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L’autunno del dollaro

di Giorgio Vitangeli - 20/07/2006

 

L’intercambiabilità tra vertici del mondo della finanza e cariche politiche e istituzionali nella democrazia americana, di cui la nomina del presidente di Goldman Sachs, Henry Paulson, a segretario del Tesoro è solo l’ultimo esempio, da qualche anno comincia ad applicarsi pure in Italia. Giano Accame ha sottolineato più volte (e torna sull’argomento nell’articolo qui a fianco) come dopo la caduta della Prima Repubblica vi sia stata una sorta di “commissariamento” della politica italiana da parte del potere bancario. Abbiamo avuto infatti un presidente della Repubblica (Ciampi) e un presidente del Consiglio (Dini), che provenivano dai ranghi della Banca centrale, e una nutrita schiera di ministri (da Barucci a Savona, da Baratta a Rainer Masera, da Nerio Nesi ad Antonio Meccanico, solo per citarne alcuni) prestati dal mondo bancario alla politica nei vari governi che si sono succeduti dagli anni Novanta. Nel governo Prodi, che ha dovuto fare spazio agli esponenti dei vari partiti e partitini dell’Unione, la rappresentanza dei banchieri è assai più esigua, ma di grande peso. La responsabilità cruciale dell’economia è stata affidata infatti a Tommaso Padoa Schioppa, già direttore generale per la ricerca economica della Banca d’Italia durante il governatorato di Ciampi, poi membro del Consiglio della Banca centrale europea.

Ma se la presenza di uomini delle banche italiane nel governo si è numericamente ridotta, si sta rafforzando la pattuglia degli ex Goldman Sachs. Lo stesso presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha fatto parte dell’International Advisory Board della banca d’affari americana, e il neogovernatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, era vicepresidente esecutivo per l’Europa della Goldman Sachs quando è stato chiamato al vertice di via Nazionale. Come pure è consulente e membro dell’International Advisory Board della banca d’affari americana Mario Monti, già commissario alla Concorrenza a Bruxelles, rettore della Bocconi, il cui nome è circolato tra i candidati a governatore di Bankitalia dopo le dimissioni di Fazio.

In conclusione: se mai il segretario del Tesoro americano verrà in Italia, a Palazzo Chigi e in via Nazionale troverà aria di casa: “casa Goldman Sachs”.

Ma Henry Paulson nell’immediato avrà ben altro di cui occuparsi: il presidente Bush gli ha affidato infatti un compito quanto mai arduo in cui i suoi predecessori sono falliti: rilanciare le fortune economiche del governo e quindi la popolarità dello stesso presidente.

Per i cittadini americani, gli elementi più preoccupanti sono una crescita in rallentamento e un’inflazione in ripresa In realtà, i punti più critici dell’economia statunitense sono quelli di sempre: il disavanzo federale e il deficit commerciale con l’estero, che chiama in causa il problema dei problemi, cioè il valore del dollaro, e il cambio con le principali monete, a cominciare dall’euro.

Qualche cifra chiarisce meglio l’entità di questi problemi.

Il disavanzo commerciale degli Stati Uniti ha toccato i 620 miliardi di dollari nel 2004. Nel 2005 ha raggiunto il record storico di 723,6 miliardi, mentre il deficit fiscale ha superato i 500 miliardi.

La percentuale di deficit commerciale finanziato da attivi in dollari di Banche centrali di Paesi stranieri è cresciuta, in questi ultimi anni, in misura rapidissima: era il 20% nel 2001; ha superato il 75% lo scorso anno. Tra i maggiori creditori il Giappone (29%), la Cina (27%), il resto dell’Asia compresa Hong-Kong (20%), mentre quote significative le hanno anche la Russia e l’Arabia Saudita.

Veniamo al valore del dollaro, e in particolare al cambio con l’euro. Nel gennaio 1999, quando cominciò ad essere quotata, la moneta europea valeva più del dollaro: 1,16 per la precisione. Tre giorni dopo era salita a 1,18.

L’euforia e l’orgoglio ingenuo per una moneta europea più forte del dollaro durò poco: l’anno dopo, l’euro era “umiliato” da un cambio sceso ben al disotto della parità: ad ottobre del 2000 bastavano infatti 0,82 dollari per acquistare un euro.

Nel 2001 il cambio oscillò da un minimo di 0,83 ad un massimo di 0,95. A gennaio 2002, quando l’euro divenne moneta circolante, il cambio era di 0,95 ed a luglio raggiunse la parità: un dollaro per un euro.

