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Spinoza: La Natura come Dio, Dio come Natura

di Mario Cutuli - 17/10/2005

Fonte: estovest.net

 

 

Nell'intero panorama della filosofia moderna la riflessione di Baruch d'Espinoza, meglio conosciuto come Spinoza, occupa sicuramente un ruolo tutt'altro che secondario caratterizzata com'è da un'indiscussa originalità, nonostante i temi trattati sembrano relegarla agli sviluppi del razionalismo cartesiano e del dibattito che l'autore del “Discorso sul metodo” lascia in eredità alla sua epoca.

Ma, fatti salvi gli indubbi legami con la filosofia cartesiana, con quella di Hobbes e le concezioni meccanicistiche sostenute già dalla rivoluzione scientifica, per trovare il vero Spinoza occorre cercare un'altra matrice in grado di giustificare la sua originalità da non pochi considerata come capace di svelare l'enigma stesso della vita e indicare la via della felicità.

La matrice, paradossalmente, -vista l'accusa di ateismo che con molta faciloneria gli venne mossa- è nella profonda ricerca religiosa, nella brama di quella felicità, di quella beatitudine che non può non consistere in Dio, l'unico Bene veramente appagante.

Non è semplice decifrare l'opera di Spinoza, come non è semplice decifrare l'uomo Spinoza della cui esistenza si sa poco tanto da sconfinare in una sorta di leggenda.

E così resta il mistero che lo rende accattivante.

Chi è veramente Spinoza? Il grande eretico e maledetto che vuole liberare il mondo dai miti religiosi? Il filosofo morale che propone una condotta di vita capace di garantire la gioiosa serenità che nasce dalla capacità di intendere perfettamente le cose? Il pensatore politico che postula la necessità di un'autorità sovrana che limiti il naturale egoismo dell'uomo senza adottare misure assolutistiche, ma che garantisca anzi, attraverso un sistema autenticamente democratico, i diritti fondamentali dell'uomo primo fra i quali la libertà di pensiero?

Chi è Spinoza? Un ateo che nega l'immortalità dell'anima e trascendenza divina dissolve Dio tra le cose o un uomo ebbro di Dio che finalmente libera la Bibbia da quella lettura superstiziosa che riduce la religione a timore superstizioso che banalizza la ricerca di Dio in culto bigotto fine a se stesso?

La risposta non è facile nemmeno dopo la lettura dei suoi testi più significativi perché, come riconosce Giorgio Colli, raramente è possibile trovare nella storia della filosofia un'identità del filosofo con la sua opera.

Per ricostruire allora il pensiero di Spinoza, coerentemente al tema proposto, occorrerà ricordare che per lui la filosofia non è una sorta di una meditatio mortis, come potrebbe forse essere per Platone, ma una meditatio vitae, perché Spinoza è il filosofo della pienezza gioiosa del vivere, della massima realizzazione del conatus essendi, come osserva il Tassinari.

La conferma la possono fornire questi due passi rispettivamente tratte dall'epistolario e dal Tractatus de intellectus emendatione dai quali traspare non solo il senso della sua travagliata vicenda umana vittima di un'assurda intolleranza religiosa, ma soprattutto la cifra di una riflessione orientata alla ricerca di quella “verità” che dà un senso alla vita, di quel filosofare e di quel vivere sub specie aeternitatis:

Il frutto che ho raccolto del mio naturale potere di conoscere… ha fatto di me un uomo felice: io sono lieto e cerco di passare la mia vita non nella tristezza e nei lamenti, ma nella tranquillità dell'anima, nella gioia… Non smetto di riconoscere … che tutto accade per la potenza dell'Essere sovranamente perfetto e per suo immutabile decreto; a questa conoscenza io debbo la mia più profonda soddisfazione e la tranquillità dell'anima… (Lett.21, 26)

Dopo che l'esperienza mi ebbe insegnato che tutto ciò che accade solitamente nella vita comune è vano e futile, e vedendo che tutte le cose per le quali temevo o che temevo, non avevano in sé niente di buono né di cattivo, se non in quanto il mio animo si faceva da esse turbare, decisi finalmente di cercare se si desse qualcosa che fosse veramente buono e capace di comunicarsi, e dal quale soltanto, rifiutate tutte le altre cose, l'animo potesse essere soddisfatto; se si desse, anzi qualche bene grazie al quale, una volta trovatolo ed acquisitolo, io potessi godere in eterno di una gioia continua e suprema.

