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Ne «Il bacio al lebbroso» di Mauriac la risposta cristiana al Superuomo di Nietzsche

di Francesco Lamendola - 12/12/2012

 


 

François Mauriac (Bordeaux, 1885 – Parigi, 1970) è uno dei più grandi scrittori francesi del Novecento e uno degli artisti che meglio hanno saputo interpretare l’anima dolente dell’uomo moderno, scandagliandone i recessi più tortuosi e cercando, alla luce della Grazia, quel bagliore di verità che può, talvolta, riscattare anche una vita interamente sbagliata.

Nell’insieme della sua vasta produzione, il romanzo breve «Il bacio al lebbroso» è considerato, in genere, come un’opera minore; eppure si tratta di un piccolo gioiello, che, oltre ad esplorare con la consueta finezza e delicatezza il mistero della storia sacra che si cela in fondo ad ogni vita umana, pone il problema della responsabilità morale dello scrittore e, in particolare, dell’intellettuale che semina nel mondo orgogliose parole di disprezzo per la morale dei “deboli” e fa l’apologia dei “padroni”, esercitando un influsso pericoloso sui lettori e contribuendo al disorientamento e alla confusione dei propri simili.

È la storia di Jean Péloueyre un giovane gracile e malaticcio, erede di un casato borghese molto benestante della regione delle Lande (foci della Garonna), che non ha mai conosciuto l’amore di una donna, neanche quello di sua madre, morta mettendolo al mondo; e che, per le manovre del parroco e del suo stesso padre, deciso a evitare che il suo patrimonio passi a un nipote, si sposa con una giovane bellissima e piena di salute, Noemi, che, essendo di umile condizione e di carattere dolce e remissivo, non può neanche sognarsi di rifiutare la domanda di fidanzamento.

Con quel matrimonio, il timidissimo e amareggiato ragazzo sogna di prendersi una rivincita sulla sua vita solitaria e dolorosa, e di passare nel campo dei “signori” di cui ha letto in un libro di Nietzsche, liberandosi dalla condizione di “schiavo” a cui s’era rassegnato, rifugiandosi nel grembo protettivo delle pratiche cristiane. Ma le cose non vanno così: il disgusto di Noemi per il suo corpo, e la stessa ipersensibilità di lui, che non vuole imporre i suoi diritti coniugali alla ragazza, invece di promuoverlo al rango delle invidiate creature “superiori”, ribadiscono la sua condizione di emarginato e di escluso e lo rinchiudono nel recinto di una più crudele solitudine.

Fin dalla prima notte di nozze, per i due giovani sposi è l’inizio di un autentico Calvario, in cui fanno a gara nel tentativo di reprimere i propri impulsi – di desiderio lui, di ribrezzo lei – e finiscono per allontanarsi insensibilmente, pur nel rispetto delle forme borghesi. Con la scusa di portare avanti certe ricerche, Jean si trasferisce a Parigi, vivendo nella capitale come un recluso, finché una lettera del parroco lo richiama al paese: la moglie, sola e trascurata, è corteggiata alla lontana dal giovane e bel medico condotto, verso il quale si sente irresistibilmente attratta, pur se reagisce e respinge la tentazione.

Ma il ritorno al paese, presso il padre ipocondriaco ed egoista, non serve a riavvicinare Jean alla giovane moglie; allora egli prende a frequentare ogni giorno la casa di un amico malato di tisi, proprio quell’amico presso il quale aveva “scoperto” il libro di Nietzsche e le teorie del filosofo tedesco. In quelle visite caritatevoli, condotte con assoluta discrezione, Jean cerca e trova la risposta cristiana all’orgogliosa “morale dei signori” di Nietzsche, ossia l’amore, l’amore di carità che serve il prossimo in silenzio, umilmente, senza riserve. Contrae così egli stesso la malattia, cui l’eredità materna lo predisponeva, e deve mettersi a letto, assistendo anche, suo malgrado, alle occhiate piene di desiderio che il bel medico rivolge a sua moglie durante le visite.

Noemi, intanto, sta incominciando a comprendere il segreto del cuore del marito: un segreto di bontà, di pudore, di delicatezza, che la fanno, ora sì, ma troppo tardi, innamorare di quell’uomo piccolo e smilzo, dal viso pallido e brutto, che nessuna donna avrebbe potuto amare finché si fosse fermata all’apparenza; e, quando egli muore, decide di diventare degna di lui, di farsi forte nella propria piccolezza, di accettare il destino di solitudine legato alla sua condizione di vedova che non si risposerà, che rimarrà per sempre fedele a quel gracile, povero uomo così poco amato quando era in vita.

