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Il mito della società dei consumi

di Eduardo Zarelli - 12/10/2005

Fonte: diorama.it

Carlo Gambescia
Il migliore dei mondi possibili
Il mito della società dei consumi
Edizioni Settimo Sigillo
Roma, 2005

Leggendo quest’ottimo libro, mi trovo involontariamente ad applicare la metodologia sociologica di Pitrim Sorokin – di cui Carlo Gambescia è uno dei pochi veri conoscitori nel nostro Paese – alle categorie filosofiche, che normalmente adopero professionalmente, giacché le insegno agli studenti, i protagonisti generazionali della società iperconsumista oggetto di questo studio. Ebbene, chiunque abbia praticato le pagine della filosofia in età adolescenziale sa bene che la forza di Platone consiste nella capacità di trasmettere concetti teoretici complessi, con immagini mitico-simboliche di grande efficacia. 
La posizione platonica consiste in fondo nel praticare un’interpretazione “ideazionale”, per dirla con Sorokin, che soppianta il “sensismo” relativista di un Aristippo, distinguendo i “veri" dai "falsi" piaceri. Platone, da un punto di vista generale, opera una specie di riforma della nozione del piacere, che, con altri risvolti, è oggi richiamata dallo psicologo junghiano James Hillman evocando il “bello” scomparso. La sua riforma implica il fatto che la nozione di piacere risiede comunque nella socializzazione; il bello costituisce qualcosa di oggettivo, connaturato al vero e al bene, e allora è proprio stabilendo una stretta connessione, che esiste tra il piacere e il bello, che Platone riesce ad uscire in qualche modo da quella prigione edonistica, che Aristippo aveva teorizzato.
Tutto il discorso platonico si articola sulla base della distinzione tra piaceri veri e piaceri falsi: i piaceri veri sono quelli connessi con la vista e con l'udito, e sono stabili: secondo Platone, infatti, i piaceri sensibili non presentano, al contrario, questa stabilità, soprattutto se sono connessi al bisogno e al desiderio. Platone critica l’intendere la vita unicamente come un continuo fluire, come dimensione del movimento, implicita – secondo Aristippo – nella nozione di piacere e, a questo proposito, adopera una metafora, affermando che una vita pensata in questo modo è appunto simile alla vita del caradrio, uccello mitologico cui si attribuiva la caratteristica di mangiare e di evacuare continuamente; una vita di piaceri sensibili, quindi, per Platone è una vita in cui tutto si dissolve nel continuo fluire, in cui non c'è niente di stabile, mentre il piacere vero deve essere stabile in sé.
È a questo punto, solitamente, che lo studente comprende come la filosofia sia nel suo fondamento una scuola di saggezza, come l’esistenza quotidiana nella nostra società sia così simile ad un’imponente voliera di caradri e come l’unica possibilità di uscire, vivi o morti, da questa “cattività” edonistica stia nella libertà interiore, ovvero nel governo di sé. In effetti, altro carattere fondamentale, che rende il piacere vero, è la misura. Naturalmente, Platone fa molti esempi di piaceri veri: una vita piacevole è in qualche modo una vita, che richiede una conoscenza contemplativa, quindi non connessa a un’inabilitante sete di sapere, che implica in qualche modo uno stato di bisogno. L’uomo libero contribuisce alla manifestazione dell’essere nelle forme e nelle pratiche sociali in connessione con l'esperienza filosofica del bello.
La “voliera dei caradri” è quel mito utopico progressista, che catalizza la società dei consumi, di cui Gambescia - ne Il migliore dei mondi possibili – smonta, con metodo e analisi certa, i meccanismi sociali, economici e psicologici, più reconditi. In effetti, se non ci fossero intellettuali onesti e liberi, oggi saremmo praticamente privi di strumenti critici adeguati; sono oramai lontani gli anni Settanta del Novecento, quando la Scuola di Francoforte cantò, con toni apocalittici, la morte dell’individualità creativa sottoposta ai falsi bisogni imposti dall’oppressiva razionalizzazione capitalista. Il limite della critica di allora, l’utilitarismo materialista, si è all’oggi rovesciato ed inverato, qual vera eterogenesi dei fini rivoluzionari, nel pensiero unico liberal-capitalista; oggi la società dei consumi è ritenuta dai più un modello di libertà e di felicità, cioè portatrice dello “sviluppo”: la si vorrebbe ovunque e chiunque vi si oppone va redento, più che persuaso, alla verità secolarizzata del “paradiso” in terra. In realtà, sappiamo bene che è una ridotta percentuale dell’umanità a vivere di consumismo, ma la minoranza occidentale che lo pratica, nell’irresponsabilità più devastante per gli equilibri naturali e di giustizia sociale, detiene la potenza tecnologica, scientifica e militare per imporre alla maggioranza i propri interessi particolari, giustificandoli come “missione” della storia universale.
