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A proposito di Venner. “Il solstizio di Giugno” di Henry de Montherlant…

di Sandro Giovannini - 29/05/2013


Sotto il nome di saggezza, la libertà di spirito fu considerata per tutta l’antichità come il Bene Sovrano.  Essa era l’oggetto, il santo oggetto, e quasi l’unico oggetto delle ricerche dei filosofi.  I metodi per raggiungerlo costituivano la materia di libri interi.  Noi abbiamo mutato tutto questo. Nelle scuole si continua a far studiare ai giovani quegli antichi elogi della saggezza, ma – al pari di tante altre verità che s’insegnano loro, – con il divieto di servirsene.  Oggi, la parola saggezza è screditata, o piuttosto non si usa più poiché non ha più un senso vivo: la parola è morta con la cosa.  Quanto alla libertà di spirito, in tempi normali, essa non attira affatto l’attenzione; nei momenti di crisi, è vista con sospetto.  Un rifugio per civili, durante l’allarme: provate ad esser calmi un po’ troppo ostentatamente, eccovi sul  punto di essere insultato.  Allo stesso modo, provate ad essere un po’ troppo calmi in un posto di comando sotto il fuoco, non sono affatto sicuro che ciò vi attiri tutte le simpatie che si potrebbe pensare.  Per la gente di oggi, la saggezza è «egoismo» e niente altro.  Con questo eccola scomparsa; è il grande motivo di risentimento nel nostro mondo moderno che, come è noto, è fondato sull’amore.  Non si tratta tanto del fatto che voi abbiate un valore; ma soprattutto che non vi sottraiate ad avere le difficoltà che hanno gli altri: ciò significherebbe «disertare».  Tanto che, a volte, si direbbe che la società misura il valore di un uomo dalla quantità delle sue preoccupazioni, e che gli uomini se ne facciano deliberatamente carico per farsi vedere, come i farabutti compiono opere di bene per farsi perdonare.  Così, alcuni sono accusati di non soffrire abbastanza, quando si farebbe meglio a lodarli per quelle ragioni, sia d’intelligenza sia di carattere, grazie alle quali non soffrono di più.  E gli uomini della libertà di spirito possono ben avere anch’essi le loro sofferenze: o non appaiono o sono contestate.  Non potrei giurare, d’altronde che, se pure in misura minima, la stessa cosa non succedesse all’epoca pagana.  Sarebbe molto interessante fare ricerche sull’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei filosofi, e studiarne le immancabili variazioni.  E’ soltanto all’approssimarsi del cristianesimo, quando il mondo antico si emaciava, aspirando ad una religione dell’intenerimento e della sofferenza, è soltanto allora che i filosofi furono mal visti, perché professavano la fermezza e la serenità, e le possedevano o pretendevano di possederle?  Se non mi sbaglio, i testi che ho in mente, in cui dei filosofi si lamentano dell’opinione pubblica, sono di tutte le epoche.  “Il popolo tiene duro contro la ragione; esso difende la sua malattia” dice educatamente Seneca.  Infatti il popolo “difendeva la sua malattia” a sassate, e credo che è durante tutta l’antichità che i filosofi si fecero letteralmente lapidare, come alcuni raccontano essere loro accaduto… (…) …E poi bisogna proprio dire che il sentimento dell’alta libertà di spirito è un sentimento a tratti altamente inquietante.  Si sente che ciò è abnorme.  E’ abnorme il fatto di rimanere calmi, quando tutta la gente attorno a noi è inquieta.  Ma ciò non è più abnorme di quanto non lo sia la stessa saggezza, né di quanto non lo sia ogni forma d’ascetismo, in questo mondo; l’una e l’altra, sono anch’esse, dei modi di costringere e superare la natura, e quindi di sfuggirle.  In breve, possedere la libertà di spirito, significa essere saggio; ma non palesarla al primo venuto significa essere ancora più saggio.  Ecco d’altronde un’antica lezione; essa fu impartita dagli stoici: “Fingi d’impietosirti, ma non t’impietosire”.  Qualcuno ha detto che l’arte di governare è l’arte di nascondere la violenza.  L’arte di farsi accettare è in gran parte l’arte di nascondere la propria libertà di spirito. (*)
                                                                                                             Henry de Montherlant

