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La tecnologia non può redimere l’uomo: dunque, la civiltà tecnologica è perduta

di Francesco Lamendola - 01/02/2013


 

La vecchia e ormai stucchevole discussione se la scienza e la sua derivata, la tecnica, siano un bene o un male per la maturità etica dell’individuo e della società, sempre più malamente riesce a celare, dietro i suoi veli pretestuosi, il problema di fondo che si cerca di occultare, proprio sommergendoci sotto un mare di chiacchiere insulse: e cioè che la scienza e la tecnica, o meglio l’odierna tecno-scienza, non sono in grado di salvare nessuno, né l’individuo, né la società, per il loro stesso statuto ontologico; eppure, surrettiziamente, si cerca in continuazione di suggerire proprio questa conclusione, cioè che da esse verrà la nostra redenzione.

La tecno-scienza ci han già aiutati in tante circostanze, dalla lotta alle malattie epidemiche ai trapianti d’organi, e ci ha già reso la vita comoda in tante maniere, allungando, si dice, la sua durata media, che non si esita a suggerire, sia pure in maniera obliqua e indiretta, che essa, prima o poi, riuscirà a sconfiggere anche l’ultimo nemico: la morte; e che, nel frattempo, possiamo fidarci di essa quanto basta per sottoscrivere una cambiale in bianco: dignità, autodecisione, senso morale, tutto può essere accomodato, aggiustato e, se necessario, sospeso, in nome del bene supremo che la tecno-scienza è in grado di offrirci: una vita sempre più comoda, un benessere sempre più grande, una sicurezza tale da coprire quasi tutti i fattori di rischio, che rendevano tanto incerta e tribolata l’esistenza dei nostri nonni e dei nostri progenitori.

Il problema è proprio questo: che la comodità, il benessere, la sicurezza sono stati realmente accresciuti, nessuno lo nega e nessuno potrebbe farlo; ma, insieme ad essi e contemporaneamente, sono cresciuti anche una serie di effetti collaterali, da essi ineliminabili, di segno negativo, che hanno reso la nostra vita più difficile, più problematica, più angosciosa. Si pensi solo, tanto per fare un esempio, alle malattie iatrogene, provocate, cioè, dalle cure stesse o dalle strutture sanitarie, che formano una percentuale tutt’altro che secondarie delle malattie che la nostra tanto vantata medicina moderna si vanta di potere, essa sola, diagnosticare correttamente e curare. Tutto nasce dalla grande illusione e dal grande inganno dell’Illuminismo: che il benessere sia press’a poco sinonimo di felicità; che il progresso porterà a tutti benessere e felicità; che la ragione, la ragione critica e spregiudicata, metterà in moto la ruota del progresso; e che il metodo empirico e sperimentale, formulato da Galilei oltre un secolo prima, sia il solo modo giusto per accostarsi alla conoscenza del reale, il solo che possa dare risultati esatti e, quindi significativi e utili per l’umanità: insomma, il solo capace di realizzare il progresso.

Il metodo empirico e sperimentale, così come è stato formulato da Francis Bacon, Galilei, Cartesio, Newton, e come è tuttora divulgato dalla cultura dominante, parte da una premessa rigorosamente meccanicista: l’universo è una macchina; le sue leggi sono fisse e immutabili; sono anche traducibili in termini matematici; dunque, quello matematico è il solo metodo corretto per porsi davanti alla natura e, per estensione, davanti a se stessi, davanti al prossimo, davanti a Dio (al punto che Galilei, che si ritiene un buon credente, nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi» si spinge ad affermare che, quanto alla certezza delle conoscenze matematiche, quella posseduta dell’uomo è pari a quella di Dio stesso).

