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La trappola dell’euro

di Pier Paolo Dal Monte - 10/12/2012

 

 

            E’ con vero piacere che ci troviamo a proporre al lettore l’encomiabile libro di Marino Badiale e Fabrizio Tringali che ci racconta come l’Euro, tanto magnificato dai trombettieri della propaganda del “pensiero dominante” sia in realtà stato un “arma di distruzione di massa” di intere economie e delle democrazie europee Gli autori ci spiegano chiaramente che. “Il quadro che emerge è drammatico: perdita di diritti, svuotamento della democrazia, impoverimento, decadimento di ogni tipo di servizi pubblici” (p. 134)

            Ma come -si chiederà qualcuno- ci hanno raccontato tante storie sui benefici della moneta unica e dell’integrazione europea, non avevano previsto tutto questo?.

            Ci sia consentita una breve considerazione personale: non possiamo pensare che la creazione dell’ unione economica europea, culminata con la realizzazione di una moneta internazionale cui fu scelto lo sgradevole  e insulso nome  Euro, sia stata frutto di un disegno casuale, condotto da un’accozzaglia di incompetenti il cui intento era quello fare un esperimento per vedere cosa ne sarebbe scaturito.

            Anche se abbiamo una fervida immaginazione, non riusciamo a spingerci a pensare  diverse centinaia (o migliaia) di politici, economisti e burocrati si siano semplicemente “sbagliati”. Certo, non abbiamo mai avuto eccessiva stima delle facoltà intellettive delle categorie menzionate (con numerose eccezioni per ciò che concerne gli economisti), tuttavia non ci siamo mai spinti fino al punto di pensare che la costruzione dell’unione monetaria sia stata ordita e perpetrata da persone sotto l’effetto di droghe psichedeliche. Tuttavia, visto che “Ogni albero si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo”,[1] se escludiamo l’incompetenza e la stupidità l’unica spiegazione che può esservi è quella della malafede o, più probabilmente un’esiziale combinazione tra le due. Ed è qui che ci è prezioso l’aiuto di questo libro, per cercare di comprendere meglio i veri intenti di tutto il costrutto dell’ “integrazione europea” e della moneta unica.

            Nella prima parte del libro, gli autori spiegano fondamenti  che rendono possibile un’unione monetaria, che richiede una certa omogeneità tra le economie dei diversi paesi che ne fanno parte, in particolare i tassi di inflazione, le politiche fiscali e la mobilità dei capitali e dei fattori di produzione” (merci e persone). Qui si annida uno dei problemi più gravi della moneta unica, perché i paesi che ne fanno parte hanno economie assai differenti, regimi fiscali e tassi di inflazione non omogenei.

            Ci è’ stato raccontato che il problema dei paesi deboli sia quello di eccessivi deficit di bilancio e debiti pubblici, in realtà, come spiegano gli autori, il problema di fondo risiede nella scarsa competitività di questi ultimi, dovuta all’adozione della moneta unica che fa si che  paesi più potenti, la Germania, tra tutti, “accumulino surplus commerciali nei confronti dei paesi del sud [...] con questo meccanismo le economie più competitive soppiantano sui mercati quelle più deboli” (pag. 21)

            In un’economia integrata come quella europea nella quale è impossibile applicare barriere commerciali (dazi), la moneta unica toglie anche l’unica arma a disposizione dei paesi più deboli per resistere alla concorrenza internazionale per rendere le proprie merci più competitive, che è quella della svalutazione,  quindi essi subiscono un processo si progressivo impoverimento

            Il secondo problema, quello dei debiti pubblici è riconducibile al meccanismo stesso col quale è stata costituita l’unione monetaria Poiché gli stati non dispongono più di una banca centrale che emetta moneta e funga da acquirente di titoli “di ultima istanza”, essi sono costretti a ricorrere integralmente al mercato finanziario per reperire le risorse di cui necessitano