 

Sembrerebbe che questa riflessione, compiuta in un solstizio di giugno, sia assieme attorta e sganciata dal suo tempo, dalla sua epoca.  Ma esiste un tempo ed un’epoca?  Tale riflessione non è applicabile ad ogni tempo e ad ogni epoca?  Sferzanti le parole di Henry de Montherlant (nella foto a sx): “Siate pure della vostra epoca, se vi fa piacere, ma non fatene un imperativo, perché non è sostenibile, né al giudizio della ragione, né al giudizio della morale. Si tratta di spiriti deboli, che giudicano fiacchezza d’animo non seguire il presente in tutte le sue espressioni, che si fanno un dovere sublime di avere sempre un’opinione su tutto (opinione, che, nove volte su dieci è infondata), di prendere partito a proposito di tutto, e che se, per caso, quell’ammucchiamento di giudizi e d’opinioni, lasciasse una traccia, formerebbe un letamaio di inanità e di ridicolo: schiavi dell’attualità, dei quali si potrebbe dire che essa li ruba a se stessi, se possedessero un se stesso, ma la facilità con cui se ne lasciano distrarre è la prova che non ne hanno”  (2)

Ma al di là di una diatriba che probabilmente, alla sua essenza, non può essere risolta se non come un atto di scelta o di fede individuale, oltre ogni ragione – pur legittima – di contestualità storica, ciò che ci colpisce è che questa idea si possa adattare meravigliosamente al caso singolo, variamente individuato dello stoico, là dove la massa, comunque definita ed aggregata, svolga quella funzione di resistenza verso il differenziato, l’elevato, il distaccato nella partecipazione (“…Gli esperti di pugilato ripetono in tutte le maniere: – Durante l’azione non siate mai in collera. La bestia che attacca la sua preda non è in collera con lei. – Potrebbero aggiungere: – ma siate in collera di sangue freddo. -  Non sarebbe una sciocchezza. La collera di sangue freddo è l’aggressività…” (3)  funzione che è connaturata alla massa e per la quale, qualsiasi tipo – ad essa diretto – d’attraente (e quasi sempre infallibile)  misericordia, sia pur ben diversa dalla clementia, (4)  è – nella vita reale e nel corpo concreto del singolo – un compatire problematico, funzionale se non necessariamente coperto (nel senso del nascondimento di cui sopra) per l’uomo superiore.

Il motivo di fastidio più immediato verso Montherlant (da parte di tutti, sia pur con un’accentuazione, ovviamente prevedibilmente organica e più logica, anche, da parte dei progressisti) fu per quel suo far parte per sé, (5)  ma potremmo rinvenirlo ancor più leggibile contro altri che contro di lui.  Infatti Montherlant, pur non nascondendo affatto il suo taglio di distanza rammemorante e di aristocraticità diffusa è pur ben stato l’accompagnatore smagato ma suadente di intere generazioni di giovani uomini e giovani donne medio e piccoloborghesi francesi che si affacciavano alle bramate e temute illusioni d’amore ed alle sovente posatrici educazioni sentimentali. Prima tra le due guerre e poi durante la collaborazione ha cercato sempre di difendere più che possibile il proprio privato contro l’invasione ossessiva del pubblico, del politico o dell’ideologico, per custodire lo stile di vita di raffinato epicureo.   “Un piacere che, se ci fosse soltanto lui, basterebbe a giustificare una vita”.  In parte difesa della necessità del piacere come linea d’identificazione e di privilegio, unica dimensione che spetti interamente e da cui interamente si possa venir remunerati.  Piacere come dice Jean-Louis Barrault, “che è ancora il segno di un’adolescenza che persiste e non di una sessualità senescente e viziosa”. (6)  Una sorta di libertinismo spirituale che è contro ogni codismo ma che – differenza importante – sa operare anche un minimo comune multiplo e trarne responsabilità, sempre comunque seriamente onorate, di schieramento.

