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Il Principio antropico non è che la più recente pretesa di auto-divinizzazione dell’uomo

di Francesco Lamendola - 25/04/2014


 

 


 

L’universo esiste affinché noi possiamo esistere, riflettere e interrogarci sulla sua esistenza; oppure noi esistiamo quale effetto o conseguenza collaterale, e più o meno casuale, della sua esistenza, la quale potrebbe darsi anche senza di noi, ovvero senza alcun bisogno di postulare l’esistenza di una forma di vita intelligente, capace di porsi delle domande a suo riguardo?

A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso gli studiosi di cosmologia, bontà loro, hanno incominciato a porsi le semplici, ma essenziali domande che gli antichi filosofi greci si erano posti già duemila e seicento anni fa: chi siamo e da dove veniamo? Qual è il nostro posto nell’universo? E l’universo è stato fatto per noi, o noi ne siamo solo degli ospiti casuali? C’è un Dio, che presiede all’ordine dell’universo, ed esiste davvero un tale ordine? Oppure quello che noi chiamiamo enfaticamente “ordine” è soltanto l’insieme dei nostro schemi mentali, delle nostre aspettative, della nostra tendenza a razionalizzare “a posteriori” qualunque fenomeno, postulando il principio di causa ed effetto per coprire la nostra profonda ignoranza del reale?

Gli scienziati e gli astronomi della seconda metà del Novecento, beninteso, non l’hanno presa così larga; si sono limitati a domandarsi: è forse un caso che il carbonio, l’elemento naturale a partire dal quale si organizza la vita, e senza il quale, dunque, non vi sarebbe pensiero, perché non vi sarebbe vita evoluta e intelligente, richiede tempi lunghissimi per formarsi? È una mera coincidenza il fatto che la fusione nucleare che ha luogo all’interno delle stelle, anzi un particolare tipo di fusione nucleare, produce, alla fine dell’esistenza di queste ultime, quando esse implodono e collassano su se stesse, una massiccia dispersione di carbonio e di altri elementi pesanti che entrano nella composizione delle polveri stellari e dei gas, dai quali nasceranno nuove stelle e nuovi pianeti? Ed è forse una mera coincidenza il fatto che il ciclo di “nascita” e “morte” delle stelle richieda parecchi miliardi di anni; e che simili tempi siano quanto è necessario perché il carbonio, fissandosi sulla superficie di qualche pianeta in via di raffreddamento, dia origine ai primi micro-organismi, dai quali possono poi evolvere forme di vita sempre più complesse, fino a quelle che sono caratterizzate da una intelligenza di tipo superiore e, pertanto, da una capacità di riflettere e porsi delle domande su quanto esiste e sul perché esiste?

Tutto questo, naturalmente, se si prende per verità definitiva la teoria dell’evoluzione naturale, che è invece - giova ricordarlo – appunto una semplice teoria, non ancora interamente confermata dalle evidenze scientifiche e verso la quale, anzi, si levano da più parti critiche e si avanzano dubbi. Dunque: evoluzione delle stelle, evoluzione della vita; alla formazione di un “buco nero”, dal quale si generano nuove galassie e nuovi universi, corrisponderebbe l’evoluzione della vita, dalle prime molecole organiche fino alle forme superiormente organizzate, dotate della più raffinata intelligenza: forme come la nostra, o anche – perché no? – superiori alla nostra; forme capaci di porre le domande ultime circa la natura dell’universo, la sua origine e, soprattutto, il suo significato – che include, evidentemente, anche il NOSTRO significato, il nostro scopo, il nostro destino.