C’è poco da illudersi, quindi, di trovare una letteratura sociologica adeguata alla sfida dei tempi; anzi, pensatori come Sorokin, appunto, piuttosto che Del Noce, Lasch, Polin, che hanno scritto pagine importanti sulla società dei consumi, vengono sistematicamente ignorati, perché affetti dalla “tara” anticonformistica di interpretare la società con un paradigma antiutilitarista e antieconomicista. Per questo, il libro di Gambescia è sinceramente originale e analiticamente unico, nel panorama editoriale italiano. L’autore, infatti, adopera una metodologia olistica, secondo la quale la società (il “tutto”) va considerata come qualcosa di ulteriore alle singole parti che la compongono, perché è dotata di una sua logica “significativa” di fondo; rifugge, insomma, dal meccanicismo strutturalista (vedi un Baudrillard, che ignora la libertà di scelta dell’uomo) come dall’individualismo razionalista (vedi un Becker, che descrive il consumatore come il creatore dinamico della società massimizzando razionalmente il suo utile personale). La via olistica analizza la società dei consumi dai contenuti culturali e quindi dai valori, che informano le istituzioni e gli individui nel loro interagire. I beni prodotti e consumati assumono un significato sociale, differente a seconda dei modelli o dei principi che caratterizzano una cultura.
I modelli idealtipici sociologici adoperati da Gambescia sono quelli di Sorokin, che, in funzione della natura dei bisogni e dei fini che devono essere soddisfatti e del modo in cui ciò è portato a termine, ci parla di tre tipologie: l’ideazionale, spirituale; la sensistica, materialistica; l’idealista, sintesi di materialismo e spiritualismo, ragion sufficiente e verità universale.
In merito ai modi di soddisfare bisogni e fini di una tipologia sociale, la cultura ideazionale è eudemonistica, sublima la necessità sensistica con l’interiorità spirituale; la cultura sensistica modifica l’ambiente circostante fino alla soddisfazione dei propri bisogni; la cultura idealistica persegue un compromesso tra sensi e spirito, tentando un equilibrio tra istanze contrapposte.
Ogni forma di mentalità rinvia a una struttura socioculturale dei bisogni e dei desideri umani; il modo, quindi, di intendere la “felicità” è di particolare rilevanza, per comprendere come produrre e soddisfare fini e bisogni. Semplificando e riprendendo le due forme di felicità da cui siamo partiti, ci ritroviamo con la dicotomia tra felicità-virtù e felicità-piacere. La prima è propria delle società ideazionali, con valori trascendenti e spirito di servizio sovrapersonale, mentre la seconda è caratteristica delle società sensistiche, informate da modelli materialistici o da valori individualistici e utilitaristici. Si intuisce come una società ispirata eudemonisticamente ad una felicità-virtù ridurrà i bisogni materiali, la complessità organizzativa e quindi la tensione psicologica, decisionale del singolo; all’opposto, una società edonistica, sposando una felicità-piacere, proietterà i bisogni nell’artificio e nell’illimitatezza del mitico “caradrio” platonico, fino al punto da “patologizzare” l’indecisione individuale nell’ansia abulimica o anoressica del consumismo. A questo proposito, è molto interessante la citazione dell’autore Tibor Scitovsky, che ha il pregio di dire l’indicibile per uno studioso di economia: il benessere è nemico del piacere. Infatti, il piano sensistico è obliquo, il parametro utilitaristico di Hume, per cui il piacere è un passaggio fisico da uno stato di malessere a uno di benessere, fa sì che tale felicità sia in realtà irraggiungibile, una salita incolmabile su di un piano inclinato, appunto. L’entusiasmo iniziale per un elettrodomestico appena acquistato è un lampo, ed esso diviene rapidamente un oggetto scontato, fonte di “comfort” fisiologico, di dipendenza e di assuefazione, ma non di piacere, cioè di capacità creativa e autonomia psicologica.
