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Il significato di Filosofia

di Costanzo Preve - 18/01/2013

      


 

 

Che cos’è la filosofia? I manuali di storia della filosofia ed i dizionari filosofici ne danno diverse definizioni, in parte elencando significati storicamente dati da diverse scuole attive nella bimillenaria storia della filosofia occidentale (in realtà più vecchia di 2600 anni almeno), ed in parte proponendo loro significati, derivati dalla particolare scuola filosofica moderna e contemporanea cui si sentono soggettivamente più vicini.

Il fatto che la comunità “ideale” dei filosofi non sia mai riuscita a concordare una definizione unitaria di filosofia in più di duemila anni non è un segno di debolezza della filosofia, ma al contrario un segno della sua forza. La filosofia esprime infatti, in forma fortemente astrattizzata e concettualizzata, la scissione (Trennung) che le società umane hanno subito a causa del tramonto delle società sacerdotali-palaziali dell’antico Oriente, e della progressiva articolazione in classi sociali contrapposte di sfruttati e di sfruttatori. Se qualcuno in questa impostazione ci sente “odore di Marx”, ebbene, mi congratulo con il suo odorato da cane da tartufi. E tuttavia - ma lo chiariremo meglio più avanti - la filosofia non è un insieme di ideologie. Diciamolo in forma sintetica: le ideologie razionalizzano e giustificano interessi, individuali e collettivi, mentre la filosofia, quando è veramente tale, è sempre e soltanto una disputa per la verità, ed in quanto tale è proprietà indivisa dell’intera umanità, e non di classi, ceti, religioni o gruppi sociali diversi.

Anche le comunità dei cosiddetti “scienziati” (astronomi, fisici, chimici, biologi, geologi, zoologi, botanici, etologi, ecologi, ecc.) non procedono in una sorta di autostrada diritta senza caselli chiamata “scienza” (questa è l’immagine infantile che i “profani” hanno della scienza, idolatrata come un nuovo Dio, e quindi infallibile), ma devono sempre affrontare a scadenze temporali variabili delle “crisi scientifiche” che impongono “mutamenti di paradigma” (Thomas Kuhn), e tuttavia la stessa natura sperimentale-matematizzante della loro disciplina le porta sempre ad un codice unitario disciplinare. Gli astronomi sono sempre gli stessi a Roma ed a Stoccolma, i fisici sono sempre gli stessi a Parigi ed a Berlino, i chimici sono sempre gli stessi a Lisbona ed a Tokio, i genetisti, purché sappiano l’inglese, comunicano sullo stesso oggetto e con lo stesso metodo da Atene a Pechino.

Questo ovviamente è impossibile per la filosofia, ed è impossibile proprio per la natura stessa della conoscenza filosofica. Anziché riconoscere questa natura stessa come risorsa inestimabile, molti filosofi sciocchi e superficiali se ne vergognano, la scambiano per chiacchiericcio inconcludente premoderno indegno dei “nostri tempi”, ed allora si rifugiano scompostamente o nella religione o nella cosiddetta “scienza”. Ma in questo modo essi risolvono solo il problema psicologico dei loro complessi di ricerca della conoscenza “oggettiva”, senza capire che la cosiddetta “oggettivazione” (sia dell’oggetto come Objekt delle scienze della natura sia l’oggetto come Gegenstand della realtà sociale - direbbe Marx) è sempre l’oggetto di un soggetto, e si tratta di capire filosoficamente in che modo il soggetto si è costituito storicamente, ed in che modo questa costituzione storica influenza il modo in cui il soggetto interpreta il mondo, interpretazione che fa ovviamente da presupposto per la sua trasformazione.

Dunque, il fatto che la filosofia esista soltanto come insieme differenziato di scuole filosofiche rivali (platonici ed aristotelici nell’antichità, epicurei e stoici nell’ellenismo, kantiani e hegeliani nella modernità, marxisti filo- hegeliani e marxisti anti-hegeliani all’interno della scuola marxista, ecc.), non è frutto di errore, ignoranza o fraintendimento, ma è la normale espressione della stessa natura della filosofia.

