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L’uomo è insaziabile per natura e tutto gli sembra poco, perché la sua patria è l’infinito

di Francesco Lamendola - 26/02/2013




 

Che l’uomo sia una creatura dalle brame e dagli appetiti insaziabili, e che nulla riesca mai a soddisfarlo, nulla riesca a placare la sua fame e la sua sete congenite, non è una ipotesi o una teoria filosofica, ma una semplice constatazione che chiunque può vedere confermata cento volte al giorno, osservando se stesso prima ancora che gli altri.

Da questa insaziabilità può derivare – e, di fatto, storicamente è derivata – una tendenza al giudizio negativo sulla sua natura, una condanna senza appello, un radicale pessimismo antropologico: l’uomo è quell’essere che non placa mai la sua fame e che, pur di placarla, è capace di commettere qualunque assurdità, qualunque bassezza, qualunque crimine.

Eppure, prima di emettere un giudizio di valore, bisognerebbe porsi una domanda ulteriore: sì, l’uomo è perennemente affamato e assetato: ma di che cosa? Se prima non specifichiamo questo, se non cerchiamo di comprendere questo, non dovremmo avventurarci ad esprimere un giudizio di merito, tanto meno un giudizio di condanna.

La natura umana, infatti, sarebbe da biasimare se l’insaziabilità dell’uomo fosse ineluttabilmente diretta verso gli appetiti più bassi, i quali, per la loro stessa natura, sollecitano le facoltà meno belle dell’anima: l’invidia, la rabbia, il cieco desiderio di possesso. Ma siamo proprio sicuri che la sua insaziabilità sia di un tal genere? Oppure la sua fame è una fame indistinta, che non l’uomo in generale, ma i singoli esseri umani, ciascuno come caso particolare, unico e irripetibile, sono portati a soddisfare mediante una SCELTA di determinati fini e, dunque, mediante l’adozione dei mezzi ad essi corrispondenti?

Alcuni filosofi, per esempio Machiavelli e Hobbes, hanno preso atto della inquietudine e della insaziabilità della natura umana, e ne hanno tratto un giudizio sprezzante verso di essa; salvo poi, contraddittoriamente, teorizzare un Principe o uno Stato assoluto capaci di tenere a bada quelle tendenze distruttive: come se il Principe non fosse anch’egli un essere umano e come se lo Stato, assoluto o no, non fosse pur sempre governato da esseri umani, frutto di menti umane, espressione di desideri e di timori umani.

Tuttavia, prima di asserire che gli uomini sono cattivi o che sono vili, infingardi, traditori, violenti  (tutte cose di cui la storia e la semplice osservazione ci danno infiniti esempi; ma ce ne danno pure di segno opposto), bisognerebbe vedere se la loro inquietudine, se la loro stessa insaziabilità non possano essere l’indizio di una energia potenzialmente positiva, tale, cioè, da poter risvegliare in essi la parte migliore, la più nobile, la più generosa e spirituale.

L’anima umana è inquieta, dunque: ma perché? Di che cosa ha fame e sete? Per cercare che cosa gli uomini si agitano continuamente; in vista di che cosa si tormentano sempre, per raggiungere quale bene essi vorrebbero avere sempre di più? Questo è il punto.

I filosofi di tendenza materialista rispondono: gli uomini hanno fame e sete di tutto, di qualunque cosa, perché cercano il massimo bene possibile, che è la felicità.

Questa, però, è una affermazione non suffragata da alcun ragionamento; peggio, essa è giocata sul filo di una ambiguità semantica, perché “felicità” è una parola che ciascuno può tirare per un angolo e trascinare nella direzione che desidera, per farle significare quello che vuole. La verità è che non esistono due sole persone al mondo che intendano la stessa cosa quando adoperano il vocabolo “felicità” – e ciò, sia detto fra parentesi, è il più vibrante, il più netto, il più inappellabile atto d’accusa contro tutte quelle filosofie, a partire dall’Illuminismo, le quali pretendono di “portare la felicità agli uomini”, come se esistesse una ricetta universale per la felicità, valida per tutti e per ciascuno, che si possa calare dall’alto, così come si applica il teorema di Pitagora a qualsiasi problema di geometria relativo ai triangoli rettangoli.

La felicità, dunque: si pretende che essa sia lo scopo dell’esistenza, che essa sia il fine cui tutti gli uomini tendono.