In parte ancora come garanzia stoica di sopravvivenza in un mondo ove tutti complottino per asservirci (proprio come servi sciocchi) ai loro standards di giudizio e di comportamento.  E qui trovo illuminante il passaggio logico del testo di Barrault: “Il dramma di Montherlant (…sta parlando del Malatesta, N.d.A.) è, in effetti, la storia di un fallimento geniale, ma di un fallimento.  Lo spettatore non è abituato al fatto che gli si presenti, come eroe di un dramma, un fallito.  Questo eroe non è allora che un falso eroe, e se è un falso eroe smette d’essere interessante.  In ogni caso lo spettatore non si ritrova.  E tuttavia, se voglia davvero sporgersi su questa pantera che si ripiega, che balza, fugge, tende tranelli, si fa prendere; su questo felino che si dibatte in mezzo a tutto ciò che c’è intorno a lui e soprattutto a ciò che c’è in lui, pur restando in una grande solitudine, lo spettatore finirebbe proprio per scoprire un essere che esiste effettivamente in sé, ma che egli stesso dissimula sia per vigliaccheria, sia per ipocrisia, sia per morte parziale del proprio essere, sia per consuetudine all’addomesticamento.” (7)

Ovviamente Barrault parla del personaggio del Malatesta, creato da Montherlant e da lui messo in scena ed interpretato, ma sotto le righe scorre una ben più serrata identificazione ed allo stesso tempo una più ampia chiamata di corresponsabilità.  Quindi un sublime egoismo che attenga potenzialmente all’eroismo, alla santità, all’ascesi, tutti paradossali e soprattutto al non-arraffare, (8)  pur provando e gustando, felici (e questo è l’aggravante nello scandalo!), ossimorica via dei non conformi, dei differenziati.  E qui entrano in gioco le categorie mitico-letterarie dei sempiterni, (potrei dire dei classici, – sempreuomini – categoria necessaria ma non sufficiente) creduti e riproposti fino alla morte, all’eliminazione cruenta, al suicidio glorioso.  Sono i sempre pervicacemente allegati romani, i greci più nel pròblema che nel canone, i favolosamente sapienti egizi, gli ancor più ipostatizzati protagonisti dei veda, i lungopraticanti degli zen od i meditatori dei tao o gli affubulatori delle magie tibetane, o gli essenzialisti rituali dello shinto, o la magia incantante delle vie dei canti, dei curanderos, degli sciamani, le simbolicità infinite ma numerali, le insospettabilmente pervasive gnosi, le imprevedibili fenomenologie del sacro, i mitologhemi, le gestalt, le fisiche antiriduzioniste, le olistiche, persino le ermeneutiche, le semiotiche, i situazionismi, le decostruzioni, le etc, etc. …

Tutto quel continuum atemporale ed aspaziale, che è stato (e che è tuttora) il contraltare o l’elemento di contrasto o l’elemento vinto progressivamente dal prevalere della funzione sull’essenza (come direbbe Noica), (9) della normatività (del letteralismo – come direbbe Hilmann) formale ed informale (quindi significante comunque privo di significato) impostasi, a volte sulla sola base della volontà di potenza ed a volte anche ferocemente, nei molti secoli dell’Occidente (e che comunque n’è ben costitutivo dialetticamente), soma per alcuni, feccia per altri, tesoro per alcuni, ciarpame per altri…  E non parliamo – anche se li troviamo attorno ed attorti – dei sempre terminali e troppo facilmente criticabili cascami (alla new age), in qualità d’offerte del supermercato spiritualista, (per carità… ben comprensibili, in tempi di crisi) ma delle inestinguibili, solari o carsiche che siano, influenze su personalità somme.  Ma dicevamo, nel suo caso: più difeso il comportamento, più evidente la distanza, più sfacciata la diversità, più dichiarato il cosiddetto vizio d’origine, ovvero il disinteresse, l’egoismo, la parte che non si fonde o confonde.  Qualsiasi siano i suoi “eroi”, i romani de La guerra civile od il riminese del Malatesta.  O se stesso, ancor avanti, del rovinoso primo dopoguerra francotedesco (del ’40), all’inizio disfatto imprecante ed evocante, poi ciclicamente rassegnato al destino e sempre duramente critico ed autocritico de Il solstizio di giugno.  Se dovessimo quindi trovare chi possa portare al parossismo il fastidio procurato (negli altri) da quel distacco, da quel disinteresse, non sceglieremmo Montherlant, ma ad esempio Jünger.