Ma esiste, poi, un significato? O si tratta soltanto di un nostro desiderio, di un disperato bisogno di razionalizzare, di spiegare, di giustificare ciò che non ha alcun senso, perché deriva solo dal caso? La prospettiva evoluzionistica, peraltro – sia quella biologica, sia quella, se così possiamo esprimerci, cosmologica – non preclude la questione del significato, la sposta semplicemente. Darwin, per esempio, sostiene che l’evoluzione è originata dal caso e governata dal caso: è il caso a selezionare le mutazioni genetiche che risulteranno poi favorevoli alle specie viventi nella lotta per la sopravvivenza. Non ha spiegato perché: gli è parso che una tale concezione non richiedesse l’intervento di una mente superiore, di una mente cosmica dotata di intelligenza (e, meno ancora, dotata di amore): non è riuscito a scorgere nient’altro che una serie di capricci della natura dai quali, un bel momento, sarebbero scaturite le diverse forme viventi, così come la nostra. Oggi sappiamo che tale concezione è, quanto meno, insufficiente: le probabilità che la vita organica si sia originata dalle molecole inorganiche, nel cosiddetto “brodo primordiale” (la classica espressione creata apposta per suggerire che gli scienziati abbiano capito e spiegato quello che, in realtà, non hanno capito, e tuttavia pretendono di spiegare), sono, in realtà, talmente esigue, quanto quelle che una scimmia, pestando a caso sui tasti di una macchina da scrivere, componga un poema perfetto come la «Divina Commedia». Per non parlare dei famosi “anelli mancanti”, che Darwin stesso riconosceva non essere stati ancora trovati, e che tuttora rimangono assenti, per spiegare il passaggio da una specie all’altra, da un ordine all’altro (per esempio, dai rettili agli uccelli); e per tacere della imbarazzante realtà dei cosiddetti “fossili viventi”, specie vegetali e animali le quali hanno avuto l’incredibile impudenza e - si direbbe - lo sfacciato cattivo gusto di restare perfettamente uguali a se stesse, per decine o centinaia di milioni di anni, mentre il mondo intero intorno ad esse, secondo la teoria evoluzionista, non faceva altro che cambiare, portando all’estinzione delle specie inadatte e alla comparsa continua di specie più adatte rispetto alle condizioni d vita nei diversi ambienti del globo terracqueo.

Sia come sia: è possibile, dicevamo, che la convergenza esistente fra i tempi lunghissimi richiesti per la nascita di nuovi universi attraverso i”buchi neri”, di nuove nebulose, di nuove galassie, di nuove stelle e di nuovi pianeti e satelliti, si adattino perfettamente ai tempi, altrettanto lunghi, per la nascita della vita e per l’evoluzione di forme viventi sempre più complesse e specializzate, sempre più intelligenti, fino alla nostra e, magari, fino ad altre ancora più sofisticate, ancora più intelligenti (ma intelligenti per davvero, si spera: non così “intelligenti” come lo è la nostra specie, che ha stipato negli arsenali nucleari un quantitativo di ordigni nucleari capaci di estinguere la vita sul nostro pianeta non una sola volta, ma decine di volte)? Tutto questo non fa pensare a qualcosa che vada oltre la mera coincidenza? Per dirla tutta: non fa pensare a una mente cosmica, a una super-mente che ragiona veramente in grande, e per la quale il tempo e lo spazio non sono che giocattoli per mezzo dei quali produce e distrugge la materia, la vita, il pensiero, in un processo incessante di espansione e contrazione, simile al respiro stesso dell’universo?

Oppure sono i nostro schemi mentali, è il nostro modo di ragionare finalistico, che ci suggerisce qualcosa che non esiste, che ci fa ipotizzare un regista occulto e intelligente, là dove non esiste altro che materia in continua espansione e contrazione, in una successione di Big bang e buchi neri, nella quale la polvere stellare e i gas presenti alla fine del ciclo di esistenza di una stella vengono lanciati nello spazio per fecondarlo e per colonizzarlo con gli elementi che da essi nasceranno, come da una sorta di immane schizzo di spermatozoi destinato a fecondare il grembo degli sconfinati, insondabili spazi cosmici, sino ai confini estremi dell’universo? E poi, chi può dire quanti universi esistono; e se, negli “altri” universi - esistenti, forse, in una dimensione parallela alla nostra, ma al di fuori del nostro spazio e del nostro tempo - vigono le stesse leggi fisiche e biologiche che noi conosciamo? Chi può dire che non vi siano degli universi nei quali l’intelligenza può esistere senza il supporto della materia, senza il concorso della materia organica? Anzi, chi può dire se ciò non valga anche per il NOSTRO universo? Noi siamo abituati a pensare così, perché vediamo che la vita si associa alle facoltà della mente; ma esistono indizi e particolari osservazioni, i quali parrebbero indicare proprio il contrario: che il cervello, dopo tutto, sia non già la sede e la causa dell’intelligenza, ma semplicemente il suo supporto temporaneo; e che l’intelligenza, a un certo punto, possa benissimo funzionare anche fuori di esso, anche lontano da esso, anche senza di esso. Come spiegare, diversamente, i casi di quelle persone che, in stato di morte clinica, o sottoposte ad anestesia totale, hanno saputo descrivere, al risveglio, tutto quello che avveniva intorno a loro, nella sala operatoria; hanno saputo descrivere oggetti e persone da un punto di vista “superiore”, come se li avessero potuti osservare e udire dall’alto; hanno saputo dire perfino quel che accadeva fuori di quella stanza, in altri luoghi, e descrivere fedelmente quel che facevano e quel che dicevano le persone che si trovavano al di fuori del campo visivo e uditivo di essa?

