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L'alleanza più pericolosa del mondo

di Norman Solomon - 25/07/2006

Nel 40esimo anno dell’inconcepibile occupazione di Israele dei territori palestinesi, i leader israeliani hanno scritto la loro agenda politica. E la nostra? La nostra dovrebbe includere una chiara opposizione all’alleanza più pericolosa del mondo. Evadere il coro 'usare la forza è giusto' non è così difficile"

Dopo aver lasciato il Libano, la scrittrice June Rugh martedì scorso ha dichiarato alla Reuters: “Come americana, mi sento imbarazzata e mi vergogno. Il governo del mio paese sta dando a Israele il tacito consenso per distruggere un paese”.

Tra le ultime notizie ha trovato spazio la storia di Andrew Muha, uno sfollato americano del Libano meridionale. Muha ha detto: “È surreale. In Libano si trovano un milione di persone senza casa. La massiccia campagna di bombardamenti ha messo in ginocchio un intero paese”.

Imbarazzo. Vergogna. Incredulità. Queste sono la parole che hanno iniziato a descrivere l’alleanza tra gli Stati Uniti e Israele. Eccone qui qualcun’altra: criminalità di Stato, terrore ad alta tecnologia, stragi dal cielo. Proprio la tipologia di intervento premeditato di cui al Tribunale Militare Internazionale di Norimberga il giudice federale Robert L. Jackson parlava il 12 agosto del 1945, dichiarando: “Nessuna ingiustizia o politica ingiusta possono giustificare il ricorso a una guerra d’aggressione”.

Gli Stati Uniti e Israele. Oggi, l’alleanza più pericolosa del mondo.

Naturalmente, gli ufficiali israeliani parlano di crimini perpetrati da Hamas e da Hezbollah contro la popolazione civile. E Hamas ed Hezbollah parlano a loro volta di crimini perpetrati da Israele contro la popolazione civile. Alla fine, crimini su crimini. Tuttavia, Israele ha più ucciso che sofferto uccisioni. (Se avete dei dubbi, date un’occhiata al sito internet del gruppo israeliano per i diritti umani B'Tselem e alle documentazioni di eventi sanguinosi che riporta).

Sui media statunitensi, l’attuale dibattito sulla necessità di una “moderazione” ha di poco la meglio sull’iniziativa dello sgancio delle bombe. L’impostazione prevalente si basa su una catena di menzogne non da poco, dette più o meno scientemente. La più grossa è quella secondo cui una religione può rendere una vita più degna di un’altra, rendere una morte insignificante, conferire alle agonie della guerra un valore spirituale.

“Israele vanta una schiacciante superiorità militare sia nel Libano del Sud che a gaza”, ha ricordato il New York Times a metà luglio. Ecco uno schema piuttosto noto tra i media e gli ambienti politici statunitensi: da un lato condannare i piccoli assassini, dall’altro giustificare gli omicidi di massa con spiegazioni interminabili.

Lasciando da parte la retorica giustificatrice, le manipolazioni mediatiche e le consuete contorsioni dei giornalisti, ciò che rimane del patto Usa-Israele è la (mal)celata presupposizione che esso possa funzionare. I miti tornano ogni volta che ce n’è bisogno.

Ad esempio riguardo al pluricelebrato ritiro da Gaza, a cui sono seguiti a piacimento missili e soldati. La West Bank continua a restare un luogo di soggiogamento e resistenza. E, come osservò W.H. Auden [considerato il maggiore poeta inglese del Novecento, NdT]: “Those to whom evil is done / Do evil in return”.

I leader israeliani che questo mese hanno lanciato il loro attacco perfetto su Gaza e sul Libano avrebbero dovuto sapere quanti civili sarebbero stati uccisi, quanti altri feriti e quanti ancora terrorizzati. Il fatto che l’esercito israeliano eviti di colpire i civili è più che altro un’ovvietà moralistica – che, in termini di vite umane, risulta completamente irrilevante rispetto all’idea di porre un freno alla carneficina. “Ci sono terroristi per scopi tattici fanno saltare in aria persone innocenti”, ha dichiarato George Bush il 13 luglio scorso. Si riferiva naturalmente ad Hamas e a Hezbollah. Dovremmo pretendere allo stesso modo che Israele “per scopi tattici non faccia saltare in aria persone innocenti”.

Israele si autodefinisce uno Stato ebraico, e la sua leadership sostiene di rappresentare gli interessi degli ebrei. Gli assassini che terrorizzano spesso affermano di agire a favore di propri fratelli di fede. Musulmani, cristiani, ebrei, indostani… Ora, una tale demagogia ha bisogno di diventare trasparente.

Nel 40esimo anno dell’inconcepibile occupazione israeliana dei territori palestinesi, i leader israeliani hanno scritto la loro agenda politica. E la nostra? La nostra dovrebbe includere una chiara opposizione all’alleanza più pericolosa del mondo.

Negli Stati Uniti, evadere il coro “usare la forza è giusto” non è così difficile. Si tratta dello stesso inganno che consente a Israele di bombardare il Libano e Gaza, del trucco che traspare dalle maliziose dichiarazioni di cui si rendono protagonisti anche i migliori politici di Capitol Hill. Lo si legge negli editoriali del New York Times. Invece di riconoscere che l’offensiva di Israele “è totalmente deprecabile e antitetica agli strumenti della politica”, il messaggio che passa è che essa può essere accettata e della politica costituisce una strategia.

Un messaggio che passa in un assordante silenzio generale.

 

L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and PunditsKeep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo “MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq. Le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra”. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy.
Norman Solomon è inoltre autore dell'
introduzione a 'Censura 2006 – Le 25 notizie più censurate'.

 

 

Fonte: AlterNet
Tradotto da Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media