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L’imperatrice rossa. Condannata a morte, Jiang Qing si suicidò

di Stenio Solinas - 02/08/2006



 

L’’invito, ma
sarebbe
meglio dire
l’ordine, di
«bombardare
il Quartier
Generale»
arrivò il cinque agosto di quarant’anni
fa. Aveva la forma di un dazibao,
il “giornale a grandi caratteri”,
era stato vergato dal Presidente
Mao in persona, sancì di fatto lo
scoppio della Grande Rivoluzione
Culturale proletaria. Fu allora che
gli intellettuali si ritrovarono classificati
come «nona categoria puzzolente
» e collocati al fondo della scala
sociale. Scritto e affisso a Pechino,
in occasione dell’Undicesima
sezione plenaria del Comitato centrale,
il documento confermava e
rilanciava quanto era stato scritto e
affisso a Shanghai
nove mesi prima,
ovvero il battesimo a
mezzo stampa di
quello che allora
sarebbe stato definito
il Gruppo dei Quattro,
in contrapposizione
al Gruppo dei
Cinque, o Gruppo
per la Rivoluzione
Culturale, contro cui
era sceso e in campo,
e in seguito, una volta
sconfitto, più semplicemente
e più volgarmente
“la Banda
dei Quattro”. Ne
facevano parte un
operaio, Wang Hongweng,
un giornalista,
Yao Wenyuan, un critico
d’arte, Zhang
Chunqiao. Il quarto
elemnento era una
donna, Jiang Qing,
una ex attrice di
cinema che sugli
schermi cinesi, nome
d’arte Lang Ping,
non aveva avuto fortuna,
ma che nella
vita era divenuta la
quarta moglie di
Maozedong.
Nella residenza di
Mao, oggi museo, a
Wiehailu, all’angolo
con Maoning Beilu,
un intrico di viuzze e
panni stesi su cui
incombono i 37 piani
del Four Season, di
Jiang Quing non c’è traccia, il che
storicamente è corretto. Fa parte
dell’epoca gloriosa di prima ancora
della Lunga Marcia, quando il
comunismo non era una certezza,
ma una scommessa, così come il
museo che è stato eretto sulla casa
che tenne a battesimo il Partito
comunista cinese nel luglio del
1921, o, poco distante, la dimora
storica di Zhou Enlai. Qui, però, la
figura di Jiang Quing, per quanto
assente in effigie, è presente in spirito
dietro le foto che ricordano le
manifestazioni di cordoglio per la
morte di Zhou, che sfociarono nel
cosiddetto “incidente di Tienanmen”.
Si vedono corone e ghirlande
bianche, con al centro il ritratto del
leader scomparso, deposte nella
piazza a fianco del monumento agli
eroi e accompagnate da scritte e
messaggi ostili alla Banda dei Quattro.
«Devi essere folle a voler essere
un’imperatrice. Hai formato una
piccola banda per fomentare il caos
continuo, ma i tuoi giorni sono contati.
Sei come un cane pazzo che
abbaia al sole». Era il cinque aprile
del 1976, e quel giorno i reparti di
polizia di Pechino, chiamati a svuotare
e a “ripulire” la piazza, si ritrovarono
ad affrontare una vera e propria
guerriglia urbana. Deng Xiao
Ping, che della Rivoluzione culturale
era stato dieci anni prima il principale
bersaglio, e che da poco era
tornato sulla scena politica, considi
controderato l’orchestratore del dissenso,
fu rimosso nuovamente da tutti gli
incarichi, ma ormai erano gli ultimi
fuochi. Già gravemente malato,
Mao morirà cinque mesi dopo, il
nove settembre; il sei ottobre l’intera
Banda dei Quattro verrà arrestata
e gettata in carcere. Condannata a
morte, pena poi commutata in ergastolo,
Jiang Qing si impiccherà in
cella nel 1991.
Naturalmente, la “Rivoluzione culturale”
è pura farina del sacco di
Mao, e sottolineare il ruolo
dell’“imperatrice rossa” sposta di
poco il peso della bilancia. Solo
che, vista da Shanghai, l’intera
vicenda ha un sapore particolare
che val la pena di gustare sino in
fondo. Quello che fu un sanguinoso
scontro per il potere, vinto il quale
Mao non ci pensò due volte a usare
l’esercito per rimettere al loro posto
le Guardie rosse cui doveva la vittoria,
per Jiang Qing rimase uno scontro
culturale, il radicalismo di Shanghai
contro il tradizionalismo in stile
Opera di Pechino, ed era il radicalismo
di chi, ventenne trent’anni
prima, aveva cercato di far carriera
nella più crudele e più mercenaria
