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La persona saggia è colei che ha imparato a liberarsi di se stessa

di Francesco Lamendola - 27/02/2013

 



 

La vita, talvolta, ci minaccia come un serpente velenoso che avvicina i suoi denti mortali alla nostra mano e sembra sul punto di morderci.

Che cosa si deve fare, in simili casi, quando non possiamo ritrarre la mano, quando non esiste un luogo in cui rifugiarci, nel quale metterci a sufficiente distanza dal serpente velenoso? E ciò accade abbastanza spesso: non siamo stati noi a metterci in situazioni difficili, angoscianti, dolorose: sono state esse a venirci a cercare, in un modo tale che non abbiamo potuto evitarle. E allora?

 Quelle sono precisamente le situazioni nelle quali viene in luce, se c’è, la nostra saggezza; e non è cosa che si possa improvvisare. Richiede una lunga preparazione; altrimenti, saremo costretti ad imparare in fretta, sotto l’urgenza della necessità: e la fretta non è una buona consigliera. Meglio pensarci per tempo, dunque; meglio cercar di diventare delle persone sagge: perché le persone sagge possiedono l’antidoto contro il morso del serpente; anzi, possiedono il segreto per non aver bisogno di antidoti. Semplicemente, il morso del serpente velenoso, su di esse, non produce che effetti assai modesti, e, nel caso del vero saggio, non ne produce affatto.

Ma come si fa a diventare saggi? Togliamoci dalla testa l’idea che il saggio sia una specie di superuomo: è un uomo come gli altri, con pregi e difetti come gli altri, con punti di forza ed elementi di debolezza, proprio come chiunque altro. Possiede, però, una risorsa fondamentale, che gli altri non hanno: ha imparato a vincere la tirannia dell’io, a liberarsi dall’illusione dell’io: ed è questo che toglie al morso del serpente velenoso il suo effetto mortale.

Il saggio può essere morso, dunque, esattamente come chiunque altro: non passa la sua vita a esaminare le tracce su terreno, per evitare la presenza dei serpenti; se così fosse, tutta la sua vita si svolgerebbe sotto l’insegna della trepidazione e della paura; e nemmeno quello basterebbe: perché i serpenti, si sa, amano arrotolarsi con le spire sui rami degli alberi e poi, quando la vittima designata passa sotto di loro, si lasciano cadere su di essa, e in attimo l’hanno già morsa. Chi potrebbe procedere tenendo d’occhio, contemporaneamente, il sentiero su cui cammina e le folte chiome degli alberi sopra di lui? Nessuno sguardo, del resto, è talmente acuto da poter scrutare l’intrico della vegetazione, così da scorgere il pericolo del serpente in tempo utile per ritrarsi e schivarne l’attacco.

No, il saggio non procede così: non tenta di evitare d’essere morso; fa in modo che il morso non sia mortale PER LUI: si rende immune al veleno del serpente. Il serpente è la trappola dell’io, la trappola per cui ci identifichiamo con una parte del nostro essere, quella che sempre brama e sempre teme, quella che si agita senza posa per affermarsi, per possedere di più, per non perdere quello che già possiede. È il “piccolo io” dei buddhisti zen, l’ego della psicologia occidentale.

A torto noi ci identifichiamo in esso, come se in noi non vi fosse altro che lui, come se lui fosse la totalità di noi. Invece è solo una parte: la parte più superficiale, quella esterna; e anche la più volubile, la più instabile, la più capricciosa. Dobbiamo ribellarci alla sua tirannia, spezzare la sua pretesa egemonica. La sua forza deriva dalla nostra debolezza; e la nostra debolezza, dalla nostra illusione. Dissipata l’illusione, noi torniamo forti e lui impallidisce, si fa sempre più piccolo, scompare. Restiamo noi: che non ci identifichiamo più con l’io, ma che siamo come l’acqua del fiume che corre verso il mare: libera di assecondare la corrente e diretta verso il proprio fine.

Il nostro fine è l’Essere. Se vogliamo ritrovare la padronanza di noi stessi, dobbiamo ricordarci che non siamo degli atomi gettati qua e là, a caso, in un universo caotico e insensato; non siamo dei piccoli “io” eternamente agitati dal timore e dalla brama: siamo frammenti di luce cosmica, scintille dello splendore divino, dal quale veniamo e al quale facciamo ritorno.

Riportiamo, su questo tema, una pagina del francescano Ignacio Larrañaga («Dalla sofferenza alla pace. Verso una liberazione interiore»; titolo originale: «Del sufrimiento a la paz.  Hacia una liberación interior», Santiago de Chile, Ediciones Cefepal, 1985¸traduzione dallo spagnolo di Ada Jachia Feliciani, Ciniello Balsamo, Edizioni Paoline, 1986, pp. 140-43):

 

«Chi si è liberato di se stesso è un saggio.