Infatti Jünger entra nell’azione, si imbraga anche possentemente nel furor e nella disperazione, ma riesce – con completo e mai autenticamente superato scandalo dei suoi lettori ed anche stimatori avversi – a starsene costantemente individuato, (quasi fosse l’antropizzazione della formula teologico-conciliare non mescolati non separati) e quasi gestalticamente icona vivente di quel paradosso così difficilmente e perigliosamente indicato dalle varie tradizioni dell’antico occidente e dell’estremo oriente.  Uno scandalo mai superato, e mai superabile quando la trama di una sensibilità intellettuale consista nel nodo umanista che non sia consciamente, costantemente e coraggiosamente rivelatore, nell’immediatezza consapevole del disegno comunque realizzato (=destino) e del comunque continuo ed incognito vacuum (=vacuità), accanto a cui, sempre, quel nodo, questo nostro nodo, si strutturi.  E’ uno scandalo che perdura anche tra coloro che teoricamente potrebbero capire tale dicotomia vivente e vivificante, e questo soprattutto per un difetto eminente di teoria, (ed ovviamente di pratica): per non poter forse ammettere su di un piano filosofico ed esistenziale ciò che rimane evidentemente inaccettabile per alcuni su di un piano etico, normativo o di esistenzialità non ben riflessa, potremmo dire anche più semplicisticamente, materialista.  Oso credere di aver capito che tanto più debolmente ci si struttura rispetto a questa dicotomia vivificante tanto meno si siano frequentate – con successo – le categorie tradizionali del pensiero antico-occidentale ed estremo-orientale.  Non “sarebbe una sciocchezza!” come dice Montherlant, ma un evidenza difficile – per moltissimi – da accettare.

Montherlant quindi ha buon gioco a difendersi di fronte ad un mondo che comunque perdona e dimentica quasi tutto basta che non si sconvolga, anche formalmente, il pubblico della norma, di volta in volta dominante. Così si spiega la blanda epurazione, l’implicita e quasi compiaciuta sottovalutazione della sua differenza, l’Accademia riconosciuta per i suoi indubbi meriti sia di potenza visionaria che di caratura stilistica, salvo finalmente poter concludere la sua avventura autorale in un sostanziale tombale silenzio, rovinosamente (per allora) infranto da quell’antico, rivelante (implicito/inammissibile) crismato suicidio.


__________

 Note

(*) Henry de Montherlant, Il solstizio di giugno, Akropolis, 1983.

1) Idem, pag.87,90.

1) Idem, pag. 110.