Da questo differenziarsi antagonistico, che è un dato naturale della filosofia in quanto tale, i superficiali in genere traggono la conclusione del relativismo come carattere naturale e proprio della filosofia stessa in quanto tale. Esso può essere compendiato così: gli scienziati riescono a dimostrare in laboratorio quanto affermano; i filosofi invece non riescono mai a dimostrare quello in cui credono; di conseguenza, la verità filosofica non esiste, ed il relativismo interminabile è di fatto il solo oggetto della filosofia; i filosofi, quindi, non possono pretendere né di governare gli stati (Platone), né di influenzare i governanti (Kant, Hegel, Marx), perché non dispongono di nessun sapere stabile e sicuro, e quindi fanno bene a coltivare i loro riti linguistici solo fra di loro.

E tuttavia, il primo problema della filosofia consiste nel chiarire che non c’è contraddizione fra la fisiologica pluralità delle scuole filosofiche e la sostanziale unicità della verità, per cui la pluralità non determina necessariamente relativismo.

Che cos’è allora la filosofia? Do senza arroganza alcuna la mia definizione. La filosofia è un’attività comunitaria, che si determina necessariamente in individualità nominative. Queste individualità nominative, tuttavia, anche se sembra che passino il tempo scambiandosi solo opinioni, in realtà si muovono su di un terreno che presuppone l’esistenza della verità, per cui la filosofia ha come oggetto la verità, non il semplice scambio delle opinioni, che è soltanto propedeutico per la comprensione della verità stessa. Chi ha espresso meglio questo concetto è stato nell’antichità Platone, e nella modernità Hegel.

Già, ma cos’è la verità? Si tratta della famosa domanda di Ponzio Pilato a Gesù di Nazareth. Da qui bisogna partire. E per forza di cose, anziché una noiosa elencazione dossografica di significati che si trovano in qualunque buon dizionario filosofico, comincerò esplicitando la mia personale impostazione della questione.

La definizione di un concetto (in questo caso, il concetto di verità) deve necessariamente partire dalla sua genesi storica (Vico), e solo in questo modo può essere correttamente inteso. Quando Vico enunciò il famoso principio dell’identità concettuale fra verità e storia (verum ipsum factum) non intendeva affatto disprezzare i successi della fisica cartesiana e newtoniana, come se intendesse scioccamente assimilarli alla lettura dei tarocchi per prevedere il futuro, ma intendeva invece enunciare un principio estremamente razionale, e cioè che il concetto di verità deve essere limitato al solo significato globale dell’esperienza umana collettiva e comunitaria nella storia. La verità è quindi la totalità concettuale dell’esperienza umana, indagata  sia dal lato della sua genesi storica (in tedesco Genesis), sia dal lato della sua validità transtemporale, e cioè un certo senso eterna, nel senso di eterna fino alla permanenza della razza umana e del sistema solare (in tedesco Geltung).

E’ quindi fondamentale non usare scorrettamente il termine di verità (Aletheia Veritas, Wahrheit, ecc.) riferito ad accertamenti fattuali, certezze fisiche, esattezze matematiche, utilità empiriche per il singolo individuo. Parigi è certamente capitale della Francia, ma questo non ha a che fare con il concetto di verità. Il diabetico per sopravvivere deve usare l’insulina, ma questo non ha a che fare con il concetto di verità. L’acqua bolle a cento gradi, ma questo non ha a che fare con il concetto di verità. Due più due fa quattro, ma questo non ha a che fare con il concetto di verità. E potrei continuare così per mille pagine, ma faremmo soltanto confusione, ed alla fine dell’interminabile esemplificazione non ci saremmo avvicinati di un millimetro al concetto di verità.