Se riuscissimo a farlo completamente, torneremmo al’infanzia dell’umanità.

Per chi non possiede nulla, il ridicolo non esiste; vivere è sognare; mai il timore busserà alla sua porta; gli imprevisti non lo spaventano; non si cura dei giudizi sulla sua persona;  la tristezza non calca mai le sue frontiere. Scompaiono gli aggettivi ossessivi “mio”, “tuo”, così come i verbi appartenere e possedere, termini questi che sono causa di frizioni e di conflitti, perché è l’”io” che tende, con le sue lunghe braccia, ad appropriarsi delle cose, dei fatti e delle persone

Chi si libera si se stesso prova quella sensazione benefica che si ha quando scompare la febbre alta: riposo e refrigerio, proprio perché l’”io” è fiamma, fuoco,  febbre, desiderio, passione.

Ben sappiamo che spesso l’intimo dell’uomo  dimora fiammeggiante di dolore. Che accade se si incendia la casa e tu sei dentro? Come fuggire? Non è necessario. Sappiamo come si spegne l’incendio. Chi ha visto come dalla passione sorga il timore, sa che la pace della mente si acquista spegnendo la passione stessa.  Basta destarsi, aprire gli occhi, levare il capo e prendere coscienza che eri in errore: credevi reale ciò che, in verità, era irreale.

L’importante è fermare l’attività della coscienza ordinaria, perché essa è accentrata sull’”io”. Quando la mente opera,  lo fa necessariamente rinvigorendo e generando l’”io” egoista; che, a sua volta, stende le sue braccia avide (che sono i desideri di possesso, la cupidigia, la sete di gloria) su oggetti-avvenimenti-persone, e da tale appropriazione sorgono i timori e gli spaventi. Annullando il corso dell’attività mentale,  scompare questo processo.

La liberazione della mente pone l’uomo in un mondo nuovo, nel mondo della realtà ultima, diverso da quello delle apparenze in cui normalmente ci muoviamo. Chi ama la vita, la perderà; chi la odia, la guadagnerà. Nulla che provenga dall’esterno o dall’interno riesce a smuovere il saggio. Come un uragano lascia immutata la scogliera, così i dispiaceri lasciano impassibile l’uomo saggio. In questo modo egli si colloca al di sopra dell’avvicendarsi delle emozioni e delle passioni.

La PADRONANZA di sé è normalmente turbata dai deliri dell’io. Ma, eliminato l’”io”, il saggio la riacquista pienamente e può controllare il suo agire, il parlare, il reagire, il camminare.

Con questo sincero e spontaneo abbandono di se stesso e delle sue cose, il vero saggio, libero da tutti gli avidi legami dell’”io”, si lancia senza più ostacoli nel seno profondo della libertà. Per questo, una volta che abbia conseguita la liberazione mentale, egli vive al di fuori di ogni timore e permane nella stabilità di chi è al di sopra di ogni cambiamento.

E così il povero, il derelitto, nel sentirsi liberato da se stesso, entra lentamente nelle tiepide acque della serenità, dell’umiltà, dell’oggettività, della mitezza, della compassione e della pace. Come possiamo vedere, siamo già nel cuore delle “beatitudini”.

L’uomo artificiale, cioè colui che è sottoposto alla tirannide dell’”io”, è sempre volto verso l’esterno, ossessionato dal PRESENTARSI BENE, dal dare una buona impressione, preoccupato da “ciò che pensano di me”, da “quello che dicono di me”; e, dal viavai dei mutamenti, soffre, teme, trema. La vanità e l’egoismo legano l’uomo all’esistenza dolorosa, rendendolo schiavo dei capricci dell’”io”.

L’uomo saggio, invece, è un essere VOLTO soprattutto VERSO L’INTERNO: dato che ormai si è liberato dall’ossessione dell’immagine, poiché si è convinto che l’”io” non esiste, non si preoccupa assolutamente di tutto ciò che si pensa o si dice di un “io” di cui conosce l’irrealtà; vive staccato dalle preoccupazioni artificiali, in una gioiosa interiorità, silenziosa, profonda e feconda. Si muove nel mondo delle cose e degli avvenimenti, ma la sua dimora è nel regno della serenità.  Sviluppa attività esterne, ma la sua intimità è posta n quel fondo immutabile che, senza possibilità di trasformazioni, dà origine a ogni sua azione. Il cobra potrebbe iniettargli il suo veleno, ma il saggio non avrà febbre. Ma… è impossibile. Il cobra, che è la collera, non può attaccare il saggio. Le sue fonti profonde sono purificate e l’acqua che ne sgorga non può che essere pura. Senza potere né proprietà, il saggio compie il suo cammino guardando tutto con tenerezza e trattando ogni creatura  con rispetto e venerazione. La tunica che l’ avvolge è la pazienza, e le sue acque non saranno mai agitate.