E chi può dire se le stelle, dopo tutto, non siano, esse medesime – come pensavano gli scienziati-maghi del Rinascimento – delle creature viventi e intelligenti; se non lo siano anche le galassie, le nebulose, gli universi; e se soltanto la loro immensità e la nostra piccolezza ci impediscono di rendercene conto, e perfino di pensarlo, così come sarebbe difficile e quasi impossibile, per un micro-organismo insediato nel nostro intestino, qualora avesse una qualche forma di intelligenza, concepire e accettare l’idea di trovarsi all’interno non già di una “cosa” inerte, di un semplice ambiente naturale in cui poter vivere e riprodursi, ma di un grande organismo vivente, che esso non riuscirebbe mai a vedere, data la sua piccolezza e l’infinita modestia del suo punto di vista? Ma allora: non ci troviamo forse nelle stesse condizioni di quel minuscolo micro-organismo, noi che pretendiamo non solo di tracciare i confini dell’universo e di stabilire la sua data di nascita, ma perfino di comprenderne le leggi e di giudicare del suo significato? Noi, proprio noi, che non siamo neppure in grado di affermare con certezza se la civiltà cui apparteniamo, se la razza cui apparteniamo, siano le prime nel corso della storia umana, o se siano giunte per seconde, terze, quarte, quinte, dopo aver perduto perfino il ricordo delle precedenti razze e delle precedenti civiltà, conservandolo solo nella forma dei miti e in qualche dubbia e controversa testimonianza geologica, in qualche strano e incomprensibile reperto archeologico!

Sappiamo così poco, comprendiamo così poco del nostro passato umano, e tuttavia pretendiamo di stabilire da quanto esiste l’universo; sappiamo così poco dello spazio, del tempo, del principio di causa ed effetto, e tuttavia pretendiamo di assegnare una durata alla vita dei pianeti, delle stelle, delle galassie, e di sapere che ovunque, in ogni ambito dello spazio-tempo, la materia rispetta le medesime costanti e le medesime “leggi” che abbiamo osservato nel nostro, piccolissimo angolino di universo; che la vita rispetta sempre e ovunque le stesse dinamiche e riflette le stesse caratteristiche; che esiste un confine preciso fra “organico” e “inorganico”, fra “prima “ e “dopo”, fra “dentro” e “fuori”: noi, che non sappiamo neppure chi siamo, che cos’è la nostra intelligenza, che rapporto esiste fra il “nostro” corpo e lo spirito che su di esso riflette e s’interroga, fra il “nostro” cervello e i nostri pensieri, le nostre sensazioni, le nostre emozioni. Noi, che non sappiamo dire nemmeno come fanno i grandi uccelli migratori a raggiungere la loro lontanissima meta, con precisione infallibile, navigando per giorni e settimane, nel buio, nella nebbia; che non sappiamo nemmeno spiegare come fa una persona, affetta da un tumore in piena metastasi, a guarire improvvisamente, a far sparire in sé la malattia, mostrando alla fine, nelle radiografie, il suo organismo perfettamente risanato e senza la più piccola traccia delle cellule impazzite che lo devastavano. Che non sappiano dire come sia possibile che una bambina di cinque o sei anni, a un certo punto, improvvisamente, “riconosca” persone, cose e luoghi in cui non era mai stata prima; descriva persone e situazioni che non aveva mai visto; racconti ogni particolare della vita di un’altra bambina, vissuta anni prima di lei, ma in un altro villaggio, in un’altra regione, e poi morta, morta nel momento in cui lei stava nascendo.