2) Idem, pag. 126

4) «…Mi riferisco alla lettera conservataci nell’Epistolario di Cicerone (Ad Att., 9, 7c) in cui Cesare esorta i suoi amici in Roma, Balbo ed Oppio, a diffondere il suo messaggio propagandistico in funzione della guerra civile.  (…Importante a tal proposito la rilettura di “La guerra civile” di Montherlant, a cura di Piero Buscaroli. N.d.R.).  Cesare annuncia che eserciterà un nuovo tipo di vittoria fondata sulla generosità e sulla misericordia (…haec nova  sit ratio vincendi ut misericordia et liberalitate nos muniamus…).  Il concetto stesso di misericordia era estraneo alla mentalità romana riguardo alle lotte civili, secondo la quale chi vinceva poteva disporre di vita e beni dei vinti; che non si trattasse di pura e temporanea propaganda, ma di una consapevole scelta etico-politica è dimostrato dal fatto che Cesare vi si attenne con ostinata coerenza fino alle Idi di marzo.  Non a caso l’opposizione anticesariana, Cicerone su tutti, gli rimproverò di ricercare quasi ossessivamente ogni occasione per cui concedere il perdono agli avversari solo per umiliarli e legarli a sé con un vincolo di gratitudine, mentre in una guerra civile non c’erano buoni e cattivi e quindi nessuno aveva il diritto di perdonare ai propri concittadini.  (…Al pari che nelle guerre Ancien Régime, ove l’equiparazione “morale” fra i nemici non è ancora sostanzialmente messa in gioco, sia per quanto riguarda lo jus ad bellum che lo jus in bello, come ci ricorda Alain de Benoist in Ripensare la guerra, Quaderni di Terziaria, Asefi.  N.d.R.).  Malignamente gli avversari del dittatore parlavano di clementia, che è propria del superiore verso l’inferiore, che è virtù regale per eccellenza, (come l’epieíkeia ellenistica) e che quindi avrebbe rivelato patentemente l’indole autoritaria ed arrogante del nuovo padrone di Roma.  Da questo punto di vista si può giustificare il tenace rifiuto del perdono da parte di Catone ed il suo suicidio in Utica, che irritò profondamente Cesare e lo spinse ad una duplice replica, il rabbioso e per certi versi meschino libello dell’Anticato, e la più fondata (…e controllata, se pur ben discutibile,  N.d.R.) condanna pubblica del suicidio come un atto contrario al mos maiorum  (App. B.Civ. 2,15, 101).  La stessa delibera senatoria di erigere un tempio alla clementia Caesaris nel 44 è, sempre in questa prospettiva, assai ambigua.  (…Al limite della subdola provocazione unita ad un preoccupato calcolo. N.d.R.).  Cesare però aveva adottato il termine misericordia, che non implica nessuna gerarchia e parimenti fa uno storico cesariano come Sallustio.  In ogni caso è significativo che la polemica contro Cesare vertesse sulla legittimità del suo perdono, non sulla sua realtà: nessuno poté obiettare a Cesare di essere venuto meno alla sua dichiarazione programmatica del 49…».  Giuseppe Zecchini, Il significato dell’esperienza umana e politica di Cesare, in: Giulio Cesare, l’uomo, le imprese, il mito. Silvana editoriale, Catalogo della mostra in Roma, DART-Chiostro del Bramante, 2008-2009, pag. 18.

Riflettiamo – di lato – come questa nota (da noi interpolata in alcuni passaggi,  in grassetto) ci serva anche a meglio delineare un atteggiamento, che è di tanta aristocrazia spirituale, verso il suicidio.  Il luogo comune che ha dominato per molti decenni al proposito è quello di un agglomerato di atteggiamenti e di teleologie che si va rafforzando dal pensiero stoico in poi, come se il mos maiorum, al proposito appunto, avesse avuto od avesse poco o nulla da dire.  Cesare ne è il rammentatore e lo svelatore interessato.  E da Cesare – non solo come punto fermo realistico ma come ipostasi miticosacrale – si può far ripartire una dimensione interpretativa (sul suicidio romano, più o meno rituale) attenta al dato storico ma anche attenta a quello metastorico.