Da allora la tendenza costante è stata quella di una svalutazione del dollaro, contenuta prima, ma poi sempre più netta, pur con qualche breve recupero. Alla fine di dicembre 2003 l’euro era risalito a 1,26; a dicembre 2004 toccò il massimo storico: un euro valeva più di 1,36 dollari. Nel 2005 ha oscillato tra 1,20 ed 1,31. Attualmente il cambio è attorno ad 1,27, ma è opinione diffusa che nel breve-medio termine il dollaro si svaluterà ancora sensibilmente.

Facciamo un po’ di conti. Prendendo a riferimento il punto più alto raggiunto dal dollaro, cioè 0,82 per euro di ottobre 2000, dopo varie altalene il dollaro oggi è svalutato di circa il 55% rispetto all’euro. Conseguentemente, ceteris paribus, le merci europee costano oggi, rispetto a quelle americane, il 55% in più di quanto costavano poco più di cinque anni or sono. Il che aiuta a spiegare una certa vivacità di sviluppo dell’economia statunitense, a fronte dei lunghi anni di stagnazione di quella europea.

A questo punto si pongono tre interrogativi cruciali:

1) Quale dovrebbe essere il cambio realistico ed equo tra dollaro ed euro?

2) Quella che ha preso forma in questi anni, e che minaccia di proseguire ancora, è una svalutazione competitiva del dollaro o non è piuttosto l’emergere di un irrefrenabile declino della moneta americana?

3) Il riposizionamento atteso del valore del dollaro avverrà con un “atterraggio morbido” o con uno schianto che manderà a pezzi gli attuali equilibri monetari internazionali?

Tentiamo di accennare brevemente a qualche risposta.

Per quanto riguarda un cambio ragionevole tra dollaro ed euro, i pareri tra gli economisti sono quanto mai discordi. Alcuni infatti, sulla base dei rispettivi prodotti interni, postulano un valore del dollaro nettamente superiore a quello dell’euro. Altri, sulla base della debolezza commerciale degli Stati Uniti e del loro pesantissimo indebitamento con l’estero, affermano invece che il dollaro è sopravvalutato.

Qualche tempo fa, il premio Nobel dell’economia Bob Mundell emise un parere salomonico: il cambio dovrebbe essere uno a uno, cioè un dollaro per un euro, con una oscillazione massima del 5% al disopra o al disotto di tale parità. Ciò peraltro significherebbe, dopo oltre trent’anni di cambi liberamente fluttuanti, tornare ad un sistema di cambi fissi, e gli Stati Uniti si sono mostrati sinora pregiudizialmente contrari: manovrando i tassi secondo i propri interessi hanno privilegiato ora gli afflussi di capitali, ora l’esportazione delle merci, allargando e restringendo il valore del dollaro come il mantice d’una fisarmonica, e il mondo intero ha dovuto ballare su quella musica.

Ci troviamo dunque nella fase in cui il mantice si restringe, e il dollaro persegue una svalutazione competitiva?

Siamo giunti così alla seconda delle tre domande, e una risposta non è semplice.

Che gli Stati Uniti tendano ad una ulteriore svalutazione della loro moneta quale premessa per ridurre il disavanzo commerciale, e magari anche per dare una lezione alla “vecchia Europa”, sembra fuori discussione. «Dobbiamo mantenere il nostro vantaggio competitivo nel mondo» ha dichiarato il neo-segretario Paulson, e la dichiarazione potrebbe suonare anche come il preannuncio e la giustificazione di un dollaro debole.

Naturalmente si sprecano pure le dichiarazioni, anche da parte del presidente Bush, a favore di un dollaro forte. Ma esse vanno prese per quel che valgono: ogni Paese che decide di attuare una svalutazione competitiva, giura invece che farà di tutto per difendere il valore della sua moneta.

Questa sfasatura tra il dire ed il fare è, troppo spesso, la regola nelle relazioni internazionali. Per restare al tema del dollaro, ad esempio, gli Stati Uniti dopo aver garantito per anni che esso era as good as gold, cioè buono quanto l’oro, e dopo essersi impegnati a convertire incondizionatamente 35 dei loro dollari-carta in un’oncia d’oro, un giorno annunciarono ad un mondo allibito che quell’impegno non valeva più, e cadde così l’intero sistema monetario internazionale nato a Bretton Woods sul finire della Seconda guerra mondiale. «Non fu un crollo, fu un sabotaggio», ha scritto l’economista inglese Susan Strange.

