L'Europa che non c'è
di Luca Leonello Rimbotti - 12/01/2014
Fonte: Italicum
L’Euroscetticismo che sta crescendo a vista d’occhio anche in Italia non è un frutto ideologico, ma il risultato di semplici analisi alla portata dell’uomo della strada. Chi aveva creduto ai proclami di dieci anni fa, quando gli imbonitori eurocrati fecero credere ai popoli che l’introduzione dell’Euro avrebbe provocato immediata crescita, posti di lavoro e benessere diffuso, oggi deve amaramente ricredersi: davanti al campo di rovine in cui l’Italia e molte altre nazioni europee sono state trascinate, contano poco le minacce o le profezie intimidatorie che le oligarchie snazionalizzate e i loro esecutori agganciati al carro di Bruxelles continuano a rivolgere ai governi e alle masse. Conta ciò che si vede: il fallimento di un progetto di vertice, pensato a tavolino da un nugolo di affaristi in totale scollamento dai popoli. Mai nessuno ha votato democraticamente coloro che decidono il bene e il male della gente comune, il benessere o la rovina degli Stati. E nessuno oggi mette alla sbarra i responsabili di un fallimento che non ha mai avuto la minima possibilità di trasformarsi in opportunità. Ciò che è una catastrofe per i normali cittadini, del resto, è un affare d’oro per quei pochi che speculano sulla rovina finanziaria delle nazioni. A chi vuol crederci, si dice che la colpa è tutta della Germania, che fa la sua politica nazionale sfruttando la moneta comune per i suoi interessi commerciali, dominando l’Europa orientale e saccheggiando le economie fragili di quella meridionale. Può essere. Ma la colpa, così a occhio, non è della Germania che fa la sua naturale politica di imperialismo economico, lasciata libera di farlo in una Unione che non è politica ma solo economica, bensì di quegli Stati – come l’Italia – che non fanno la propria di politica, come da antica tradizione e secondo la sua mentalità da colonia. In un’Unione che non unisce un bel niente, che non ha fondamenti né legittimazione, è ovvio che ognuno faccia i suoi affari senza pensare ai partner deboli. Solo un idiota potrebbe aspettarsi politiche finanziarie solidali o tanto meno interventismi sociali. Qui si bada a smantellare, non a costruire. Si parla di liberismo allo stato puro, non di altro.
C’è un breve libro uscito di recente che porta acqua al piccolo e ancora debole euroscetticismo italiano. In esso si afferma appunto che la Germania è alla conquista dell’Europa e che la sta rovinando mentre tutti gli altri stanno a guardare. In “Europa Kaputt” di Antonio Maria Rinaldi si ha un raro – e purtroppo forse inutile – tentativo di denunciare l’Unione Europea in quanto macchina di distruzione al servizio delle economie forti, in grado di trascinare come dietro a un incantesimo anche i riottosi, che si piegano e non si ribellano. Si ripete l’accusa alla Germania di voler imporre la sua supremazia attraverso le misure inique e dittatoriali di Bruxelles relativamente ai troppo noti parametri fiscali oppure alla mancanza di una vera Banca centrale “nazionale” o “federale”. E si propone senza tante perifrasi l’uscita dalla moneta unica e la reintroduzione della sovranità monetaria. Si può solo aggiungere che quasi cent’anni fa Giuseppe Preziosi scrisse un libro simile – per l’appunto intitolato “La Germania alla conquista dell’Europa” – in cui denunciava i maneggi finanziari della Banca Commerciale al servizio degli interessi imperialistici della Germania del Kaiser, attraverso i suoi banchieri di fiducia, come il Toeplitz. Nulla di nuovo, si direbbe. Oggi la situazione è diversa perché, mentre allora esisteva una classe politica liberale che, pur fra parecchie ombre, aveva anche qualche luce, tra cui un fermo senso dello Stato e la convinzione che la politica la fanno i politici e non i finanzieri, oggi tutto questo non esiste. I finanzieri, che un tempo avevano il pudore di influire sui governi da dietro le quinte, brigando per imporre i loro condizionamenti, oggi non hanno nessun bisogno di influire su nessuno, dato che vengono messi addirittura direttamente a capo dei governi, fanno essi stessi la loro “politica” a viso aperto, senza trovare nessuno che abbia qualcosa da eccepire. Nel 1915 – quando Preziosi scrisse il suo libro – la Banca Commerciale venne rapidamente messa in condizione di non nuocere, i suoi conti e le sue transazioni bloccati, e dire che l’Italia in quell’anno e per ancora un anno non era in guerra con la Germania, ma ufficialmente ancora sua alleata. Vogliamo dire una cosa: i finanziari si fermano con i politici, con la volontà politica, solo che oggi non esiste chi faccia politica, né a livello nazionale né tantomeno a livello di Unione. Ma qualcuno allora potrebbe chiedere: unione? Dove l’Europa è unita? Su quali punti? Quali sono i fondamenti di questa unità? E su quali leve si potrebbe mai agire per attivare qualcosa che assomigli a una volontà unitaria?