5) Emblematica la sua risposta a Radio-Jeunesse, l’emittente ufficiale del regime di Vichy: “Benché io sia partigiano dichiatato del governo, avete potuto pensare che mi sarebbe facile collocarmi in una ortodossia”.  Il far parte per sé, può, per gli aristocratici dello spirito, non eliminare il giudizio, non eliminare la scelta sia pur fatta per estremo difetto, non eliminare la responsabilità.  Anzi la accentua, e di moltissimo, perché per Montherlant dovrebbe entrare in gioco ben più di ciò che il governo di Vichy mette in campo come politica ideologico-culturale. (Lui sferza: …tra il formalista, il dopolavorista, il parrocchiale, l’insufficiente, il risibile, il patetico, fino all’insulso, al becero ed al controproducente..!).  Montherlant sferza una mancanza d’animo nel governo conservatore-reazionario post/sconfitta, governo che si copre di panni dichiarati  e persino spesso corretti, ma che non può farli suoi, intimamente e con completa convinzione, e con un apparato ideologico che abbia maturato tempi ed esperienze nella libertà e nel confronto consensuale, proprio perché la massa è stata trascinata dalle circostanze tragiche svelanti nel ludibrio e nella totale disillusione l’insipienza e la corruzione democratica, mentre i pochi consapevoli delle poste in gioco epocali sono stati messi in una condizione interiore di straordinaria difficoltà tra la corresponsione ad un nazionalismo naturale e legittimo e la scelta di un supernazionalismo ideologico e socialmente crismato. L’intellettuale naturaliter non democratico, in tale temperie, non può che chiedere quindi “non meno, ma molto di più”: in profondità, in divesità, in rigore, in efficacia, in intransigenza, in anticonformismo, persino in eversione di tutte quelle norme della vita borghese, sia pur viste da una prospettiva sostanzialmente clerico-fascista che, prima della disfatta del ’40, forse avevano ancora un senso residuale.   (Vengono necessariamente alla memoria le quasi contestuali, oltreché ben assimilabili, remore e critiche evoliane…) Ben più ancora persino di quanto spesso osino chiedere i più radicali, (estremisti e oppositivi, realisti ideologici, inquieti e geniali, ma spesso troppo coinvolti, e spesso – per autoformazione – troppo legati al mito del realismo politico) “campioni” della collaborazione, (Drieu, Rebatet, Brasillach, etc.).  Osservazioni che danno ancora la misura di che cosa possa essere, anche rispetto alla responsabilità politica, in semplicità e complessità assieme,  un’autentica aristocrazia spirituale…

6) Jean-Louis Barrault, Perché amiamo ‘Malatesta’, in: Henry de Montherlant, L’infinito è dalla parte di Malatesta, Raffaelli Editore, 2004, pag. 124.

7) Idem, pag. 124-125.

8) “…Ma l’uomo di cattiva qualità ha l’abitudine di prendere, prendere qualsiasi cosa, prendere ciò di cui non ha voglia se gli si presenta agli occhi: è uno dei segni della cattiva qualità che non ingannano…”, Il solstizio…, cit., pag. 179.

9) “Si potrebbe addirittura dire, a prima vista, che l’uomo moderno non sia affatto un uomo acatholico, dal momento che ha cercato nella natura le sue leggi scientifiche, vale a dire il generale.   Ma a questo risponderemo: egli non ha più invocato la natura come un senso generale a se stante e non ha seguito le leggi di questo intero, ma le leggi libere, come altrettanti sistemi locali di relazioni; e le leggi come relazioni (l’idea di funzione, che si è sostituita a quella di sostanza dell’antichità, come diceva Cassirer in  Substanzbegriff  und  Funktionsbegriff) non sono più veri generali, concreti, ma generali astratti, una sorta di determinazioni che si applicano all’individuo.   Le relazioni hanno come generale solo quello astratto della loro forma, matematicamente simbolizzabile.   Sono le matematiche (insieme con l’esperimento, ossia la natura distorta) che hanno deciso del mondo occidentale, non è stata  l’ontologia, ossia la problematica dell’essere.”  Constantin Noica, Sei malattie dello spirito contemporaneo, Il Mulino, 1993, in: Acatholia o il rifiuto del generale, pag. 172. Questo passaggio logico di Noica ci fa ben riflettere sulle qualità  intrinsecamente (e potremmo ironicamente dire: ontologicamente) funzionali della cosiddetta verità scientifica: soprattutto oggi che nelle discipline che studiano la natura da lungo tempo ormai si è superato e perso anche il concetto di sostanza ultima…