E poco importa che fior fiore di scienziati e di filosofi, a cominciare da Émile Boutroux, abbiano mostrato, da più di un secolo, tutta l’inconsistenza e la fallacia di una simile armatura concettuale: della pretesa della scienza, in particolare, di porsi come sapere “certo”, e, a maggior ragione, della pretesa della scienza non solo di poter spiegare, un poco alla volta, i misteri della natura, ma anche di potersi ergere a sapere normativo nel campo della ragion pratica, dell’etica; in poche parole, di dirci cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia lecito e cosa sia illecito, cosa sia giusto e cosa sia ingiusto, e che cosa noi dobbiamo fare e come dobbiamo regolarci davanti alle scelte che ci si pongono nel corso della vita.

La verità è che nella natura non ci sono affatto delle “leggi”, perché quelle che noi chiamiamo pomposamente leggi  (addirittura costanti e immutabili, secondo Galilei), altro non sono che le etichette che noi applichiamo a una realtà che, nella sua intima essenza, ci sfugge inesorabilmente: il “noumeno” kantiano, l’”in sé” delle cose, di cui non sappiamo nulla, perché, come diceva il buon vecchio Berkeley, “esse est percipi”, essere è l’essere percepito, e tutto ciò che noi sappiamo e conosciamo della natura, in realtà lo conosciamo per mezzo dei nostri sensi, dentro la nostra mente e non “fuori”. E le scoperte più recenti nel campo della scienza, specialmente nella fisica delle particelle sub-atomiche, come il principio di indeterminazione di Heisenberg, altro non hanno fatto che confermare questa semplice verità: non c’è nessuna legge inerente ai fenomeni della natura, anzi, già il solo fatto di osservarli significa agire su di essi e  modificarli. E dunque tali fenomeni non sono nella natura, o, se lo sono, la loro vera essenza sfugge inesorabilmente al nostro sguardo; noi vediamo solo ciò che crediamo di vedere, solo ciò che la nostra mente è in grado di organizzare e i nostri sensi sono in grado di percepire; ma non vi è la minima prova a sostegno del fatto che quanto vi è nella nostra mente e nei nostri sensi coincida con quanto esiste realmente al di fuori di noi, in un supposto regno della natura che esista indipendentemente da noi, che lo pensiamo e che lo osserviamo.

Ha osservato in proposito Vittorino Andreoli nel suo ampio studio «Principia. La caduta delle certezze» (Milano, Rizzoli, 2007, pp. 46-50):

 

«Si ammetteva che la scienza genera la tecnologia: con i suoi vantaggi ma anche danni altrettanto evidente.  E proprio in questa relazione si intravide persino il male della scienza. “Sapere è potere, è stato detto; ma, ahimè, se il potere p bene,  è anche potere il male” (L: De Broglie, “Materia e luce”, Bompiani, Milano, 1943). Non è facile separare le due espressioni, e sovente i danni della tecnica  si riversano negativamente sulla scienza.  Johann Wolfgang von Goethe stesso fa sì che Faust, l’eroe del secolo, esplorati i campi dello spiriti e della vita terrena,  rivolga alla tecnica il suo ultimo pensiero:  morente, placato, davanti allo spettacolo delle vaste lande demoniacamente  bonificate, sa che nella tecnica si adempirà il destino dell’economia, ma non dello spirito. Faust non si è redento e la maledizione mefistofelica ha continuato a tormentare  i suoi seguaci: la tecnica non è sufficiente a redimere. Non può certamente essere la sola tecnica a salvare una civiltà.

Un esempio: se la civiltà greco-romana cadde, ciò fu per il lento oscuramento e per la dispersione  di un patrimonio culturale faticosamente accumulato, e non per ragioni esterne come le invasioni barbariche. Finché il desiderio di fedeltà alla propria storia sarà vivo, e forse oggi non lo è più nella nostra civiltà non vi è da temere una decadenza e una fine e ciò indipendentemente dalla tecnologia.

La Serenissima Repubblica di Venezia crolla dopo un millennio di dominio e non si riesce trovare alcu fatto notevole che ne giustifichi la fine. A venire meno sono la perdita di “fiducia” nelle istituzioni che ne erano state alla base e il modo stesso di percepire Venezia e il suo ruolo. Insomma, la caduta è prima di tutto legata alla stanchezza, all’esaurimento dei principi e della cultura che l’aveva vista nascere e dominare con uno stile proprio e mai più ripetutosi nella storia.