Il discorso, vecchio e ripetuto, è da rifare una volta di più e va ribattuto come un chiodo ogni giorno: l’Europa dell’Euro non ha fondamenta, poiché è nata al di fuori della volontà del popolo europeo, e in molti casi contro. Luigi Tedeschi, contestando l’idea di Europa quale è venuta sin qui fondandosi, su questa testata ha scritto di recente che «non si vede quali affinità storico-culturali, quali interessi e destini comuni abbia, ad esempio, l’Italia con la Scandinavia, con la Gran Bretagna inglobata nell’area geopolitica americana, con un est europeo dominato dalla Germania…». Giustissimo. Infatti, se l’Unione Europea fosse uno Stato unitario o federale, non si dovrebbe più ragionare in termini di “Italia” o di “Germania”, ma per l’appunto solo di “Europa”. In questo caso, l’Italia, la Germania, la Francia, sarebbero non dico province, ma possibilmente Stati federati, con un governatore che rende conto al governo centrale, come si fa in questi casi. Ci sarebbero una politica, una politica estera, un’economia, un esercito unici, e allora anche la moneta unica rappresenterebbe qualcosa di reale e non di virtuale.
Se un’Europa ci fosse, sarebbe facile trovare i punti di contatto fra il suo Nord – magari la Scandinavia – e il suo Sud, magari l’Italia. Tutta la storia e la cultura europee, da San Pietroburgo a Siracusa, è un’unica storia, è la storia di un unico mondo culturale e identitario. Gli eruditi scandinavi, per dirne una, ancora nel Settecento parlavano latino e le migliori università in cui oggi si studiano storia romana o filologia classica si trovano tutte nell’Europa settentrionale, non ad Algeri o a Damasco.
E allora sarebbe ovvio riflettere sul fatto che è cosa naturale che le zone di frontiera al di qua e al di là di uno spazio per così dire “imperiale”, di portata continentale, presentino anche dei punti di contatto. Sul limes romano, ad esempio, i popoli italici, slavi, celti, germanici, parlavano un’unica lingua, sia pure imbarbarita, e utilizzavano per i loro scambi un’unica moneta e molte cose li univano, escluse l’appartenenza politica e l’identità culturale. Venezia commerciava con l’Oriente e aveva fondaci in Morea, ma sbaglieremmo se dicessimo che Mocenigo o Vivaldi avevano la stessa cultura, formazione, mentalità, storia comune, insomma appartenevano alla stessa civiltà del Re Sole o di Bach? La comunanza di certi interessi, abitudini, etc. fra le popolazioni che si lambiscono stando sui due lati dei loro confini non mette certo in discussione il concetto di Stato, né il concetto di appartenenza ad un unico contesto politico, ma li presuppone. È quindi del tutto naturale che il Sud europeo abbia qualcosa o molto in comune con il Nord Africa o il Medio Oriente: affari, scambi di saperi, qualche vocabolo, cose anche importanti, per secoli è stato sempre così, anche e soprattutto quando l’Europa – sotto la sigla della “Cristianità” – era un continente ben più unito (cultura, religione, lingua, etnia, economia, arte etc.) e nonostante le lotte intestine, di quanto lo sia oggi. Allora l’Europa era una vera Koiné, una civiltà comune: lo è oggi? Oggi che siamo stati dati in pasto agli speculatori senza che si alzasse una vocina a contrasto è ancora possibile parlare di popolo europeo?