delle città, dove vendere la propria
carne e il proprio sorriso non era
sufficiente per assicurarsi la gloria.
Venuta dalla provincia, Jiang non
aveva alle spalle il potere familiare
che permetterà alla sua coetanea
shanghainese Chin Chin di atteggiarsi
a rivoluzionaria e femminista,
vestita in abiti maschili, un Fedora
sulla testa. Né aveva le entrature,
altri avrebbero detto il talento, di
Chou Houan, la “voce d’oro”, come
la chiamavano i suoi fans, di
“Angelo della strada”, un classico
del cinema cinese dell’epoca, o di
Ruan Ling-yu, l’eroina di “La dea”,
la “Garbo di Shanghai”, 26 film in
nove anni. Nel romanzo di Lu
Hsun, “Rimorso”, la donna indipendente
aveva come destino o il ritorno
a casa, e quindi la sconfitta,
oppure la prostituzione e la fame, e
quindi il disonore e la morte. Chen
Pai-lu, la prostituta del dramma teatrale
“Alba”, di Tsao Yu, si uccide
perché non riesce a impedire che
una sua giovane protetta faccia
anche lei la vita... È contro questo
combinato disposto di fatalsimo e
tradizione, di ruoli definiti e di
caratteri che Jiang Qing scenderà in
campo, e il suo comunismo significherà
veramente tabula rasa del passato,
rivoluzione permanente affinché
nulla del passato possa più tortare,
rivincita per ciò che avrebbe
potuto essere e non fu: il successo,
la fama, il potere. Negli anni della
Rivoluzione culturale, sono otto i
“modelli di spettacolo”, interpretati
via via da milioni di cinesi, che scriverà
e farà rappresentare, lo scontro-
lezione fra i mali dell’antica
società e il “nuovo regno della virtù
rossa”. Il più famoso, “La ragazza
dai capelli bianchi”, mette in scena
la storia di Xier, in fuga dal crudele
padrone, la chioma incanutita per le
notti passate al gelo. Nella scena
clou, il suo grido, il pugno chiuso
rivolto al cielo, suona così: «Io sono
l’acqua che non può
essere asciugata, il
fuoco che non può
essere spento. Vivrò.
E sarà mia la vendetta
».
Alla casa-museo di
Mao, così come in
quella di Zhou o nel
mausoleo dedicato al
Partito, si può comprare
il volume “Red
Colors-New Soldier”.
Pubblicato in lingua
inglese da Phaidon,
raccoglie l’archivio
fotografico di Li
Zhensheng, fotoreporter
dell’Heilongjiang
Daily, il quotidiano
di Herbin, una
città dell’estremo
nord della Cina: è la
prima storia visiva
della Rivoluzione
culturale mai pubblicata,
più di trecento
immagini i cui negativi
sono rimasti
nascosti e conservati
per quasi quarant’anni.
Che sia in vendita
nei musei ufficiali
non è casuale, e del
resto lo puoi trovare
anche nelle due librerie
di Shanghai che
trattano libri stranieri,
nonché nei
“bookshops” dei
grandi alberghi... È il
logico corollario di
ciò che nell’XI Congresso
del 1981 venne sancito: «La
pratica ha dimostrato che la “Rivoluzione
culturale” non costituì una
rivoluzione o un progresso sociale.
La responsabilità principale di quello
che fu un errore grave, ampio e
protratto nel tempo, risiede in Mao.
Nei suoi ultimi anni, lungi dal fare
un’analisi corretta, confuse il giusto
con lo sbagliato, scambiò il popolo
per il nemico». E tuttavia, siccome
«gli errori sono secondari, i suoi
meriti primari», il ruolo e il peso di
Mao non sono in discussione. Dice
Li Zhensheng, nella introduzione a
quello che, semplicemente, è un
libro agghiacciante, che allora «tutta
la Cina fu un teatro in cui il pubblico
sempre più si fece attore: dal
più povero contadino, intento a una
“sessione di lotta”, al “nemico di
classe”, costretto a umiliarsi chinando
il capo; dal denunciato ai denunciatori;
dai ribelli ai rivoluzionari,
dalle guardie rosse alle vecchie
guardie.
Tutti recitarono la loro parte. Con
bracciali e bandiere, cartelli e manifesti,
libretti rossi sventolati. Il palcoscenico
era dominato da una stella
immobile, circondata da milioni
di persone, ora urlanti, ora silenziose
». Fu Mao il regista ringhioso e
onnipotente di quello spettacolo
pazzesco. Come ammetterà Jiang
Qing prima di morire, «io ero il
cane del Presidente. Se mi diceva di
mordere, mordevo».