Poi si svolsero, per anni, incontri internazionali nei quali si discuteva sulle linee e sulle regole che avrebbe dovuto avere il nuovo sistema internazionale. Ma era solo «un’ignobile pantomima», scrisse ancora la Strange. La totale deregulation del sistema monetario, infatti, agli Stati Uniti andava benissimo.

Gli americani, perseguendo i propri interessi commerciali e la competitività internazionale delle loro merci, stanno dunque oggi pilotando al ribasso il valore del dollaro, ed è questa la causa della sua debolezza? Questo probabilmente è uno degli aspetti della verità. Ma ve ne sono altri.

Qualche anno fa, nelle sue considerazioni finali, l’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, mise in risalto l’importanza della posizione patrimoniale netta verso l’estero di un Paese quale elemento alla lunga determinante del valore della sua moneta.

La posizione verso l’estero degli Stati Uniti, com’è noto, è pesantissima. Il Paese più ricco del mondo è in realtà anche il più indebitato. «I poveri che prestano ai ricchi: questo non è un sistema monetario internazionale, è uno scandalo monetario internazionale» commentava già negli anni Settanta il grande economista Robert Triffin.

Singolare e significativo, però, è che anche con un dollaro svalutato gli Stati Uniti continuino ad accusare pesantissimi disavanzi commerciali, e ad indebitarsi perciò con l’estero. Nei primi tre mesi di quest’anno il disavanzo è stato di 196,2 miliardi di dollari. Proiettato sui dodici mesi, equivale ad un deficit superiore a quello record del 2005.

Poco più di un anno fa, l’attuale ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, in un’intervista al quotidiano della Confindustria, inseriva «l’anomalia insostenibile del deficit commerciale degli Stati Uniti» tra i cinque punti critici della situazione economica mondiale. Ma aggiungeva che esso «è talmente connaturato alla struttura produttiva ed alle abitudini di consumo dell’economia americana, che è difficile pensare ad una correzione immediata». Come dire: gli americani sono così abituati a vivere al disopra delle loro possibilità, così’ “drogati” da consumi in eccesso, che è difficile pensare che possano disintossicarsi rapidamente.

Nel 2004 era stato calcolato che, per riassorbire i 620 miliardi di disavanzo commerciale e portarlo dal 5,8% del pil ad un accettabile 1%, il dollaro si sarebbe dovuto svalutare del 50%.

Attualmente, alcuni economisti prevedono che la moneta americana si svaluterà ancora in misura oscillante tra il 14 e il 40%.

C’è da aggiungere, peraltro, che gli Stati Uniti non possono spingere la svalutazione più di tanto, perché al di là di certi limiti gli effetti sarebbero controproducenti e penalizzerebbero pesantemente proprio quei Paesi (Giappone, Cina, Arabia Saudita, ecc.), che con la loro disponibilità a mantenere crediti in dollari finanziano il disavanzo commerciale statunitense.

In conclusione: il segretario al Tesoro Henry Paulson dovrà muoversi su un sentiero molto stretto, tentando di mediare tra svalutazioni calibrate e altrettanto calibrati aumenti dei tassi.

E rischia d’essere, la sua, anche una battaglia contro il tempo. I sostenitori dell’attuale “non sistema” monetaro internazionale, cosiddetto “Bretton Woods 2” , basato appunto su un dollaro sorretto dai crediti dei Paesi asiatici, immaginavano che esso potesse durare ancora una trentina d’anni: il tempo cioè necessario alla Cina per creare, grazie alle esportazioni, un sistema industriale in grado di assorbire le centinaia e centinaia di milioni di addetti ad un’agricoltura di sussistenza.

Ma recentemente le previsioni degli stessi economisti americani si vanno riducendo drasticamente. Secondo Peter Graber, «Bretton Woods2 potrà durare al massimo altri otto anni. Michael Mussa dimezza quel margine di tempo in quattro anni; Nouriel Rubini e Brad Setler già lo scorso anno stimavano che l’attuale equilibrio monetario internazionale non potesse durare più di un altro paio d’anni».

Se la loro previsione è esatta, la crisi monetaria potrebbe esplodere già l’anno prossimo.

Una cosa è certa: il ciclo dei tassi bassi, dell’inflazione sotto controllo, delle Borse in ascesa, è ormai alle spalle, e un clima di volatilità, di incertezza, di crescente nervosismo domina già tutti i mercati.