Due repubbliche, due modi diversi di vedere, più da oriente, l’attuale crisi dell’Ucraina; per capire fino in fondo che partita si sta giocando a Kiev, bisogna fare due balzi: uno temporale, l’altro geografico. Da un punto di vista temporale, bisogna spostarsi all’agosto del 2008, mentre da un punto di vista geografico, il balzo da effettuare è nel bel mezzo del Caucaso ed in particolare nelle repubbliche dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud.
Tutto è iniziato il 6 agosto del 2008; nel pieno di una classica calda mattinata agostana, Tskhinvali, la capitale dell’Ossezia del Sud, si è risvegliata sotto un fitto bombardamento, che non ha risparmiato nemmeno l’ospedale civile. Gli aerei che improvvisamente hanno svegliato i cittadini osseti a suon di bombe, erano dell’aviazione civile georgiana. Da Tbilisi era partito l’ordine: riconquistare l’Ossezia del Sud.
Per esserci un’Ossezia del Sud, vuol dire che ne esiste anche una del Nord; ed è su questo che si è giocata la chiave di quel mini conflitto estivo. Esiste l’Ossezia del Nord e fa parte della Federazione Russa; durante l’Unione Sovietica, agli osseti non fu riconosciuto il diritto ad avere uno stato incorporato nella federazione di Mosca, per cui il suo territorio fu spartito a metà tra Soviet di Russia e Soviet di Georgia. Alla dissoluzione dell’impero sovietico ed alla successiva indipendenza della Georgia, gli osseti del sud si ritrovarono quindi sotto la sovranità di Tbilisi, all’interno di uno Stato che non riconoscevano come loro, anche alla luce di antichi e mai sopiti contrasti etnici; così, nel settembre del 1991, l’Ossezia del Sud si è autoproclamata Repubblica indipendente, con tanto di bandiera, inno e con Tskhinvali capitale.
Dal Caucaso centrale, al mar Nero; lì sorge un’altra entità territoriale, ricadente nell’antico Soviet di Georgia, ma abitata dagli abcasi, anche in questo caso un’etnia che vanta secoli di contrasti con i georgiani ed anche in questo caso, si è preferita la via dell’autoproclamazione dell’indipendenza, a cui seguì un conflitto con il governo centrale di Tbilisi durato fino al 1994, al termine del quale la regione rimaneva in un autentico limbo: ufficialmente parte integrante della Georgia, de facto un territorio distinto dal governo centrale ed in cui la sicurezza era amministrata da un contingente di militari della Comunità degli Stati Indipendenti, sotto l’egida della Nazioni Unite, una situazione quindi non dissimile da quella del Kosovo degli anni 2000.
Poi, come ben si sa, ad una Russia che iniziava a tornare rampante nello scenario internazionale, l’occidente iniziava a pensare di staccarle l’ossigeno, isolandola grazie a delle psuedo rivoluzioni che miravano a rovesciare i governi alleati del Cremlino; il primo passo di questo progetto, è stato mosso proprio in Georgia nel 2003, quando la cosiddetta “rivoluzione delle rose” mandava al potere Mikheil Saakasvili, il quale dichiarava da subito di essere al fianco degli USA e nelle prime conferenze stampa, senza legittimità e motivo, posizionava la bandiera dell’Unione Europea al fianco di quella georgiana. In quell’agosto del 2008, dopo essere stato rimpinguato di Dollari ed armi sia americane che israeliane, come poi dimostrato dalle autorità russe, Saakasvili decideva di attaccare l’Ossezia del Sud, con l’intento di riportarla sotto il controllo di Tbilisi. Di fatto, è lì l’inizio del braccio di ferro che oggi si vede in un altro scenario, in Ucraina.
L’occidente, voleva testare la resistenza della Russia una volta attaccati territori ed interessi affini a Mosca; voleva vedere insomma, se si poteva accelerare il piano di accerchiamento di Mosca, spostando sempre di più verso est il confine dell’occidente. Ma dopo anni in cui al Cremlino non si poteva fare altro che assistere inermi alle rivolte fomentate nei paesi di influenza russi, si decideva di reagire. Se l’occidente voleva testare il grado di resistenza russo, ha avuto ampia dimostrazione del potenziale del paese post sovietico; Mosca intervenne contro i georgiani, a difesa degli osseti del sud, fratelli di quelli del nord, appartenenti a pieno titolo alla federazione russa.
Nel giro di una settimana, i carri armati russi erano arrivati quasi alle porte di Tbilisi, con la Georgia che rimediava una lezione militare e politica senza precedenti; al cessate il fuoco, la Russia riconosceva l’indipendenza dell’Ossezia del Sud, schierando a protezione del piccolo paese causasico il proprio esercito. Stesso scenario in Abcasia, in cui la Russia, per evitare mire georgiane anche in questo territorio, fornisce riconoscimenti ed assistenza militare ed economica alla Repubblica autoproclamata, che ha come capitale Sokhumi, importante porto sul mar Nero, non lontano dalla Crimea.
Se l’occidente in Georgia ha fallito, in Ucraina ci ha voluto riprovare; dietro questo braccio di ferro, da un lato vi è una nazione che sta tornando nel novero delle potenze, dall’altro una coalizione formata da USA e dai suoi fidi schiavetti europei, che tenta di bloccarla ed assediarla, cercando di penetrare fino al cuore di Mosca. Un braccio di ferro quindi, dietro cui non ci sono in ballo solo i destini di osseti, abcasi, georgiani ed ucraini, bensì le sorti dell’intero equilibrio del sistema internazionale del prossimo futuro.