Quel bene, quella serenità totalmente appagante, non può che essere se non l'amore di ciò che è eterno e infinito pasce l'animo di pura gioia, del tutto privo di tristezza.

Di quanta serenità egli abbia bisogno lo fa intuire la formula che nel 1556, decretando la scomunica e la conseguente espulsione dalla comunità ebraica lo costringe ad un'esistenza difficile, ma non per questo priva di quella serenità che l'incontro ed il possesso di quel Bene continua a garantirgli; una formula che nel suo stile è emblematica per comprendere l'intolleranza di un secolo che nel suo esordio aveva già registrato il dramma di Giordano Bruno e la scomunica di Galilei:

Col giudizio degli angeli e la sentenza de' santi, noi dichiariamo Baruch de Espinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l'assenso di tutta la sacra comunità, al cospetto dei sacri libri, nei quali sono scritti i seicento e trenta precetti, pronunciando contro di lui la maledizione con cui Eliseo colpì i fanciulli e tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia egli maledetto quando si corica, e maledetto quando si alza; maledetto nell'uscire e maledetto nell'entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo, né riconoscerlo; possano Tira e la collera del Signore ardere, d'ora innanzi, quest'uomo, far pesare

su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù d'Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge; e possiate tutti voi, che siete obbedienti al Signore Iddio nostro, esser salvi fin d'ora. Siete tutti ammoniti che d'ora innanzi nessuno deve, parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto: che nessuno deve prestargli servizio, ne dimorare sono lo stesso suo tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno.

Nonostante il retroterra culturale di Spinoza sia assai vasto e affondi le radici in un generico orientamento stoico e teologico -questo di stampo paolino- in alcuni temi della scolastica, nella cultura ebraica soprattutto quella di stampo safardita, nei pensatori rinascimentali Telesio e Bruno, e moderni come Bacone, Cartesio ed Hobbes, un'attenta lettura dei suoi scritti fa intendere immediatamente che per lui l'attività filosofica non si riduce alla pura sfera intellettuale, ma diventa, anzi come egli stesso precisa ragione di vita.

Pertanto se Cartesio e con lui Bacone, i padri della filosofia moderna all'interno della quale vive Spinoza ritengono che “sapere è potere” e che la felicità possa nascere dalla scienza e dal dominio sulla natura, egli è convinto che la felicità, la beatitudine, come ama chiamarla, nasca dal possesso di un Bene eterno, che essa non si risolve in un semplice ideale o un valore etico da perseguire attraverso una condotta etica equilibrata -magari ispirata ad ideale ascetico- ma che si consegua attraverso la perfetta conoscenza delle cose, dalla loro visione sub specie aeternitatis.

Ciò che ostacola l'uomo dalla beatitudine è dovuto all'ignoranza che egli ha della natura e all'errata convinzione che essa vada dominata e vinta; la perfetta conoscenza delle cose, la loro comprensione sub specie aeternitatis, per Spinoza è possibile perché per lui Dio, Natura e quindi Uomo sono un'unica realtà, tre aspetti dell'unica sostanza.

Ma per capire tutto ciò occorre una vera purificazione dell'intelletto, come egli stesso sostiene in quello scritto che non a caso viene considerato un sorta di “discorso sul metodo”, il Tractatus de intellectus emendatione, un vero percorso che conduce alla beatitudine, alla felicità dell'uomo.

Nella nostra analisi terremo conto soprattutto di scritti quali Tractatus de intellectus emendatione, da non confondere con il Tractatus teologico-politicus, il Breve trattato su Dio, l'uomo e la sua beatitudine e soprattutto l'Ethica che costituisce il vero capolavoro dell'intera riflessione rispetto al quale gli scritti precedenti hanno un carattere propedeutico.

 

Tractatus de intellectus emendatione

La filologia ha ormai appurato che è il De emendatione primo scritto spinoziano e non il Breve trattato scoperto nel XIX secolo.