Non ha nulla da difendere; non minaccia nessuno e non si sente minacciato da alcuno; per questo può contare sull’amicizia di tutti. Armi: per che cosa? Chi può turbare colui che non ha né vuole possedere nulla? Forse l’agitazione non è un esercito in armi alla difesa delle proprietà minacciate?  Ma chi spontaneamente si liberò perfino dei rottami di se stesso, cosa lo può turbare?  Da quali trincee lo possono minacciare? No, in conclusione, il vero saggio non può essere morso dal cobra.»

 

Di Ignacio Larrañaga ci eravamo già occupati in un precedente articolo («Dobbiamo liberarci dall’inganno del’io, centro illusorio della nostra persona», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/10/2009); attingiamo nuovamente alla fonte della sua profonda spiritualità per sviluppare una ulteriore riflessione intorno al tema della vera saggezza.

Abbiamo iniziato paragonando l’io ad un serpente velenoso, secondo l’immagine utilizzata dallo stesso Larrañaga. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto ciò sembra facile a dirsi, ma che è tremendamente difficile da mettere in pratica. Può essere: ma dipende, come sempre, dal grado di saggezza che si è riusciti a raggiungere. Fino a quando il morso del serpente ci provoca un grave stato di avvelenamento, vuol dire che non siamo ancora pervenuti alla piena saggezza. La saggezza non è uno stato, è un cammino: nessuno che l’abbia raggiunta può sdraiarvisi sopra e dire a se stesso: «ecco, sono arrivato. Il cammino è continuo, accompagna i nostri passi in ogni giorno della nostra vita, fino a quando giungiamo all’ultimo.

Il saggio, attenzione, non è un freddo: la sua insensibilità alle illusioni e ai turbamenti dell’io non deriva da una cauterizzazione della sua umanità; ci mancherebbe altro. Se così fosse, noi avremmo confuso il saggio con il cinico. Ma il saggio non è affatto un cinico, anzi, tutto il contrario: il saggio è colui che, pur vivendo intensamente la propria umanità, la sposta su di un piano più alto di quello del’esistenza quotidiana, dominata dalle apparenze: il piano dell’essenziale.

Pertanto il saggio gioisce e soffre con gli altri, ma senza lasciarsi travolgere e disorientare; è capace di sentimenti profondi, ma non permette alle passioni di strappargli di mano la ruota del timone: saldo e sicuro sulle proprie gambe, dirige la rotta là dove è necessario e si tiene ben lontano dagli scogli; quanto alle tempeste, le evita, se può; e, se non può, va loro incontro bravamente, reso forte non dal proprio orgoglio umano, ma dalla confidenza nell’Essere, al quale si è totalmente rimesso, essendosi spogliato delle false sicurezze dell’io, così come delle paure immaginarie.

Il saggio, infatti, non è, come pensava Seneca, colui che ha imparato a contare unicamente su se stesso: costui non sarebbe un saggio, ma un orgoglioso; e l’orgoglio viene sempre punito. Il saggio è colui che si affida alla corrente dell’Essere, dopo aver dissipato l’illusione e gli inganni del piccolo io, insaziabile e tirannico. Ma non ci sono più tiranni per il saggio: egli è l’uomo libero per eccellenza.

Chiaro che, per essere veramente libero, deve essersi spogliato non solo in astratto, ma in concreto, di tutte le illusioni e di tutti gli artifizi dell’io: il possesso in primo luogo, e tutto il codazzo dei suoi ministri: vanità, superbia, invidia, gelosia, ira. Non ci si libera dall’io se non si tagliano drasticamente le passioni che a lui ci tengono legati e che ci fanno schiavi. Non si possono servire due padroni: o si serve il piccolo ego, meschino e capriccioso, oppure si sceglie la libertà, che è abbandonarsi alla volontà dell’Essere.

La pace si trova solo in quest’ultima scelta: perciò l’uomo saggio è pacifico e pacificato: non contende, non è in guerra nemmeno con se stesso. La pace è una condizione totale: da essa sgorgano la benevolenza, la pazienza, la compassione, l’amore.

Il saggio è colui che ha imparato ad amare, perché l’Essere è Amore.

Chi non ha compreso questo, è sempre in guerra con qualcuno, perché non è in pace con se stesso…