Quale è la genesi storica del concetto di verità, in un momento storico in cui non esistevano ancora “rivelazioni religiose” (Antico Testamento, Nuovo Testamento, Corano, ecc.), e tantomeno laboratori scientifici di sperimentazione? Per i nostri lontani progenitori la verità (comunque essi la chiamassero), lungi dall’essere un’innocua opzione filosofica, era soltanto la massimizzazione pratica delle possibilità di sopravvivenza e di benessere della comunità, per cui il “Vero” era ciò che massimizzava queste possibilità, e il “Falso” era invece ciò che le minimizzava, e le metteva invece in pericolo mortale. 

Non bisogna pensare che questa sia una definizione di tipo “utilitaristico”, in quanto la verità sarebbe a questo punto definibile soltanto come utilità complessiva della comunità. La scuola detta “utilitaristica” nasce soltanto a partire dal Settecento inglese (Hume, Smith, ecc.), prima non esisteva per nulla (a meno che la si identifichi con la banalità tautologica per cui ognuno spesso punta al suo utile personale, ovvietà che non ha nessun bisogno di ragionamento filosofico), e consiste in un’autofondazione su se stessa dell’economia politica capitalistica, che per autofondarsi non ha nessun bisogno delle tre teorie precedenti prevalenti (rivelazione religiosa ed etiche da essa derivate; diritto naturale o giusnaturalismo; contratto sociale o contrattualismo). In realtà questa definizione di verità non è utilitaristica, ma invece è comunitaria, perché la comunità è ad un tempo il soggetto e l’oggetto della sua riproduzione.

La filosofia nasce quindi come un’attività comunitaria (anche se si determina necessariamente attraverso individui nominativi, da Talete a Confucio), e nasce per rispondere ad un bisogno sociale complessivo, quello di porre un freno (katechon), anzi un freno razionale (logos), anzi un freno razionale socialmente discusso (dia-logos) ai processi di dissoluzione della comunità in cui viene prodotta, processi che in Grecia erano metaforizzati sotto la categoria di natura (physis), a causa dell’ancora vigente rapporto simbolico fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale (secondo la corretta interpretazione del grammatico alessandrino Diodoto del poema di Eraclito, come ho già spiegato in molti miei scritti). Nei primi filosofi greci (erroneamente chiamati “presocratici” dalla tradizione dossografica posteriore) le categorie storiche e politiche sono pertanto quasi sempre metaforizzate attraverso concetti naturali (ma anche in Cina avviene lo stesso, pensiamo al Tao di Lao Tse). In particolare, il fattore principale di dissoluzione delle comunità è metaforizzato in Grecia con il termine di infinito-indeterminato delle ricchezze (l’apeiron di Anassimandro, le chremata di Aristotele), nonché l’irrazionale prepotenza del potere che si svincola da ogni controllo sociale e comunitario (la hybris del tiranno nella tragedia greca). In definitiva, la filosofia in Grecia nasce come attività comunitaria volta alla preservazione della comunità politica, messa in pericolo da due fattori sociali principali, l’infinitezza ed indeterminatezza delle ricchezze (l’apeiron di Anassimandro) e la prepotenza irrazionale del tiranno (la hybris dl tiranno Creonte nella tragedia Antigone di Sofocle).

Questa genesi comunitaria e veritativa della filosofia (i due termini devono sempre essere ricordati insieme, perché fanno concettualmente tutt’uno) non può essere ideologicamente accettata all’interno di una società divisa in classi antagonistiche, di cui una sfrutta e l’altra è sfruttata. È questa la ragione principale della grandezza di Marx. La rimozione (non importa se in buona fede o in mala fede) di questo fatto è un elemento fondativo della stessa storia della filosofia, e ne forma in un certo senso lo scheletro strutturale. In proposito, può essere utile ricordarne alcuni passaggi.