Ma torniamo al principio antropico. Ne esistono due versioni, “debole” e “forte”; in comune, hanno l’idea che l’universo sia quello che è, non per un mero caso, ma perché siano rispettate le condizioni necessarie allo sviluppo della vita.

Scrive John Gribbin nel volume «Astronomia e Cosmologia» (titolo originale: «Companion to the Cosmos», London, 1996; traduzione italiana di Libero Sosio, Milano, Garzanti, 2005, pp. 426-29):

 

«[Il principio antropico è ]’idea che l’esistenza della vita (o più specificamente della vita umana) nell’universo possa fissare vincoli ai caratteri dell’universo attuale, e possa aver contribuito a far diventare l’universo così com’è attualmente. L’efficacia del principio antropico può essere valutata nel modo migliore sulla base di un esempio. La nostra esistenza richiede che ci sia una stella (il Sole), attorno alla quale orbiti alla distanza appropriata il pianeta su cui viviamo la Terra); Sole e Terra devono possedere il miscuglio appropriato di elementi chimici (fra cui, in particolare, carbonio, azoto, ossigeno e l’idrogeno primordiale rimasto dopo il Big bang originario). Questi elementi svolgono un ruolo chiave nei processi biologici. A tutta prima si può avere l’impressione che il resto dell’universo, con i suoi milioni di galassie disseminate in miliardi di anni-luce di spazio, sia irrilevante per la nostra esistenza.

Ma da dove provengono gli elementi da cui siamo composti noi e la Terra? Il Big bang produsse soltanto idrogeno, elio e tracce qualche elemento leggero. Il carbonio e altri elementi pesanti furono prodotti all’interno di alcuni tipi di stelle, che esplosero al termine del loro ciclo vitale disseminandoli nello spazio. Questi elementi andarono così ad arricchire le nubi di polveri e gas da cui in seguito poterono formarsi successive generazioni di stelle, fra cui il nostro Sole, e il loro seguito di pianeti. Tutti questi processi richiesero miliardi di anni. L’evoluzione della vita su un pianeta adatto, fino alla formazione di esseri intelligenti, in grado di osservare il loro ambiente e di porsi domande sulla grandezza dell’universo, richiese altri miliardi di anni. Durante tutto questo tempo, l’universo continuò a espandersi. Dopo miliardi di anni, esso ha inevitabilmente un diametro di miliardi di anni-luce. Il fatto che noi siamo qui a formulare domande sulla grandezza dell’universo, richiede quindi che l’universo contenga molte stelle, che debba avere un’età di molti miliardi di anni e che abbia un diametro di vari miliardi di anni-luce.

Questo argomento quasi (ma non del tutto) tautologico («noi siamo qui perché siamo qui») pare sia stato espresso per la prima volta in un contesto cosmologico da Robert Dicke. In un articolo pubblicato nel 1957, Dicke sottolineò che la grandezza dell’universo “non è casuale ma è condizionata da fattori biologici” (cit. da Barrow e Tipler). A quel tempo Fred Hoyle aveva già usato, per spiegare come furono prodotti gli elementi, quella che – con il senno di poi – possiamo considerare una genuina previsione fondata su un ragionamento antropico. Nell’ipotesi di Hoyle, l’esistenza del carbonio nel nostro corpo richiede che nelle stelle si verifichi  una fusione nucleare con determinate caratteristiche; furono compiuti esperimenti per verificare questa previsione, e si rilevò che la reazione ha luogo esattamente nel modo predetto da Hoyle. Questa potente applicazione del ragionamento antropico non ha ancora ricevuto il credito che merita.