E se così non fosse? Se gli uomini non cercassero la felicità, ma il bene; solo che, non sapendo cercarlo nella maniera giusta, lo cercano là dove non possono trovarlo, o dove trovano solo dei piccoli beni parziali, effimeri e ingannevoli, sì che la felicità - ossia non il fine, ma il premio di una vita spesa nella ricerca del bene -, sfugge loro sempre di mano, così come l’acqua e il cibo sempre si ritraggono, inesorabilmente, dalla bocca di Tantalo, assetato e affamato?

Scrive Enrique Rojas nel suo saggio «Una teoria della felicità» (titolo originale: «Una teoria de la felicidad», Madrid, Editorial Dossat, 1986; traduzione dallo spagnolo di Grazia e Luigi Ferrero, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1988, pp. 45-6):

 

«È chiaro che nella vita esistono molte cose buone che noi rincorriamo e il cui raggiungimento ci produce allegria e piacere; tuttavia sono effimere e non si trova in esse la chiave della nostra felicità più salda e definitiva. Tutte queste cose, una volta ottenute, ci offrono dei momenti gradevoli, positivi… però non possiamo pensare che da esse dipenda la felicità

Questa parola è polisemantica e da questo derivano le confusioni di cui è oggetto. Tutte le cose buone che possiamo ottenere, sommate le une alle altre, non sono sufficienti per sperimentare, con la profondità di ciò che permane, la profondità reale e autentica. È per questo che esistono tante persone vuote: l‘aver scelto come punto di mira gli obiettivi transitori non può appagare la profonda sete di infinito che ha l’essere umano, il suo desiderio di trascendere se stesso.. Ritornano le domande fondamentali: cosa vogliamo? Che cosa è realmente capace di soddisfarci? Quale speciale magia deve possedere ciò che calma la nostra sete  di godimento e di gioia? Kant sosteneva che l’uomo è l’essere esigente per natura in quanto appartiene al mondo dei sensi. Simmel dice: “L’uomo è soltanto l’essere perfettamente affamato”.

Dove si trova la pietra filosofale della felicità? Dov’è la chiave che ci farà entrare una volta per sempre in quel paradiso che conduce alla pienezza? Seneca ci dirà: “Cerco il sommo bene… che risiede nel giudizio e nella disposizione  di uno spiriti perfetto; quando abbiamo raggiunto il sommo bene, non desideriamo altro… il sommo bene è la fermezza, la previsione, il senno, la libertà, l’armonia e l’equilibrio di un’anima irremovibile. Perché mi parli di piacere? Cerco il bene dell’uomo, non del ventre… Quando dico che nulla faccio per cercare il piacere, parlo da vero saggio”. La ricerca della felicità dimora nell’interiore dell’uomo si trovano le aspirazioni e i progetti  che usciranno attraverso lo stretto canale dello sforzo e della volontà personale.

L’essere umano è insaziabile per natura, tutto gli sembra poco, non dice mai basta, non si sente mai pienamente appagato. Questa insoddisfazione, privativa dell’uomo, può essere appagata da qualcosa  che riassuma e sintetizzi il maggior bene possibile, che abbia tutto ciò che egli è capace di volere e di desiderare.  Soltanto l’Amore può appagarlo in modo assoluto. Questo è ciò che Socrate esclama nel “Convito” quando Diotima conclude il suo discorso riguardante l’ansia di riempire la vita  dicendo che per l’uomo la vita merita di essere vissuta nel momento  in cui contempla la bellezza della divinità; allora si sente amato… e la morte si nasconde ai suoi occhi.»

 

Di Enrique Rojas (nato a Granada nel 1949),  titolare della cattedra di Psichiatria presso l’Università dell’Estremadura, avevamo già avuto l’occasione di discorrere in un precedente lavoro, incentrato su un assunto analogo a quello della presente riflessione (cfr. il nostro articolo «Essere felici vuol dire conoscere ed amare il Sommo Bene, che è l’Essere», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 16/10/2009).

Anche questa volta da lui prendiamo uno spunto che ci sembra validissimo, nella sua chiarezza e semplicità: non si può trovare la felicità se non nel pieno appagamento, né quest’ultimo si può trovare se non nell’amore più perfetto che ci sia dato immaginare.