Questo sostrato psicologico sociale è storicamente la base dell’individualismo economicista. La tradizione utilitaristica di Bentham e le teorie neoclassiche fondano un sistema, in cui micro e macroeconomia si incontrano nella figura del consumatore, che ingenera la domanda per favorire la produzione. In condizioni di “scarsità artificiale”, l’individuo agisce razionalmente, adeguando mezzi e fini, acquistando ciò che gli è utile e soddisfacente; non esiste la possibilità di frenarsi come consumatore, di imporsi un’autolimitazione del bisogno o una sua sublimazione su scopi immateriali. Più si consuma, più si produce e l’utilità sociale generale non è che la somma algebrica delle singole utilità individuali; in questo passaggio da un’economia della produzione a un’economia dei consumi, non vi è differenza di sostanza sociale tra profitto individuale e redistribuzione sociale. Quando J.M. Keynes vorrà socializzare i profitti, declinerà i consumi di massa come principale volano per la domanda complessiva, teorizzando che «il consumo è l’unico scopo e fine di tutta l’attività economica (…) Il consumo per il quale si può utilmente provvedere in anticipo non può essere rimandato in futuro»1. Da qui, la necessità sistemica di riprodurre artificialmente all’infinito la “scarsità economica”, attraverso bisogni illimitati e una conseguente psicologia incontinente dei desideri, di cui il liberalismo si fa garante istituzionale e ideologia sintetica della modernità realizzata.
Una società in balia dell’avidità individuale istituzionalizza il permissivismo e il relativismo morale. Christopher Lash e Augusto Del Noce, con sensibilità differenti, convergono nel cogliere l’anarchismo pulsionale del marchese de Sade, come precursore del libertinaggio consumistico. La ricerca della libidine sessuale, che rende, promiscuamente, “tutti strumento di tutti”, giustifica l’aggresssività, la violenza, la perversione e la corruzione nella mercificazione egoica dell’indole umana, nella sua riduzione pulsionale e regressiva.
In tale dominio dell’informe, il relativismo diviene nichilismo, e l’atomismo sociale si rende apatico e indisponibile a riconoscere principi generali e la sovranità politica del bene comune. Chi consuma, non è cittadino. La sovranità delle istituzioni si snatura nella competizione oligarchica del potere economico. Allo smarrirsi di ogni senso civico, l’apparente regno pacifico del “contratto sociale” si mostra senza ipocrisie giusnaturalistiche, come una vera guerra mercantile di tutti contro tutti, che piega il “diritto naturale” al diritto positivo del più forte e fa terra bruciata dei corpi naturali, delle identità comunitarie e della giustizia sociale. La destra e la sinistra appaiono all’autore come politicamente intercambiabili: «Entrambe non discutono il mercato e, soprattutto, accettano ipocritamente di curare la disuguaglianza sostanziale con l’uguaglianza formale del diritto e l’accesso, attraverso il lavoro, ai beni di consumo».
Esiste un punto debole in un sistema, che appare come il più solido e pervicace che la civilizzazione abbia costruito? In questo ambito, ogni risposta è una semplice approssimazione; si può comunque convenire con Gambescia, quando ritiene autologorante il meccanismo di riproduzione sociale del modello di sviluppo liberistico: la crescita economica illimitata si effettua tramite processi di razionalizzazione sociale capitalistica, che progressivamente riducono i riferimenti culturali e la stabilità economica dei consumatori stessi. Fino a quando l’uomo edonistico potrà sostenere l’alienazione indotta dalla reificazione nei consumi? Fino a quando la natura sosterrà l’impronta entropica della civilizzazione industriale?  Esiste un momento, in cui l’egoismo individuale giunge a una catarsi sociale?
Non ritengo possibili rivolgimenti politici adeguati a tale mutamento, penso però che la consapevolezza del baratro e l’inquietudine profonda allignino oggi in quantità e qualità non marginali, e se un rivolgimento ci sarà partirà proprio dal “cuore di tenebra” occidentale. La mancanza di senso dell’edonismo potrebbe dimostrarsi la leva, che ribalta il mondo dall’evidenza empirica. L’Io del disincanto naufraga nella superficialità e rende più chiaro all’orizzonte che solo la profondità del Sé e la conseguente risacralizzazione dell’esistente segnano il destino dell’Essere.
La libertà interiore è autodominio, forma, verità, semplicità, bellezza.
La giustizia sociale è indipendenza politica, partecipazione comunitaria, sobrietà.
La civiltà è senso del limite, dominio del temporale cedendo lo spazio alla natura.

1)  J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), Utet, Torino, 1963; p. 264