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Amare significa accettare tutto?

di Francesco Lamendola - 21/10/2013

 

Amare se stessi vuol dire accettarsi, e amare l’altro significa accettarlo: sembrerebbe una cosa molto semplice e chiaro, vero?

No, non lo è.

Che cosa vuol dire “amare” e che cosa vuol dire “accettare”? Bisogna in primo luogo chiarire questi due concetti; solo dopo averlo fatto, potremo passare ad esaminare la questione se amare significhi anche accettare, o, comunque, in che senso si debba intendere la cosa.

Amare, amare veramente qualcosa (o qualcuno), significa, innanzitutto, PORLA, cioè affermarla, valorizzarla, considerarla importante in se stessa, meritevole di attenzione, dotata di una dignità intrinseca e insopprimibile; significa guardarla con occhio benevolo e disinteressato, sceglierla in mezzo alla massa confusa del reale, considerarla unica e irripetibile.

L’amore di desiderio, ammesso che sia amore e non semplice brama di possesso, non è altrettanto benevolo, perché non è altrettanto disinteressato; dove per “disinteressato” non si pretende che sia caratterizzato da un sovrano distacco, il quale può nascere solo dall’indifferenza, ma che la naturale attrazione verso quella data cosa sia controbilanciata dalla spinta ad anteporre il desiderio di bene nei suoi confronti a qualunque altro fattore, compreso il nostro istinto della vicinanza e, tendenzialmente, del possesso.

Chi non sa amare in maniera non possessiva e non tirannica, non sa amare veramente; sa amare solo nella misura in cui si aspetta di ricevere: e questo non è vero amore, ma scambio commerciale: io offro qualcosa per avere qualche altra cosa. Si dirà che sono in pochissimi a saper amare così; è vero: ma non perché sia una cosa impossibile e tanto meno perché sia contrario alla natura; bisogna vedere, semmai, cosa si intende per “natura”, espressione ambigua e troppo generica, che si presta a tutte le forzature e a tutte le strumentalizzazioni.

Se si vuol dire che non è “naturale” essere attratti verso qualcosa senza desiderare anche, per ciò stesso, di possederla, certamente si dice una cosa inesatta e incompleta; bisognerebbe chiarire, a sua volta, cosa si intende per “possesso”; e se, con tale parola, si intende il bisogno di ridurre quella cosa a mero oggetto, di degradarla da soggetto a pura funzione del proprio desiderio, allora si intende una attitudine che è propria della natura inferiore, non della natura umana in quanto tale. La natura umana è, per sua essenza, indeterminata: se per ”natura” si intende qualcosa che può essere in un modo e in quello soltanto, allora la natura umana non esiste, perché la natura umana può esprimersi in innumerevoli forme diverse: non solo quanti sono gli esseri umani, ma anche quanti e quali potrebbero essere; e ogni essere umano mai vissuto, vivente o che vivrà, può costituirsi in infiniti modi, divenire, evolvere, trasformarsi, verso l’alto o verso il basso, progredire o regredire, innalzarsi o sprofondare nel fango.

Non esiste una “natura” umana, perché la persona umana è essenzialmente libertà, e la libertà è aperta a possibilità infinite. Dunque, non è vero che sia cosa “naturale” desiderare l’altro in forma possessiva, degradandolo da soggetto a mero oggetto; né che sia cosa innaturale amarlo senza concupiscenza, disinteressatamente, in maniera assolutamente benevola. E nemmeno che quest’ultima forma di amore sia possibile solo quando si ama l’umanità in generale, ma non quando si ama un singolo e concreto essere umano: perché non si può amare l’umanità se non si sa amare, in concreto, i singoli esseri umani; e perché amare in concreto gli esseri umani vuol dire fare i conti con la loro limitatezza, con la loro imperfezione, vedendoli per quello che sono e non per quello che l’accecamento dell’amore di desiderio ci fa credere, di volta in volta.

Ma si può amare qualcuno che è imperfetto, limitato, e, presto o tardi, deludente? Lo si può amare davvero, o è “naturale” distaccarsene, quando i suoi limiti appaiono in tutta evidenza e quando diventano sgradevoli? Certo che si può, se lo si vede non tanto come “imperfetto”, ponendo l’accento su quello che in lui non è come dovrebbe essere, ma come “perfettibile”, vedendo in lui quello che potrebbe essere, innalzandosi dai suoi limiti e diventando migliore, magari con il nostro aiuto e, appunto, con il nostro amore. Chi non sa che il fatto di essere amati rende più radiosi, più fiduciosi, più ottimisti; che spinge a fare grandi cose; che aumenta il tono vitale; che rende più bello, più attraente, più desiderabile, colui che prima appariva scostante e radicalmente privo di attrattiva?