Esso risente ancora dell'influsso degli scritti baconiani e cartesiani nel senso che si muove nell'ottica della indispensabilità di un metodo di ricerca, problema che come sappiamo costituisce il versante che separa la filosofia moderna da quella precedente, ma il metodo che Spinoza ricerca non deve condurre, all'imperium hominis, ma alla possibilità di trascorrere la vita non nella tristezza e nel lamento, bensì nella serenità, in letizia ed in allegrezza; la ricerca filosofica è qui concepita come processo di liberazione dalle gioie illusorie verso una pace gioiosa di un Bene assoluto.

Rispetto a quanto dirà nel Breve Trattato e nell'Ethica, dove leggiamo che il conseguimento della beatitudine non abbisogna di un metodo perché la verità e con essa la beatitudine si mostra spontaneamente, nel De emendatione Spinoza è convinto dell'indispensabilità di un percorso che conduca all'”ente perfettissimo” che è poi la beatitudine.

Nella prima parte dell'opera Spinoza si propone di smascherare la vanità di tutte le cose, di andar oltre a concetti convenzionali di “bene” e di “male” con i quali l'ignoranza sulla natura valuta le cose e le vicende umane e successivamente vengono presentati quattro gradi della conoscenza perché attraverso il sapere è possibile cogliere l'illusorietà del finito dinnanzi all'assoluta validità di Dio.

Emendare l'intelletto non significa rinunciare aprioristicamente a tutti quei beni che la natura dell'uomo considera indispensabili per la sopravvivenza; significa piuttosto dare alle cose il giusto valore che hanno; piaceri, ricchezze, onori, se cercati esclusivamente come “fini” e non come “mezzi”, allontanano dal vero Bene.

Si prenda ad esempio il piacere dei sensi: una volta soddisfatto si trasforma in una grande tristezza, a tal punto che la mente, se pur non ne è presa anch'essa, resta turbata e inebetita; si consideri l'ossessiva ricerca degli onori: essa comporta da parte nostra il dover costantemente modificare la condotta per piacere agli altri…

Siamo lontani da quell'ideale ascetico e mistico che si risolve nel progressivo tentativo di annullare quanto sa di materialità per proiettarsi in un'estatica contemplazione.

Privarsi della gioia che anche le cose ci danno per Spinoza è frutto di superstizione.

Soltanto una torva e triste superstizione vieta la gioia. Infatti perché dovrebbe convenire di più togliere la fame e la sete che scacciare la melanconia? Questa è la mia regola, questa la mia convinzione. Nessun dio, né altri, se non un invidioso, può godere della mia debolezza e del mio soffrire, né considerare virtù le mie lacrime, i miei singhiozzi, il mio terrore, e le altre cose di questo genere, che sono segni di un animo impotente; ma al contrario quanto maggiore è la gioia, tanto maggiore è la perfezione cui ci eleviamo, ossia tanto più partecipiamo della natura divina. Il sapiente si servirà perciò delle cose e, per quanto è possibile, ne godrà (non fino alla nausea, perché ciò non è più godere). Egli si ristorerà con cibi e bevande moderati e soavi, si ricreerà con i profumi, con la bellezza delle piante verdeggianti, con gli ornamenti, la musica, gli esercizi fisici, i teatri e cose simili, delle quali ciascuno può godere senza alcun danno degli altri.

Emendare l'intelletto significa perfezionare la conoscenza di Dio senza il quale nessuna cosa può essere né venire concepita; quanto più si procede nella conoscenza delle cose, tanto più si procede nella conoscenza di Dio e quanto più l'uomo procede nella conoscenza di Dio, tanto più ama Dio e si dà delle regole provvisorie di morale che ricordano quelle proposte da Cartesio, ma rivelano una chiara ascendenza stoica, senza nascondere un riferimento all'edonismo epicureo correttamente inteso, prevedono:

- di parlare in modo da fasi comprendere a tutti, cioè di esporre le proprie opinioni in modo paradossale, per non urtare l'altrui suscettibilità;

- di fare uso di ciò che dà piacere, per quel tanto che giova alla salute;

- di moderarsi nell'uso del denaro, senza divenirne schiavi.