Per Aristotele, che nel suo primo libro della Metafisica scrisse quella che in un certo senso è la prima organica storia della filosofia occidentale prima di lui, la filosofia non nasce da una risposta razionale comunitaria ad un pericolo imminente di dissoluzione sociale (apeiron delle ricchezze, hybris del tiranno, risposta dei grandi filosofi-legislatori, come Parmenide, Solone, Clistene, ecc.) ma nasce da un ‘astratta e completamente astorica meraviglia, cui rispondono alcuni signori chiamati “filosofi”, che si dividono metodologicamente a seconda di quale delle quattro cause del mondo privilegiano e prediligono (causa materiale, formale, efficiente e finale). Dato l’indiscutibile genio di Aristotele, possiamo spiegare la sua rimozione della nascita comunitaria della filosofia (dissimulata con la teoria del tutto astorica delle quattro cause) non certo a causa di ignoranza o errore, ma a causa di una ben precisa collocazione di classe (in questo caso, la classe dei medi proprietari schiavistici). Per Tommaso d’Aquino, che nella sua Summa Theologica non parla solo di Dio, ma interpola continuamente nella sua trattazione temi sociali (fra cui il fatto che rubare per necessità di sopravvivenza non è nemmeno un peccato), non si trattava certo di salvare dalla dissoluzione la polis greca, che non esisteva più da almeno mille e cinquecento anni, ma di “far passare” attraverso la metafora della totalità divina teologicamente razionalizzata una versione “umanizzata” dello sfruttamento feudale sui contadini e dello sfruttamento manifatturiero e mercantile delle classi subalterne.

Per Cartesio, che inaugura idealmente il pensiero moderno, e cioè il pensiero astratto omogeneo al lavoro astratto capitalistico, che richiedeva quindi un soggetto astratto che lo pensasse ed interpretasse, si trattava (secondo la geniale interpretazione di Martin Heidegger) di riconvertire il vecchio problema della verità nel nuovo problema della certezza del soggetto, più esattamente della certezza della rappresentazione del soggetto. Questo “sradicamento” del soggetto ridotto a pura capacità conoscitiva astratta (cogito ergo sum) era funzionale al suo sradicamento da qualsiasi comunità normativa precedente. Locke, Hume e Smith, sia pure in forma empiristica ed utilitaristica, portarono a termine questo processo di sradicamento integrale del soggetto da qualsivoglia normatività religiosa e sociale. Ovviamente, questo fatto è occultato (e spesso neppure sospettato) dalle storie dossografiche tradizionali di storia della filosofia.

Kant, il grande pensatore “moderno” per eccellenza, portò a termine almeno due processi storici fondamentali. In primo luogo, con la separazione metodologica fra le categorie gnoseologiche del pensiero e le categorie ontologiche dell’essere (separazione non solo inesistente, ma addirittura impensabile per il pensiero greco, per la teologia tomistica, ed infine per lo stesso razionalismo cartesiano), tracciò una divisione insuperabile fra la scienza e la teologia, teorizzò l’indimostrabilità dell’esistenza di Dio, ed in questo modo colpì alla radice, sia pure in modo indiretto, le pretese normative in senso politico della vecchia religione, che da secoli funzionava come strumento di legittimazione della società feudale-signorile, laddove la borghesia con la sua nuova religione economica poteva lasciare alla vecchia religione soltanto uno spazio di pratica privata e/o di culto pubblico puramente devozionale. In secondo luogo, con la sua critica spietata alle cosiddette “morali eteronome” (e cioè religiose e / o sociali e comunitaristiche) e con la sua teoria del tutto astratta, individualistica ed inapplicabile socialmente dell’imperativo categorico, tolse alla morale pubblica (altrimenti detta etica oppure eticità) ogni carattere che non fosse la somma di morali di individui autonomizzati. E del tutto evidente che questa funzione sociale della filosofia kantiana deve essere epurata dai testi di storia della filosofia, così come le riviste cattoliche epurano fotografie di attricette con il seno scoperto.