Fra i cosmologi l’interesse per il principio antropico decollò realmente solo nel 1974, quando il ricercatore britannico Brandon Carter tracciò una distinzione fra il “principio antropico debole” e il “principio antropico forte”. Queste variazioni sul tema furono poi definite da John Barrow e Frank Tipler nel modo seguente: “PRINCIPIO ANTROPICO DEBOLE: i valori osservato di tutte le quantità fisiche e cosmologiche non sono ugualmente probabili, ma sono subordinati alla richiesta che esistano siti in cui possono evolversi forme di vita fondate sul carbonio e alla condizione complementare che l’universo sia abbastanza vecchio perché la prima richiesta sia già stata soddisfatta. PRINCIPIO ANTROPICO FORTE: l’universo deve avere proprietà tali da permettere alla vita di svilupparsi in una qualche fase della sua storia.”

La versione debole del principio suggerisce che l’universo abbia avuto in un certo senso una”scelta” sul modo in cui emergere dal Big bang. Per esempio, l’intensità dell’interazione gravitazionale avrebbe potuto avere un valore diverso da quello che conosciamo. Supponiamo che la gravità fosse molto più intensa: in tal caso, a parità di tutto il resto, le stelle sarebbero più piccole che nel nostro universo e brucerebbero più rapidamente il loro combustibile nucleare prima che forme di vita complessa come gli esseri umani avessero il tempo di evolversi.

In questa prospettiva, un universo infinito potrebbe essere suddiviso in “domini” soggetti a leggi fisiche diverse. Questi domini potrebbero essere separati fra loro nello spazio, fuori dalla portata dei nostri telescopi, o nel tempo: in un certo senso potrebbero essere forse anche “precedenti” al Big bang”. Oppure potrebbero esistere in un qualche super-spazio pluridimensionale, collegato a noi da cunicoli spazio-temporali. Forme di vita simili a noi esisterebbero solo in domini in cui le stelle avessero una vita abbastanza lunga da permettere  l’evoluzione di organismi complessi, e dove anche le condizioni fossero appropriate.

La versione forte del principio antropico suggerisce che l’universo non abbia avuto scelta su come emergere dal big bang, e che in un certo senso sia stato “costruito su misura” per l’uomo. Alcuni fisici, e in particolare John Wheeler, hanno collegato quest’affermazione con idee della teoria quantistica, secondo le quali nulla sarebbe reale fino a quando non viene osservato: in altri termini, la realtà fisica del nostro universo dipenderebbe dalla presenza di osservatori intelligenti consapevoli della sua esistenza; sarebbe solo l’osservazione ad assicurare che le interazioni fondamentali e le costanti di natura, come l’intensità della gravità, abbiamo i valori che conosciamo. Altri vedono, nelle “coincidenze” che permettono l’esistenza della vita nell’universo, una prova che esso è opera di un architetto intelligente. Hoyle ha scritto che “le leggi della fisica nucleare” sono state deliberatamente definite tenendo conto delle conseguenze che esse producono all’interno delle stelle” (“Galaxies, Nuclei and Quasars, Heinemann, London 1965), anche se ben pochi cosmologi concordano con lui.

A questo livello, la controversia sulla cosmologia antropica è una variazione del vecchio argomento del disegno intelligente usato per “dimostrare” l’esistenza di Dio: secondo questo argomento – che ha avuto il suo paladino più influente nell’autore della “Natural Theology” William Paley (1743-1805) – gli organismi viventi sono troppo complicati per poter avere avuto origine per caso. Secondo l’argomento contrario, rappresentato poco dopo da Charles Darwin (1809-82), la complessità degli organismi viventi sula Terra sarebbe il prodotto dell’evoluzione per selezione naturale, la quale ha adattato gli organismi al loro ambiente, senza alcun bisogno della mano di Dio. Fatto molto interessante, questo argomento contrario è stato ora esteso al’ambito della cosmologia, grazie anche all’opera del fisico matematico americano Lee Smolin. Questi ha sostenuto che, quando un universo neonato si stacca dal proprio genitore attraverso un buco nero, le leggi della fisica nel “nuovo” universo possono essere leggermente diverse da quelle vigenti nel “vecchio” universo. Queste differenze nelle leggi della fisica potrebbero fornire la materia prima a una selezione naturale al livello degli universi stessi, cosicché gli universi più efficienti nella produzione di buchi neri, in grado quindi di produrre altri universi simili a se stessi, avrebbero la meglio in una specie di lotta cosmologica per la conquista dello spazio. Secondo quest’argomentazione, saranno avvantaggiate dal processo di selezione le leggi della fisica che favoriscono la conversione della materia in molti buchi neri. Smolin sostiene che il nostro universo è con molta probabilità un prodotto finale di un tale processo evoluzionistico, e che le leggi della fisica che ci sembrano così ben adattate a permettere la nostra esistenza sono in realtà sintonizzate in modo finale alla produzione di buchi neri e di un maggior numero di universi neonati. La nostra esistenza potrebbe essere quindi la conseguenza parassitica del fatto che tali leggi permettono casualmente l’esistenza del carbonio e degli altri elementi su cui si fonda la vita come la conosciamo. »