L’amore, infatti, è il bene più grande: lo vediamo nel bambino, lo vediamo nell’anziano, lo vediamo lungo tutto l’arco della vita umana: le persone vorrebbero amare ed essere amate, ma soprattutto vorrebbero essere amate; vorrebbero essere amate sempre e comunque, fedelmente, generosamente, incondizionatamente; anche se esse sbagliano, anche se tradiscono, anche se non sono amabili, anche se non sono generose. Vorrebbero essere amate di un amore grande, immenso, infinito; un amore che sorvoli sulle loro debolezze, sulle loro insufficienze, sulle loro vigliaccherie; un amore che non sia commisurato ai loro meriti, ma che sia gratuito e costante, tenero, paziente, inesauribile: questo vorrebbero, al fondo della loro anima.

Sanno però, sentono, che un tale amore non esiste sulla Terra; che nessuno è capace di amore così, che nessuno lo potrebbe, che nessuno ne sarebbe in grado; e sanno, sentono, che nessuno lo meriterebbe: perché nessuno sarebbe all’altezza di un amore così grande, nessuno potrebbe sostenere una offerta di amore così totale e incondizionata.

Ripiegano, perciò, su amori parziali, su amori circoscritti, con cui placare almeno una parte, una piccola parte della fame e della sete divoranti che li tormentano: e non sanno che in questo campo, chi più cerca di accontentarsi, tanto più è destinato a non raggiungere neanche quel poco, a stringere il nulla fra le dita. Perché l’amore è per i forti, per gli audaci, per i non rassegnati: premia chi è capace di amare in grande e si ritrae davanti a chi esita, centellina e cerca di risparmiare e di risparmiarsi.

Tutto questo è molto, molto umano: troppo umano, come direbbe Nietzsche. Per essere degni di un grande amore, bisogna prima saper amare se stessi: se non ci si ama, non si può nemmeno sperare che altri ci amino. Ma nessuno, si dirà, è capace di amare così tanto se stesso; e nessuno è capace di amare l’altro così tanto. Sì, probabilmente è così; ma, come sta scritto, quel che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio (Matteo, 19, 26; Luca, 18, 27).

L’uomo, dunque, è inquieto perché desidera amare infinitamente ed essere infinitamente amato; ed è sfiduciato, amareggiato, disperato, perché sa che nessuno è capace di tanto; a quel punto dovrebbe alzare la testa verso l’alto, guardare le montagne, le nuvole, le stelle, e ripetere a se stesso, con forza: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio».

Che senso avrebbe il mondo, se così non fosse? Che senso avrebbe la vita umana, che senso avrebbe l’esistenza di tutto ciò che esiste? Chi o che cosa, dunque, avrebbe prodotto un mondo siffatto, nel quale siamo sempre protesi alla ricerca di qualcosa che non c’è, eternamente assetati e affamati di un’acqua e di un cibo che non esistono? Quale beffa assurda, quale empio sortilegio avrebbe dato origine a un mondo di questo genere, ad una umanità così misera e, nello stesso tempo, così crudelmente tradita?

Noi non cerchiamo la felicità, cerchiamo l’amore: l’amore totale. È contraddittorio pensare che l’uomo possieda la nozione di una cosa che non c’è e non c’è mai stata; che sia proteso verso qualcosa che non si trova in alcun luogo: perché, allora, bisognerebbe spiegare come quella nozione sia entrata nella sua mente, come quella brama sia germogliata nel suo animo. Le cose che non esistono, noi possiamo immaginarle perché ne abbiamo una nozione, e sia pure in senso negativo: conosciamo la sete, ad esempio, perché abbiamo la nozione dell’acqua. Se fossimo fatti in modo da non aver mai sete, neppure sapremmo cosa sia l’acqua, né potremmo supporre o dedurre, da chi sa quale indizio, la sua esistenza.

Ora, noi siamo bramosi di amore, di amore assoluto: ciò significa che l’amore esiste, che esiste quell’Amore che supera ogni altro amore, perché è gratuito, inesauribile, perfetto. Se non esistesse, non saremmo inquieti: ci accontenteremmo di quei pallidi riflessi che sono gli amori piccoli, limitati, egoistici, dai quali, invece, finiamo sempre per ritrarci con noia e con fastidio.

Sia benedetta la nostra inquietudine, allora, indizio e caparra del bene infinito dell’Amore, cui aspiriamo e che ci indica la via del ritorno in noi stessi, del ritorno a casa. La ricerca di quel bene è lo scopo della nostra vita. «Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te, Domine»…