Commenta, perciò, il già citato Tassinari: “Severo come uno stoico antico nel volere l'autonomia dalle passioni ed una vita secondo ragione, Spinoza non è lontano da Epicuro, anche se di lui assai più raffinato, nel ritenere che il piacere è sempre qualcosa di positivo, in quanto accresce la potenza attiva della mente e del corpo, e, al contrario, il dolore sempre qualcosa di negativo, in quanto da esso quella potenza viene soppressa”.

Il problema morale, la saggia condotta etica non può essere separato da problema della conoscenza.

E' per questo motivo che vengono presentati i gradi conoscitivi che nella loro scansione ricordano quelli platonici, compresa la superiorità dell'intelletto sulla ragione perché solo l'intelletto è capace di intus legere, di cogliere dall'interno con la differenza che l'itinerario gnoseologico platonico conduce alla perfetta conoscenza delle cose nella loro essenza ideale che sta oltre l'ambito fenomenico e quello spinoziano si ferma nella stessa natura permettendo di intuire quella mens in omnibus insita di bruniana memoria che anima le cose della stessa vita di Dio.

I gradi di conoscenza

Il primo livello di conoscenza avviene ex auditu, la percezione che abbiamo per sentito dire o per mezzo di qualche segno, comunque lo si voglia chiamare.

Ad essa segue quella che si ha per esperienza vaga frutto dell'osservazione non sistematica, non controllata dalla ragione, e perciò anch'essa inadeguata e tutt'altro che definitiva.

E' questa la conoscenza legata al senso, all'immagine delle cose, all'eicasia, direbbe Platone, assolutamente volubile e frammentaria, non falsa, ma assolutamente inadeguata perché approssimativa, legata all'hic et nunc, soggetta al divenire.

Il terzo livello è dato dal ricorso alla ragione, alla capacità di connettere le cose in un sistema ordinato perché esito della connessione perfetta che intercorre tra le cose.

E' una conoscenza ordinata quale quella scientifica che Spinoza definisce sub quadam specie aeternitatis, ma ancora incapace di cogliere le cose per quello che effettivamente esse sono, cioè come manifestazione stessa della potenza e dell'essenza di Dio, come molteplici forme dell'unica forma che è Dio e perciò conoscenza sub specie aetenitatis.

Di essa è capace soltanto l'intelletto che non conosce alcuna mediazione, perché coglie direttamente la verità che per sensi è appannata e che per la ragione immensa per poterla concettualizzare.

E' questa conoscenza che permette all'uomo di guarire e purificare l'intelletto… in modo che esso abbia una conoscenza adeguata delle cose (….) di dirigere tutte le scienze verso un sol fine, che è quello di pervenire alla suprema perfezione umana che è “conoscenza dell'unione dell'anima pensante con la natura intera”, che concede il conseguimento di quel Bene l'unico utile per l'uomo perché unico a rendere felice che non si risolve nello snaturare le cose dando ad esse un valore diverso da quello che effettivamente esse hanno, perché con l'uomo realizzano un ordine assolutamente perfetto.

Il Breve Trattato su Dio, l'uomo e la sua beatitudine

Nel Breve Trattato diventa centrale il concetto di Dio tanto da essere assunto come l'incipit stesso della filosofia da cui dedurre con rigore razionale, anzi geometrico, dalla causa prima tutti gli altrettanto necessari effetti.

Il testo, scritto sotto forma di appunti, può essere considerato, anche se in modo disorganico, un'anticipazione dei temi che saranno poi affrontati nell'Ethica.

In esso la filosofia, concepita secondo una terminologia mistica che ovviamente Spinoza conosce, come “itinerarium mentis in Deum”, diventa ricerca di Dio, unica sostanza, infinita, eterna, causa necessitante di tutte le cose rispetto alla quale però niente è contingente, ma necessario perché le cose particolari non sono altro se non affezioni degli attributi di Dio, modi attraverso i quali gli attributi di Dio sono espressi in maniera certa e determinata.

Quella verità cercata nel De emendatione attraverso la purificazione dell'intelletto, adesso si svela da sola: occorre solo comprenderla nella sua trasparenza, condividerla secondo il principio, che è poi norma di vita, nec ridere, nec lugere, neque detestari sed intelligere.

