “ritorno alla terra” proclamato, ad esempio, dagli intellettuali latini dell’epoca augustea, ma in rapporto alle condizioni di una società industriale), ha generato anche il bisogno di dare un volto preciso ai nemici invisibili di un progresso senz’anima…