José Ortega y Gasset grida l’allarme della specializzazione ne “La ribellione delle masse” (1929-30). Ha parlati di “barbarie della specializzazione”, che è un fenomeno tipico delle scienze e delle tecnologie sia pure considerate in senso ampio Insomma, non è alla tecnologia che si può legare una civiltà,  e nemmeno la sua fine. Il problema del nostro tempo  è se la civiltà, FONDATA SULLA RAGIONE,  possa sopravvivere mentre la ragione crolla o è del tutto scomparsa.

Quando la scienza del mondo classico decadde,  i contemporanei non se ne resero conto, essi pensavano anzi  di avere progredito sostituendo vaste e ben ordinate enciclopedie agli scritti disordinati e frammentari dei precursori.  E quando la superstizione dominò,  con i neopitagorici e con gi ultimi rappresentanti  del neoplatonismo, gli uomini del tempo non si resero conto che stavano perdendo qualcosa di prezioso, la sobria chiarezza della ragione e i tesori del sapere, al contrario erano convinti di scoprire o riscoprire nuovi mondi  e ben più ricchi. La decadenza morale  vera e propria si ha quando il senso dell’onesto  si ottunde e non quando i moralisti tuonano contro la corruzione dei tempi. Che oggi la scienza sia in crisi è indubbio, ma occorre vedere in che cosa consista questa crisi. I grandi risultati che la scienza continua ad accumulare sono fuori discussione,  sono prodigiosi, ma riguardano la vita materiale,  e non il sapere vero e proprio. Innanzitutto costituiscono  essi stessi un problema, per  il differente uso che se ne può fare:  non sono il bene in sé, ma devono servire al bene che però le scienze del mondo fisico non sanno da sole definire o indicare. La “Scientia” deve essere guidata dalla “Sapientia”, avrebbe detto uno stoico. Ed ecco ancora come dalla scienza nasca un problema filosofico, che deve assolutamente coinvolgere lo scienziato in quanto egli è anche uomo. Inoltre, se non si può andare contro la scienza, pretendendo di correggerla  in base alle nostre esigenze e ai nostri principi, non ci deve neppure aspettare che la scienza possa fornirci la soluzione di quei problemi insopprimibili che sono veramente e genuinamente filosofici.  Non si può nutrire l’illusione scientista che i problemi  che toccano più da vicino l’umanità possano essere risolti,  o che lo saranno un giorno, ma grazie a qualche scoperta scientifica. I fatti, campo esclusivo della scienza sperimentale, non bastano più a se stessi: per spiegarli è necessario introdurre uno straordinario numero di ipotesi,  e queste sono attualmente così contrastanti tra loro da costituire da sole un problema, e di una tale complessità   che non può, almeno per ora, essere risolta sperimentalmente.  La scienza, insomma, ha scoperto in sé tutto un mondo di problemi  che sono di natura filosofica ed è così divenuta essa stessa, nel suo costituirsi e svilupparsi, un problema filosofico. […] Quanto siamo lontani dalla “pacifica filosofia sicura”  del Settecento, quando sembrava  che ogni segreto della natura fosse stato svelato o stesse per esserlo. […] Dunque non c’è dubbio, la scienza non ha risolto i problemi   della conoscenza, semmai li ha complicati   e, a parte i progressi nella vita pratica e i disagi che si mescolano, ha lasciato l’uomo nel dubbio, nel’incertezza e nella disperazione. In questo senso si parla di crisi di una civiltà e certo a farlo non sono delle Cassandre, ma già Oswald Spengler, nel “Tramonto dell’Occidente”, parla di una decadenza della civiltà legata all’incertezza della scienza e all’indeterminazione di ciò che ci racconta. Non siamo lontani da quanto affermava un medico veronese del Cinquecento, Girolamo Fracastoro, lo scopritore delle cause della sifilide (il “treponema pallidum”) nell’epistola a “Flaminium et Galeatum  Florimintium”: “che dirò mai ch’io faccia, qual vita dirò chi’io conduca, se, misero, inquieto,  indago sempre ed invano il mondo  che mi sfugge, se, appena  per poco si mostra, a me, sì come Proteo, già  presto mutato d’aspetto,  in mille modi m’inganna?”»