             Il meccanismo ha sembrato funzionare per un certo tempo ma, con la crisi finanziaria del 2008, sono esplose le contraddizioni di questo modello. Da lì in avanti, tutti i rimedi non hanno fatto altro che aggravare la situazione tanto che gli autori denunciano che “Il significato dell’austerità non è dunque quello di un passaggio necessario per superare la crisi, ma rappresenta piuttosto un progetto mirato a scaricare i costi della crisi sui soggetti deboli  [...]privandoli dei diritti conquistati decenni addietro e abituandoli alla nuova realtà di impoverimento diffuso [...]che è la premessa di una politica di acquisizioni da parte di soggetti forti che potranno impadronirsi a prezzi stracciati di attività di vario tipo” (Pag. 34)

            Per facilitare questo processo è necessario spostare il processo decisionale da organi elettivi a enti sovranazionali piuttosto nebulosi. Questo è ciò che è man mano avvenuto con i vari trattati europei (Maastricht e Lisbona) e, più recentemente con l’istituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM o MES), col chiaro intento di dotare l’Unione Europea “di un sistema istituzionale sempre più impermeabile alle prevedibili tensioni sociali innescate dai meccanismi di austerità imposti dagli organismi europei [...]. L’unione europea svela così il suo volto antidemocratico: il suo obiettivo non può essere realizzato da governi democratici, perché questi non avrebbero mai il consenso necessario per scelte così terribili e antipopolari” (pp. 64, 88)

            Il caso della Grecia è utilizzato come esempio sociale, visto che il peso economico del paese è troppo piccolo per costituire un’arma di ricatto per i paesi più forti “La Grecia e il suo popolo martirizzato sono cavie. Sono il primo passo del tentativo di ridisegnare la natura stessa degli Stati europei, distruggendo ogni traccia del patto sociale che ha permesso decenni di civile convivenza” (p.52)

            A questo punto è chiaro che l’adesione all’Unione Europea comporta l’accettazione della politica economica neoliberista da essa condotta, dal momento che: “le politiche antipopolari, neoliberiste e ipercapitaliste sono inscritte nei trattati stessi che definiscono l’Unione Europea” (p121).

            Dopo questa pars destruens assai credibile e ben documentata, gli autori affrontano, nella parte finale del volume la pars constuens. Non può non farci piacere constatare che molte delle loro proposte sono assai contigue al pensiero della decrescita, da loro citata espressamente come direzione alla quale volgere. In primo luogo essi suggeriscono di attuare politiche che aumentino la resilienza del nostro paese verso potenziali shock quali il rincaro delle materie prime, in primo luogo favorendo il risparmio energetico, la produzione di beni durevoli e riparabili,  la “filiera corta” e migliorando il trasporto pubblico locale. Per fare ciò è necessario “abbandonare un sistema economico e sociale che costringe a produrre (e consumare) sempre più merci” (pag. 141)

            In mezzo alla confusione che ammanta il termine decrescita, grazie soprattutto al significato distorto che ne viene dato dai mezzi di informazione di massa, va ascritto agli autori il merito di spiegarne bene l’intento  che non è  quello di “sostituire il dogma della crescita con un altro dogma, seppur di segno opposto”. Al contrario “decrescita significa abbandono del dogma della crescita, cioè la costruzione di un sistema economico non più costretto a dover continuamente aumentare la produzioni di merci e dove, a fianco delle merci, scambiate in cambio di denaro, esistono beni demercificati che le persone possono autoprodurre e consumare, oppure scambiare o donare fuori dal mercato. Il pensiero della decrescita può offrire risposte proprio a quei paesi che decidono di non accettare più le costrizioni dovute alla globalizzazione, perché essa si basa sul recupero delle capacità produttive locali, la “filiera corta”, l’autonomia alimentare, le reti solidali di autoproduttori, la liberazione dalla schiavitù nei confronti del petrolio e delle fonti energetiche inquinanti. Il concetto di decrescita è completamente diverso da quello di recessione. Nonostante la diminuzione dell’energia disponibile e della produzione di merci, decrescita non significa diventare più poveri” (pp. 141-142)

            Non avremmo saputo dare una definizione migliore. Riteniamo che questo sia, senza dubbio, un libro indispensabile per orientarsi nella crisi che stiamo vivendo e, soprattutto, per disvelare il castello di menzogne con le quali viene raccontata

 

 

 

 

 

 



[1] Luca, 6.44