Hegel sviluppa la sua mirabile riflessione filosofica alcuni decenni dopo Kant, e quindi la “ragione sociale” indiretta del suo pensiero non può essere quella di Kant. Questo fatto, ovviamente, è occultato dalle storie dossografiche della filosofia, che trattano il passaggio dal criticismo all’idealismo per linee gnoseologiche rigorosamente “interne”, come se si trattasse di una noiosa discussione accademica di tipo metologico. Ovviamente non è così. Kant, culmine ideale dell’Illuminismo settecentesco, doveva delegittimare le pretese socialmente normative di una metafisica religiosa ancora in piedi e di un’etica variamente o gerarchica o scettica, e per questo doveva passare necessariamente attraverso l’accorgimento gnoseologico della separazione fra le categorie funzional-conoscitive del pensiero e le categorie logico-ontologiche dell’essere. Ma nel frattempo c’era stata la rivoluzione francese del 1789, che aveva già delegittimato concretamente il sistema sociale feudale-signorile che Kant aveva delegittimato teoricamente, e non ce n’era pertanto storicamente più bisogno. Ma il nuovo pensiero di legittimazione borghese-capitalistico doveva arrestare a Kant l’intera storia della filosofia, perché gli era funzionale un pensiero che ad un tempo delegittimasse le pretese normative della religione (di qualunque religione che non accettasse il suo confinamento privato o devozionale) e ponesse la morale sull’esclusivo terreno individualistico (il “robinsonismo” di Marx), togliendole ogni aspetto comunitario (secondo l’ottima critica di Alisdair Mclntyre).

E tuttavia Hegel non si sente più obbligato a delegittimare qualcosa che la storia aveva già delegittimato, e per questa ragione può restaurare l’unità ontologica delle categorie dell’essere e delle categorie del pensiero. Questa restaurazione è chiamata da Hegel dialettica, anche se ovviamente non può trattarsi della stessa dialettica di Platone o di Plotino, perché nel frattempo la storia aveva acquistato una nuova valenza di fondamento della conoscenza estraneo al mondo antico (la conoscenza non come rispecchiamento di una natura esterna ma come processo di progressiva autocoscienza di un soggetto umano pensato come Soggetto con la esse maiuscola, cioè come concetto di tipo autoriflessivo).

Hegel sa bene che il mondo in cui ormai vive non è più caratterizzato dalla necessità kantiana di assicurare l’uso pubblico della ragione, ma è una “epoca di gestazione” e di trapasso ad un mondo nuovo, che però per il momento è privo di fondamenti veritativi, dato che ha perso quelli vecchi, ma non ne ha ancora acquisiti di nuovi. Si tratta di quella che Fichte aveva già definito “epoca della compiuta peccaminosità”, e che lo stesso Hegel aveva definito come “passaggio dialettico dall’epoca dell’ascetismo della morale all’epoca dell’avvento del regno animale dello spirito). Qui ha origine la distinzione fra moralità individuale della coscienza ed eticità comunitaria dei costumi, e fra società civile come luogo del riconoscimento della professionalità del lavoro (le corporazioni) e lo stato come luogo dell’interesse pubblico e della realizzazione pacifica delle conquiste della rivoluzione francese (secondo Koselleck il termine tedesco di allora Staat non indicava un baraccone burocratico e poliziesco, ma l’equivalente di république in francese e di commonwealth in inglese).

Marx eredita integralmente da Hegel il concetto di verità come unione dialettica di Soggetto e di Totalità, o più esattamente di autocoscienza del soggetto e di natura dialettico-processuale della totalità, ma non si accontenta della società borghese come luogo della composizione armoniosa fra Reale e Razionale (Marcuse). E non se ne accontenta perché sviluppa in modo radicale e consequenziale le due figure dialettiche hegeliane del rapporto di riconoscimento Servo-Signore e del soddisfacimento della Coscienza Infelice (spostata dal Dio medioevale alla natura universalistica del pensiero illuministico). Egli vuole non solo il “riconoscimento”, ma la fine di ogni separazione classista fra gli uomini, e vuole infine un universalismo reale e non solo formale.