Ed eccoci allo scoglio dell’”accettare”. Se per amare qualcuno bisogna prima accettarlo, accettarlo così com’è, allora come si può amare un essere imperfetto, limitato, talvolta sgradevole? E questo qualcuno potremmo essere noi stessi: per amarci davvero, dobbiamo proprio accettarci così come siamo, con tutti i nostri difetti, con tutti i nostri lati meno piacevoli?

Nossignore: questo non sarebbe amore, ma narcisismo, se rivolto verso se stessi; e cieca adorazione, se rivolto verso l’altro. Noi non dobbiamo amarci per i nostri difetti, né amare l’altro per i suoi difetti; dobbiamo imparare ad amarci nonostante i nostro difetti, e ad amare l’altro nonostante i suoi difetti. Si faccia attenzione all’espressione secondo cui accettare vorrebbe dire amare le cose (o le persone) così come sono, con tutti i loro difetti. Che cosa significa “con”: che bisogna prenderli a scatola chiusa e tenerseli così come sono, anche se li abbiamo riconosciuti come tali – e parliamo, s’intende, di difetti di ordine morale, non fisico. Andiamoci piano: se si tratta di difetti lievi, allora sì; ma se gravi, allora no. I difetti gravi vanno combattuti in se stessi, corretti nell’altro, se davvero lo si ama. Non è che non si possa amare qualcuno che abbia dei difetti, perché tutti ne hanno; ma amare significa desiderare il bene della persona amata, dunque bisogna anche essere capaci di aiutarla a riconoscere i suoi difetti gravi - e, naturalmente, a liberarsene.

Gli esseri umani sono perfettibili: ciò non significa che debbano diventare perfetti, ma che devono tendere a migliorarsi, a perfezionarsi. Perfetti non saranno mai; ma è giusto che si impegnino a diventare sempre migliori, cioè a imparare sempre qualcosa dalla vita; e che aiutino le persone che essi amano a fare altrettanto. Questo non è perfezionismo, ma autentica capacità d’amare. Se amo una vecchia casa pericolante, se la amo davvero, ne rinforzo i muri, ne riparo il tetto, ne libero il giardino dalle erbacce: cerco di renderla più bella, o, almeno, più accogliente, più abitabile, più idonea a svolgere la sua funzione. Significa che devo imporle la mia idea di ciò che è bello, di ciò che è accogliente, di ciò che è consono alla sua funzione? No: esiste un consenso generale su ciò che una casa dovrebbe rappresentare, anche se esistono infiniti pareri su come dovrebbe essere.  Certo, posso dire di amare una casa in rovina, con il tetto sfondato, invasa dalle erbacce: ma, a ben guardare, quello non sarebbe amore autentico, ma amore di desiderio: mi piace così per un mio gusto particolare, ma non andrei mai a viverci, né, onestamente, potrei augurare a qualcuno di abitare un rudere pericolante e fatiscente. Se voglio essere onesto con me stesso, allora devo riconoscere che è facile amare le cose in quel modo, che è puramente strumentale: non desiderando che siano buone in se stesse, ma che diano a me delle intense emozioni.

Lo stesso ragionamento vale, “a fortiori”, per gli esseri umani, compresi noi stessi. Amare qualcuno significa desiderare di vederlo realizzare il suo essere nel modo migliore; e il modo migliore, per un essere umano, è quello di esplicare al massimo le sue potenzialità positive: la salute, il vigore, l’intelligenza, la volontà, la cultura, il desiderio del bene. Non si tratta di imporre all’altro un nostro progetto, di sovrapporre la nostra personalità alla sua; ma di desiderare, per lui e per noi stessi, ciò che è bene in sé, il bene vero e incondizionato.

Ora, questo bene non si trova, allo stato naturale, in nessuna cosa e in nessun luogo: non esiste, semplicemente. Non esiste, si badi, in natura. Però la tensione verso di esso, il desiderio di esso, il bisogno di esso, accompagna l’uomo fin dai tempi più antichi: lo segue ovunque, anche sull’isola deserta in cui s’è ridotto a vivere in perfetta solitudine. Non resta che cercarlo al di fuori della natura; non resta che levare lo sguardo a ciò che è permanente, incondizionato, e dunque trascendente. Nessun ente, contingente e imperfetto, possiede il bene assoluto; solamente l’Essere lo possiede, poiché l’Essere è il Bene. Ne consegue che non si può veramente amare nessuno, neppure se stessi, se si esclude dalla relazione questo Terzo silenzioso, ma indispensabile, che è la sola garanzia di verità e di giustizia nella ridda contrastante dei beni fallaci e apparenti.

