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Delle piccole patrie e delle loro virtù

di Gian Maria Bavestrello - 08/01/2014

Fonte: heimat

Scrive Il Foglio di martedì 7 gennaio del proposito di un magnate californiano, Timothy Draper, di separare la California in 6 stati indipendenti, fino a giungere addirittura al loro scorporo dagli Stati Uniti d’America. Negli Stati Uniti la tradizione libertaria non è nuova a idee di secessione. Anzi. Tali istanze sono ben radicate nel pensiero anarco-capitalista, che da sempre rivendica la moltiplicazione degli Stati come via maestra al superamento del Leviatano e alla progressiva mitigazione, con tendenza allo zero, della pressione fiscale che grava sul singolo.

Altrove si è già sottolineato come l’anarco-capitalismo sia, negli esiti, un comunitarismo che muove da una forma di individualismo radicale, dimentico che l’individualismo moderno si regge proprio sullo Stato come succedaneo degli antichi corpi intermedi all’interno dei quali la persona veniva educata, trovava protezione e agiva in uno scenario di fiducia diffusa.

Ciò non toglie che il tema delle “piccole patrie” sia da molto tempo una presenza aleggiante ovunque la sete di auto-determinazione, di libertà dalla burocrazia e di rinnovamento dell’agenda politica sia ancora presente. Tanto in Europa quanto nel Nord America e in altri contienti. Personalmente diffido sempre delle regioni che non esprimono nemmeno un movimento autonomista, per quanto piccolo esso sia. Solo nelle terre in cui esistono persone disposte a simili forme di testimonianza mi sembra possibile riscontrare ancora un’anima con radici ben piantate nel terreno della storia e tronco slanciato verso il domani.

La notizia data da Il Foglio mi ha così indotto a scartabellare la mia biblioteca per cercare un libro, ormai datato, che Gilberto Oneto, maitre a penser dell’indipendentismo padano, diede alle stampe per la Leonardo Facco editore nel 2005: Piccolo è libero. Il ruolo dei Piccoli Stati nella Storia dell’Europa moderna. La tesi del libro, che a un excursus storico unisce una sorta di geo-politica “lillupuziana”, è che “il vero motore, il luogo di incubazione dele civiltà sono state soprattutto le piccole comunità, le aggregazioni di poche migliaia di individui”. Pacifiche, vivaci, produttive, concretamente orientate a valorizzare i talenti dei propri abitanti, per mezzo della libertà, piuttosto che a soggiogarli a qualche verità ideologica o a spremerne le energie vitali per alimentare la propria bellicosa volontà di potenza a danno di altri popoli.

Mentre gli Stati di medie o grandi dimensioni si ispirano al modello che muovendo da Jean Bodin è sfociato nello Stato giacobino e  bonapartista, “non esiste alcuno schema di microstato tipo, proprio perché i piccoli Stati nascono per soddisfare esigenze e condizioni particolari sempre diverse”. “I riferimenti fondativi vanno ricercati nel diritto naturale, nella tradizione, e nella consociatio symbiotica che Althusius pone alla base di ogni struttura comunitaria”.

Sono diversi, almeno sul piano teorico, i vantaggi dei piccoli Stati rispetto a quelli di dimensioni maggiori: le grandi ideologie, innanzitutto, trovano terreno fertile nei grandi Stati, da sempre teatri di contrapposizioni astratte che mietono come prima vittima la libertà personale. Da questa constatazione deriva una serie di conseguenze che portano a riflettere sull’efficacia dell’attuale assetto politico europeo: i piccoli Stati hanno innanzitutto costi inferiori ai grandi apparati burocratici che discendono da una minore conflittualità sociale interna, da inesistenti ambizioni militari, dall’assenza di una lunga filiera burocratica e politica.

Gilberto Oneto sottolinea, inoltre, come “pur apprezzando il valore della specializzazione produttiva, le piccole comunità tendono a mantenere un grado di differenziazione che permette loro di non essere in balia dei mercati esterni. Questo è un baluardo contro le monocolture o le monoproduzioni, ma anche contro il devastatante strapotere delle multinazionali. I tanti piccoli mercati sono la più sicura garanzia contro ogni attentato al libero mercato, contro ogni tentazione protezionistica”, ma anche “contro ogni follia globalista”.

All’interno dei grandi stati, la sperequazione di ricchezza nasce spesso da una diversa allocazione delle risorse e dei capitali che concentra i principali fattori produttivi (a partire dal Know how legale, amministrativo, commerciale e tecnologico), in poche aree “centrali”, trasformando vaste porzioni di un Paese in zone periferiche o in fondi serventi di “materie prime” per il sistema militare-industriale. La globalizzazione accentua questo fenomeno, prima circoscritto alle regioni di ogni singola nazione, estendendolo su scala mondiale e rendendo  deserti produttivi i Paesi meno allineati sugli standard dei mercati finanziari. Il centralismo politico si trasforma sovente, per questa via, in un’ancora più deleterio centralismo economico.

Siamo ormai consapevoli che chi compra locale evita che parte della ricchezza impiegata nella transizione esca dai confini della propria comunità e favorisce la re-immissione del valore nel proprio tessuto economico. Diversamente, si alimenta una filiera in cui la comunità locale non viene coinvolta se non nella fase terminale, quella della vendita del prodotto finito. Ebbene, il piccolo Stato, a certe condizioni, permette di estendere questo elementare principio di benessere collettivo a diversi settori produttivi , favorendo una più sistematica applicazione  del localismo economico.  I piccoli stati o le comunità fortemente autonome, laddove – aggiungiamo – non scelgano di divenire semplici paradisi fiscali e siano governati cum grano salis, stimolano infatti la conservazione o la riappropriazione da parte delle comunità locali dei propri bisogni, o almeno di parte di essi, e degli strumenti materiali e culturali utili a soddisfarli.

Spesso tacciati di provincialismo, infine, i piccoli stati hanno maggiore consapevolezza della propria non auto-sufficienza economica e culturale e della duplice necessità di preservare, da un lato, i propri linguaggi e le proprie tradizioni, dall’altro di acquisire linguaggi terzi che li pongano in relazione con altri Paesi e, insieme ad essi, quella tolleranza verso la diversità che deriva dall’abitudine al confronto con l’”altro”. In questa posizione mediana, posta tra la tutela della propria identità e la ricerca d’integrazione,  si fa strada quella strategia di confluenza che, nella salvaguardia delle singole specificità, prende il nome di federalismo.

Certo non tutti gli attuali piccoli Stati hanno uguali fortune o uguali capacità di intercettare i vantaggi sovresposti, ma la tesi da cui muove lo stesso Oneto è l’estrema bio-diversità storica e culturale che li contraddistingue. Quella stessa diversità e quel vitalismo che faceva scrivere a Ernst Junger, nell’amatissimo (almeno da me) Eumeswil: “Nelle città-stato il paesaggio si cristallizza, mentre il grande impero le esaurisce e le degrada a province. L’Asia Minore, prima di Alessandro e ancora sotto i satrapi, era un regno di fiaba”.