Il pensiero di Marx si divide dialetticamente in due correnti apparentemente opposte, ed in realtà complementari (Lukacs le battezzò correttamente come in “solidarietà” antitetico-polare). Da una parte, data l’insufficienza del soggetto storico-politico di riferimento (la classe operaia, salariata e proletaria), il pensiero di Marx, che nella sua essenza è la terza ed ultima forma di idealismo europeo (dopo quelle di Fichte e di Hegel), dovette necessariamente riconvertirsi in una forma di positivismo di sinistra, chiamato “marxismo”. Dall’altra, i vari “ritorni a Kant” e le varie derivazioni di tipo relativistico (Nietzsche, Weber, ecc. - ma Weber è solo un Nietzsche educato e compatibile con il sistema universitario), e tutto ciò che poteva in qualche modo svuotare e delegittimare il carattere comunitario (Hegel) e rivoluzionario (Marx) della filosofia.

Dopo questo breve e conciso excursus sulla storia della filosofia torniamo ora brevemente al concetto comunitario e veritativo della filosofia stessa. Verità e comunità in ultima istanza si identificano, ma soltanto in senso idealistico. Spieghiamoci meglio. Una comunità di cannibali non è veritativa. Una comunità di tagliatori di teste non è veritativa. Una comunità di razzisti non è veritativa. Una comunità che lascia una parte della popolazione priva di cibo, indumenti, assistenza medica, abitazione, lavoro stabile ed onestamente pagato non è veritativa. E potremmo ovviamente fare molti altri esempi. Se infatti assumiamo concettualmente la comunità come centro di sovranità relativistica dei valori sociali, e non come centro di pratica di valori (idealmente) universali, allora la Germania di Hitler, la Russia di Stalin, gli USA di Bush, e l’Israele dei sionisti sarebbero comunità a tutti gli effetti.

Bisogna allora riconoscere che i tre termini di comunità, verità ed idealismo sono - se non sinonimi - almeno collegati dialetticamente insieme. Più esattamente, la filosofia può essere riassuntivamente definita provvisoriamente così: la filosofia è un’attività comunitaria, che si determina necessariamente attraverso individui caratterizzati nominativamente, ed appartenenti a diverse scuole filosofiche; la filosofia, a differenza delle scienze naturali e della matematica, non può per sua stessa natura giungere ad un codice teorico unificato unitario; la filosofia nasce storicamente come risposta comunitaria ad un pericolo di dissoluzione della società, cui cerca di fornire un freno razionale e soprattutto efficace; la verità nasce come concetto da questa esigenza comunitaria, e deve essere distinta da nozioni diverse come certezza, esattezza, utilità, fede religiosa, opinione personale, verificabilità, falsificabilità, convenzione, ecc.; l’incontro fra verità e comunità non può essere che “idealistico”, in quanto concretamente non può mai determinarsi una volta per tutte e definitivamente, e presuppone una “ideale” comunità, razionale e libera. Comunità, verità, ed idealismo sono quindi coincidenti, ma coincidenti solo in ultima istanza. Per finire, il manualismo dossografico delle abituali storie della filosofia non può per sua natura attingere questa consapevolezza, ma deve nasconderla attraverso l’artificio della partenogenesi delle idee una dall’altra, trasformando la storia della filosofia in “disordinata filastrocca di opinioni” (la definizione è di Hegel), in scontri ideologici fra classi contrapposte senza valore di verità, riservata solo alla cosiddetta “scienza” (Althusser ed i suoi seguaci), in approssimazione propedeutica alla fede religiosa, unica sola fonte di verità (Tommaso d’Aquino, Joseph Ratzinger, ecc.).

Ma chi si mette su questa strada non può arrivare alla filosofia in senso proprio.

 

Dal libro di Costanzo Preve  “Lettera sull’Umanesimo”

Editrice Petite Plaisance 2012 pp. 270, € 18,00