Ma  non solo l’amore è impossibile senza presupporre questo Terzo; anche la relazione dell’uomo a se stesso, lo è; anche la pura e semplice comprensione di ciò che l’esistenza rappresenta per l’uomo. Questo è il grande errore del naturalismo: se si afferma che la natura è tutto, che è buona e perfetta in se stessa, allora bisogna anche ammettere che sono buoni e perfetti i terremoti, le pestilenze, il tumore al cervello d’un bambino, la bomba atomica e la guerra chimica o batteriologica. Solo cervelli deboli, come quello di Rousseau, e menti radicalmente anti-filosofiche, possono sostenere teorie del genere e vaneggiare di “buoni selvaggi” e di società colpevoli d’ogni male al mondo.

Si capisce che negare la bontà e la perfezione intrinseche della natura, e dunque ammettere il bisogno di redenzione di quest’ultima, uomo compreso, non significa affatto scivolare nella opposta esagerazione. Pretendere di rifare la natura, di correggerla a proprio uso e consumo, di creare quasi una seconda natura, è operazione blasfema, oltre che assurda. Pretendere di mangiare le fragole in gennaio o di avere in tavola l’uva ad aprile, significa non rispettare la natura e volersi sostituire a Dio: cosa empia e impossibile. O, se anche tecnicamente possibile, foriera di imprevedibili reazioni negative a catena: non si può stravolgere la natura impunemente, tanto più per futili ragioni. Anche manipolare il DNA di un essere vivente, anche clonare un essere vivente è una rivolta contro Dio e una dichiarazione di guerra alla natura. La natura va accettata fin quando è possibile; va corretta quando è necessario. Non è necessario ingurgitare pillole chimiche al primo accenno di mal di testa: un po’ di mal di testa si può sopportare benissimo. E non è necessario traforare le montagne per guadagnare mezz’ora di tempo in un viaggio complessivo di  otto ore; né distruggere una foresta, al solo scopo di farci passare un’autostrada in linea retta.

Lo stesso criterio va adoperato per la natura umana. I difetti lievi vanno accettati, finché non causano gravi inconvenienti; quelli gravi devono essere combattuti, sempre. Anche certi impulsi, benché naturali, vanno controllati, filtrati e, se necessario, contrastati: non tutto è bene quel che viene dalla natura umana. L’istinto aggressivo, l’istinto sessuale non si possono, né si devono assecondare sempre e comunque. Questo è evidente a chiunque possieda un minimo di onestà intellettuale; e lasciamo che i cattivi maestri dell’egoismo edonistico e dell’utilitarismo selvaggio proclamino il contrario dalle loro sciagurate cattedre. Se fosse per loro, ricadremmo allo stato selvaggio, nel significato peggiore del termine: torneremmo alla clava, allo stupro, al cannibalismo. O, almeno, vi torneremmo se fosse per ciò che dicono a  parole; perché, di solito, non lo pensano veramente; e non lo pensano soprattutto quando si tratta di finire tra le vittime. Tutti sono bravi a proclamare la morte della morale e a dichiarare che essa è il travestimento del potere; ma poi, appena si vedono esposti alla violenza altrui, corrono a rifugiarsi, come bambini spaventati, dietro uno scudo che li possa proteggere, di qualunque materia sia fatto.

Riassumendo: accettarsi e accettare l’altro non equivale, sempre e comunque, ad accettare ogni cosa, in blocco, nel senso di prendere o lasciare. E amare, amare veramente, non significa accettare qualsiasi cosa: questo non sarebbe amore, ma pigrizia e fatalismo o, peggio, connivenza con il male. Non si può essere conniventi con il male e dire di amare, perché amare è amare il bene, sempre; è amare ciò che è bene, ciò che costituisce il vero bene. Il vero bene non coincide, evidentemente, con il bene apparente: né col mio, né con l’altrui. Il vero bene risiede nel riconoscimento della parte migliore presente nell’uomo e nella realizzazione delle sue potenzialità più nobili e disinteressate. Il pensiero debole, il pensiero ipercritico, il naturalismo e il  soggettivismo esasperati, oggi imperanti, vorrebbero negare ogni gerarchia di valori e pretendono che tutto sia uguale a tutto, che non vi sia alcuna differenza tra uno sgorbio e un’opera d’arte, tra un rumore e una melodia, tra verità e menzogna, tra bene e male. Esso vorrebbe sommergere ogni gerarchia di valori in una cupa notte ove ogni cosa appaia nera, in una palude ove non si veda la benché minima differenza tra giustizia e ingiustizia, tra santità e perversione. «Fedeltà alla terra», ragliano gli asini che hanno mal digerito Nietzsche, e ripetono in coro gli sciocchi che poco hanno capito del Tao.

No, amare non significa accettare qualunque cosa, ma solo ciò che è buono; o, almeno, ciò che è suscettibile di bene, ciò che ha nostalgia del bene, ciò che tende al bene. Uno sventurato che compia il male, ma abbia nostalgia del bene, può essere amato: non però accettandolo com’è, ma aiutandolo a redimersi. Tutti abbiamo bisogno di redenzione, perché la pace cui aspiriamo è solo nell’Essere…