 

Che dire, allora, del Principio antropico? È una semplice tautologia, oppure esprime un concetto fondamentale per comprendere la connessione che lega la nostra esistenza di creature intelligenti e pensanti all’universo fisico intorno a noi, così come lo conosciamo?

Forse, prima di esprimere un giudizio, anche con semplice valore di ipotesi, intorno al principio antropico, dovremmo anzitutto superare la distinzione cartesiana fra “res cogitans” e “res extensa”, fra sostanza pensante e sostanza materiale: chi ci assicura che l’uomo pensa e una stella non pensa; chi ci assicura che l’uomo prova dei sentimenti e l’animale o la pianta non ne sono capaci? Poi, in secondo luogo, dovremmo superare la distinzione lockiana fra qualità primarie e qualità secondarie delle cose, e riconoscere che la materia, seppure esiste, non è “fuori” di noi, perché in tal caso nulla potremmo saperne, ma “entro” il nostro atto di percepirla: e che tutto quanto sappiamo - o crediamo di sapere - del mondo, esiste nella nostra mente e non altrove.

Una volta oltrepassati questi due pregiudizi, dovremmo superarne un terzo: quello di una netta e radicale distinzione fra il passato e il futuro e fra il qui e il là, dunque fra il “questo” e il “quello”: il che equivale a relativizzare il principio di identità. Noi non siamo solamente “noi”, c’è dell’altro, in “noi”; e così tutte le cose: esse non sono soltanto e unicamente se stesse, ma anche tutte le altre cose: un principio comune pervade tutto ciò che esiste, un unico flusso di energia percorre e attraversa ogni cosa, ogni senso, ogni mente. Vi è come una immensa rete che si dirama in tutte le direzioni, che non si arresta davanti a niente, che annulla il tempo e lo spazio: una rete che abbraccia tutto quello che esiste, che è esistito, che esisterà; tutto quello che potrebbe esistere, tutto quello che è pensabile (da noi) e anche quello che non lo è, essendo inimmaginabile (per noi): perché noi siamo terribilmente piccoli e limitati e i nostri sforzi per capire sono simili al balbettio di un fantolino, dice Dante, che bagna ancora la lingua alla mammella di sua madre.

Il limite fondamentale del principio antropico, comunque, è proprio questo: che esso ipotizza come “debba” essere organizzato l’universo, a partire dalle condizioni della nostra vita, del nostro organismo, della nostra intelligenza: è un tentativo di imporre a Dio le nostre misure. Già Galilei aveva pensato una simile enormità, quando diceva di sapere che Dio pensa in maniera matematica; e quando sragionava che noi, in quel particolare ambito che è la matematica, possiamo conoscere le cose con lo stesso grado di verità e di certezza con cui le conosce Dio.

Sorpresa: il principio antropico, che aveva un vago sentore di teologia, si rivela, a ben guardare, una concezione peggio che atea: una concezione che divinizza l’uomo, perché pretende che l’universo, ed eventualmente la mente che lo ha concepito, debba funzionare così come funziona la mente umana. Evidentemente, chi sostiene una tale teoria non riesce a concepire che possa esistere una mente assai più perfetta della nostra, che funziona in tutt’altro modo e che, per esempio, non dispone dell’universo secondo intelligenza (la nostra), ma secondo amore (ben diverso dal nostro): un amore ineffabile, che non chiede nulla, se non che ciascuno si assuma la responsabilità piena ed intera della propria vita, nel bene come nel male…