Noi non parliamo di economia: è troppo semplice l’osservazione che il fenomeno che sta davanti ai nostri occhi – il massacro dei sistemi sociali e il dominio del potere finanziario apolide - è semplicemente un’operazione criminale. Noi parliamo di identità perduta, di volontà spenta, di quella stessa assenza di reattività che è tipica degli organismi morenti. Il filosofo britannico Roger Scruton non molto tempo fa ha scritto cose tremende sul «suicidio dell’Occidente» e riguardo alla «trasmutazione antropologica dell’uomo moderno, inerme dinanzi a ogni ipotesi di resistenza», aggiungendo che questo è il risultato della «crisi dell’uomo occidentale, soprattutto di quello europeo, che nega ed annulla i caratteri ereditari in un dispiegamento sempre più vasto di riferimenti e in un indefinito universalismo dei diritti». A questo – poiché i problemi si sommano ai problemi – aggiungiamo quanto sostenuto di recente dal famoso storico ebreo Walter Laqueur circa quelli che ha sintomaticamente definito «gli ultimi giorni dell’Europa», scrivendo ad esempio che «se ora c’è più xenofobia, può ben essere dovuta alla reazione della classe lavoratrice bianca contro il trattamento preferenziale che spesso è stato riservato agli immigrati», e sottolineando che l’enorme denatalità europea pone seccamente un «problema di esistenza o di estinzione».
Per forzare una qualsiasi reazione di fronte alle molteplici aggressioni che oggi l’Europa subisce, Laqueur si è chiesto se forse una crisi sempre più grave, una crisi parossistica, non sarebbe per caso la leva per mobilitare le coscienze e per far «scattare un nuovo dinamismo» in grado di salvare le popolazioni europee. Non ha dato risposta, nel senso che la sventura può portare reattività e volontà di lottare, ma può anche creare ulteriore disfattismo, ulteriore paralisi davanti a ciò che la propaganda globalista indica come “ineluttabile”. Nietzsche, in un’epoca in cui l’Europa era all’apogeo, scrisse profeticamente che «l’impressione che faranno gli Europei dell’avvenire sarà quella di lavoratori molteplici, loquaci, poveri di volontà e molto malleabili, i quali hanno bisogno di un “padrone” come del pane quotidiano». Le uniche volte che il popolo è stato chiamato a dire la sua sull’Europa di Bruxelles – come in Francia e in Olanda nel 2005 – la costituzione politica escogitata da quei falsari della Borsa è stata bocciata. L’Europa oggi non esiste se non come espressione geografica. Per provocare la reazione bisogna che qualcuno la spari grossa, perché le masse, come la storia dimostra, seguono le grandi e non le piccole idee: è bastato Grillo con le sue boutades per dimostrarcelo. Dunque per scacciare i mercanti dal tempio ciò che occorre è più semplice di quanto sembri, dato che le cose accadono, e bisogna soltanto spingerle un po’. Qualcuno lo dica, i popoli prima o dopo seguiranno: destituire tutti gli europarlamentari, sciogliere la presente Unione, abolire l’Euro, fare una votazione europea su due o tre modelli diversi di Costituzione, proclamare un governo popolare unico, un’unica capitale, un unico governo, un unico Stato federato. Poi ne riparliamo. Tutto questo è “impossibile” come sembrava “impossibile” immaginare l’Unità d’Italia nel 1820. Non di più. Per gli Stati Uniti d’Europa, piaccia o no, bisogna lottare.