Vale la pena di riportare la pagina in cui Mauriac descrive l’incontro di Jean Péloueyre con la teoria nietzschiana della morale degli schiavi e di quella dei padroni (da: François Mauriac, «Il bacio al lebbroso»; titolo originale: «Le baiser au lépreux», 1922; traduzione italiana di Giuseppe Prezzolini, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1965, pp. 10-13):

 

«…Le “Pagine scelte” di Nietzsche attirarono Giovanni, che si mise a sfogliarle. Dal baule aperto emanava un odor di vestiti che abbia usato uno studente in estate. Allora Giovanni Peluèr lesse questo passo: “Che cosa è bene? – Tutto ciò che esalta nell’uomo il sentimento della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa. – Che cosa è male? Tutto ciò che ha radice nella debolezza. Periscano i deboli e i falliti; e si aiutino anche a sparire. – Che cos’è più nocivo di qualunque vizio? – La pietà che chi è nato ad agire sente per gli spostati e per i deboli: il Cristianesimo”.

Giovanni Peluèr posò il libro; quelle parole entravano in lui come la luce incendiaria di un pomeriggio entra in una camera di cui si spalanchino le imposte. Istintivamente andò, infatti, alla finestra, dischiuse la camera del suo compagno al fuoco del cielo, poi rilesse l’atroce frase. Chiuse gli occhi, li riaprì, contemplò il suo volto nello specchio: ah! Povera figura di sparuta landese, di “landesino” come lo chiamavano in collegio, triste corpo nel quale l’adolescenza non aveva saputo compiere il suo consueto miracolo, miserabile preda per il pozzo sacro di Sparta! Rivide se stesso a cinque anni dalle suore: nonostante l’elevata posizione dei Peluèr, i primi posti, i buoni punti toccavano ai bimbi ricciuti e belli. Ricordava quel’esame di lettura nel quale, pur avendo letto meglio degli altri, era stato classificato ultimo. Giovanni Peluèr si domandava talvolta se la mamma, morta tisica e che non aveva conosciuta, gli avrebbe voluto bene. Il babbo lo amava come un penso riflesso di se stesso, come la propria ombra miserabile in questo mondo, che attraversava in pantofole o disteso in fondo a un’alcova che sapeva d’etere di valeriana. La sorella maggiore del signor Gerolamo, la zia di Giovanni, avrebbe senza dubbio aborrito questo ragazzo, ma il culto, anzi l’adorazione, che dedicava a suo figlio Fernando Casnav, uomo ragguardevole, presidente del Consiglio generale e presso il quale viveva a B… l’assorbiva talmente che gli altri scomparivano; non li vedeva più; non di meno accadeva che con un sorriso, con una parola cavasse dal mondo Giovanni Peluèr, perché calcolava che questo figlio di un padre malaticcio, questo povero essere votato al celibato e a una morte prematura incanalerebbe a favore di Fernando Casnav il patrimonio dei Peluèr. Giovanni rivedeva il deserto della sua vita. Aveva consumato in amicizie gelosamente nascoste i tre anni di collegio; e né il suo compagno Daniele Trasì, né quell’abate professore di retorica avevano compreso i suoi sguardi di cane sperduto.

Giovanni Peluèr aprì il libro di Nietzsche ad un’altra pagina, e divorò l’aforisma 260 di “Al di là del bene e del male”, che tratta delle due morali: quella dei padroni e quella degli schiavi. Guardava la propria faccia arsa dal sole e tuttavia di colore giallastro, ripeteva le parole di Nietzsche, si compenetrava del loro significato, le udiva ululare dentro di sé, come un potente vento d’ottobre. Per un momento credette di vedere ai suoi piedi, simile a una quercia divelta, la sua fede. La sua fede non era là abbattuta, in quel torrido giorno? No, no; l’albero lo stringeva ancora con le sue mille radici; dopo quella raffica Giovanni Peluèr ne ritrovava in cuore l’ombra amata, il mistero sotto le fronde folte e di nuovo immobili. Ma eccolo scoprire all’improvviso che la Religione era stata per lui soprattutto un rifugio. All’orfanello bruttino aveva offerto una notte consolatrice. C’era qualcuno sul’altare che teneva il posto degli amici che non aveva avuto, e la Vergine ereditava la devozione che avrebbe rivolto alla madre. Di tutti i pensieri che lo soffocavano si liberava al confessionale o nelle silenziose preghiere crepuscolari, quando la navate tenebrosa della chiesa raccoglie quel po’ di freschezza che resta nel mondo. Allora il vaso del suo cuore si infrangeva davanti ai piedi invisibili. Si sarebbe forse mescolato al gregge delle zitelle e delle serve, se avesse avuto i riccioli di Daniele Trasì, quel viso che dall’infanzia in poi le donne non avevano cessato di accarezzare? Era uno di quegli schiavi che Nietzsche denunzia; ne riconosceva in sé la faccia volgare; e sul volto sentiva di portare una condanna inevitabile; tutto il suo essere era fatto per la sconfitta; come il padre, d’altronde, il padre anche lui devoto, ma più di Giovanni colto in teologia e datosi da poco alla lettura di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino. Giovanni, che poco si curava di dottrina, e professava una religione sentimentale, si meravigliava che quella del signor Gerolamo fosse anzitutto ragionevole. Tuttavia ricordava la frase che suo padre amava ripetere: “Senza la Fede che cosa sarei diventato?” Questa Fede, però, non arrivava fino a sfidare un raffreddore per sentir la Messa. Nelle feste solenni il signor Gerolamo si faceva sistemare nella sacrestia riscaldatissima e di là seguiva, imbacuccato, la cerimonia.»