 

Il libro di Vittorino Andreoli è stato strapazzato malamente da certa critica saccente e superciliosa, vuoi per l’uso disinvolto delle fonti, vuoi per la pesantezza dell’impianto e la scarsa profondità delle tesi filosofiche; è stato rimproverato all’autore il fatto che egli, come psichiatra, non avrebbe dovuto avventurarsi su un terreno non suo - argomento che per noi vale zero, perché quello che conta in un libro non è il titolo di studio di chi lo ha scritto, ma la bontà di quanto vi è esposto. E, anche se è vero che non si tratta di un’opera particolarmente profonda e originale, nondimeno è una buona sintesi delle vicende storico-culturali che hanno portato alla odierna crisi delle certezze, partendo dalla matematica e dalle scienze e giungendo fino all’ambito religioso e morale; di un’opera sostenuta da chiarezza di idee e da uno stile limpido, scorrevole e comprensibile a tutti – il che non ci sembra affatto un limite, semmai un pregio, anche se forse è proprio questa una delle cose che danno tanto fastidio a certi filosofi di professione, i quali si ha l’impressione che amino esprimersi in modo quanto mai criptico, proprio per tenere alla larga dalla loro riserva di caccia gi estranei non autorizzati e i non addetti ai lavori.

Ma venendo al brano che abbiamo sopra riportato, ci sembra che esso si presti a una utile riflessione sul rapporto tra lo sviluppo delle scienze, culminato, a partire dal XVII secolo,  nella loro franca dittatura, e la crisi non solo di certezze, ma anche di valori, nella quale ci stiamo dibattendo e dalla quale sembra che niente e nessuno siano in grado di risollevarci, restituendoci sia pure un minino di serenità per il futuro e di fiducia nel senso della nostra vita.

Non si tratta, è vero e lo ripetiamo, di concetti nuovi; Drieu La Rochelle, fra gli altri, lo aveva già detto almeno ottant’anni fa, allorché affermava che l’umanità ha bisogno di ben altro che di macchine, per ritrovare l’equilibrio e la pace con se stessa; pure, nel coro desolante degli asini conformisti che ragliano a comando, tutti insieme, le stesse stupidaggini neopositiviste, imbevute di materialismo grossolano e di meccanicismo ingenuo e superato dai fatti, nondimeno sgradevole e arrogante, il fatto che qualcuno li riprenda e li sappia esporre con sufficiente chiarezza e capacità argomentativa, non può che essere considerato in maniera positiva.

La conclusione a cui necessariamente si arriva, dopo aver preso atto che nessuna tecnica può redimere l’uomo, né potrebbe salvare il nostro mondo, è che la nostra civiltà, nella misura in cui si fonda sulla pretesa, o sull’illusione, che la tecnologia ci possa redimere, sta letteralmente poggiando sul vuoto; e, quindi, che essa è perduta, e noi con lei.

Se vogliamo scongiurare una simile prospettiva, se vogliamo allontanare lo spettro del tramonto, del collasso, dell’implosione, non ci resta altra strada che quella di riconoscere l’errore commesso, di fare ammenda della nostra presunzione, di purificarci con un salutare bagno di umiltà; e ritirare al più presto la cambiale in bianco che, imprudentemente, abbiamo rilasciato al Dio falso e bugiardo della tecno-scienza, investendo quest’ultima di un ruolo che non le compete e che non appartiene al suo statuto ontologico.

La tecnica, per definizione, è un mezzo: e come potrebbe un semplice mezzo, una tecnica appunto, sostituirsi ai valori e indicarci quali fini dobbiamo perseguire, quali dobbiamo evitare, e che cosa dobbiamo ritenere giusto e degno di essere realizzato nella nostra vita?