 

In questa pagina vi è la migliore risposta alle orgogliose teorie di Nietzsche sulla volontà di potenza e sulla morale dei signori, che tanta confusione hanno portato nell’anima dei suoi lettori e che tanto hanno contribuito allo smarrimento morale dell’Europa, negli anni in cui essa incubava i germi di quella malattia dell’anima che avrebbe trovato la sua virulenta manifestazione nella tragedia epocale della prima guerra mondiale, distruttrice di una intera civiltà.

Il bacio al lebbroso di San Francesco, il curvarsi pietoso sugli ultimi, sui soli, sugli afflitti, sui derelitti, non è affatto una “morale degli schiavi”, o, se lo è, è una morale di cui si deve andare fieri, il livello più alto raggiunto dalla civiltà europea in duemila anni di storia: è l’unica risposta fattiva e operante che il bene possa opporre alle forze del male, che la vita possa dare all’istinto di sopraffazione, al peccato e alla morte.

Chi non sa vedere questa altezza, chi non sa misurare questa nobiltà, possiede la vista d’un cieco e la maturità d’un bambino viziato; vuol dire che non ha occhi se non capaci di ammirare l’esteriorità,  l’apparenza, il transitorio: non uomo, pertanto, ma infante, in eterna adorazione della forza, della giovinezza, del successo e dunque candidato al fallimento e alla disperazione, perché la vita umana è un percorso che termina, presto o tardi, con la debolezza, la vecchiaia e la sconfitta – almeno dal punto di vista del mondo.

Certo, vi sono molti che hanno cercato e che cercano, nella pratica del cristianesimo, semplicemente un rifugio: bambini anche loro, ma d’altro genere; bambini spaventati; eppure, in un certo senso, fratelli di quegli altri bambini, i nipotini di Nietzsche adoratori della forza: gli uni e gli altri, infatti, incapaci di guardare la vita così com’è, di accettarla; gli uni e gli altri spaventati dalla fragilità, dalla malattia, dalla morte. Quelli, cercano la rivincita in una pretesa superiorità “guerriera”, posando a superuomini sprezzanti della morale del gregge; questi, corrono a nascondersi nel grembo di una religione consolatoria, ma fondamentalmente impotente, rassegnata e vuota.

Fatalisti entrambi, a ben guardare: i primi perché, davanti al fato, con aria di sfida sanno solo ripetere il vuoto ritornello dell’eterno ritorno: se le cose stanno così, se la vita è questo, ebbene, ancora una volta, e poi un’altra, e un’altra ancora, così, senza senso e senza scopo, in un ciclo interminabile che è solo pazzia e inutile sofferenza; i secondi perché, piegati dal turbamento e dalla paura, si sottomettono ciecamente e si abbandonano in una resa incondizionata, non alla sapienza di Dio, ma alla propria stanchezza e incapacità di lottare.

Mauriac, grande scrittore e grande indagatore d’anime, vede bene il pericolo che si nasconde in una religione dei deboli: che la debolezza divenga il rifugio della stanchezza e della rinuncia alla lotta; mentre essa dev’essere tutt’altro: pienezza di vita, dire sì alla vita, ma non alla vita in se stessa, a questa povera vita che passa e che finisce, ma alla Vita cosmica che continua, eterna, vittoriosa, e di cui facciamo parte, purché abbiamo sia l’umiltà che il coraggio di riconoscerci uniti ad essa, tutt’uno con essa – tutt’uno con l’Essere da cui promana, inesauribile e luminosa.

Quanti uomini come Jean Péloueyre, quante donne come la sua giovane sposa, sono i silenziosi protagonisti di una vita ben spesa, pur attraverso tentazioni ed errori, attraverso incertezze e sbandamenti; di una vita ben spesa, perché offerta generosamente, non al principio dell’utile e del piacere, ma a quello del buono e del vero; non secondo ciò che è desiderabile per il mondo, ma secondo ciò che è giusto, secondo la voce misteriosa della chiamata?