E' forse riduttiva la ricostruzione manualistica che lega l'impianto della filosofia spinoziana alla soluzione del dualismo cartesiano tra “res cogitans” e “res extensa”, ma il riferimento al problema lasciato aperto da Cartesio è un'istanza storica dalla quale Spinoza non può sottrarsi e si presta bene per una veloce ricostruzione del suo pensiero, ma ha il grande limite di oscurare il primo convincimento spinoziano, quello appunto di Dio che in quanto unica sostanza possibile è condizione di tutto e può garantire ciò a cui l'uomo aspira.

Il Breve Trattato è la premessa immediata all'Ethica, l'opera sicuramente più nota.

L'impianto dell'opera ha una struttura neoplatonica che muove da Dio alle cose per ritornare quindi a Dio e uno stile espositivo perfettamente geometrico ricalcato sul modello euclideo.

Si parte infatti dall'essenza e dall'esistenza di Dio nel primo libro, allo studio dell'uomo in quanto soggetto di conoscenza nel secondo e delle passioni nel terzo, per giungere quindi a Dio.

A differenza di quanto sostiene Cartesio che aveva chiamato sostanza anche il pensiero e l'estensione, Spinoza ritiene che soltanto Dio è unica sostanza se per sostanza si intende id quod in se est et per se concipitur, se sostanza è quella realtà cuius conceptus non indiget conceptu alterius rei, a quo formari debeat.

Dio soltanto è res a se, causa sui, non in senso effettuale in quanto realtà che produca se stessa; “causa” sta qui per principio esplicativo o ragione giustificativa, come in geometria un assioma è “causa” in quanto non ha bisogno di essere dimostrato; in quanto “causa sui” l'unica sostanza, che non presuppone nulla e di tutto è il presupposto, è increata e quindi eterna, infinita rispetto alla quale tutte le forme esistenti non sono che sue necessarie manifestazioni.

Come lo spazio è la condizione stessa delle figure geometriche, Dio è la condizione di tutto, fondamento di ogni realtà finita.

Viene così riproposta la cusaniana distinzione, già usata da Scoto Eriugena, filosofo della scolastica e poi fatta propria anche da Bruno- della natura naturans e natura naturata; la natura naturante è Dio, la causa attraverso la quale l'universo esiste ed conservato, la natura naturata l'insieme degli effetti che quella scaturiscono.

Come natura naturante Dio è immanente nelle cose perché tutt'uno con esse.

Per natura naturante si deve intendere ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia quegli attributi della sostanza che esprimono un'essenza eterna ed infinita, cioè Dio in quanto considerato come causa libera: Per natura naturata intendo invece tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio, ossia da quella di ciascuno degli attributi di Dio, in quanto vengono considerati come cose e sono in Dio, senza del quale non possono essere concepite. (Ethica)

Soltanto in Dio essenza, esistenza, e attività che fonda gli esseri si identificano; oltre Dio nulla ha in sé i fondamenti del proprio essere.

Non esistono pertanto sostanze finite, ma tutto è attributo dell'unica sostanza: e se l'unica sostanza è infinita si realizza in espressioni infinite in attributi, nel linguaggio spinoziano ognuno dei quali è ovviamente infinito, ma essendo il singolo attributo quello e non altro e quindi poiché esclude gli altri -omnis determinatio est negatio- non è assolutamente infinito, ma infinito in quanto.

Per attributo intendo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza come costitutivo della sua essenza.

Ogni attributo esprime realmente l'unica sostanza attraverso i quali essa si definisce e si limita nei semplici modi; la sostanza che è continua causazione in quanto natura naturans, si manifesta in infiniti attributi attraverso i quali poi si determina nei singoli modi, la natura naturata.

Intendo per modo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, mediante cui è concepito.

La conseguenza più evidente è che i modi non sussistono autonomamente ma in altro perché non sono sostanza, ma nella sostanza; ecco giustificato non tanto il panteismo per il quale tutte le cose sono Dio, ma il panenteismo, per il quale tutte le cose sono in Dio e rappresentano nella loro totalità l'unità dell'Essere, anche se noi erroneamente li isoliamo considerandoli a se stanti. La sostanza è totalità; è infinita in quanto pienezza d'essere.

Dio, sostanza, natura: ecco la giustificazione del monismo e dell'immanentismo che diventano così la caratteristica del sistema spinoziano.

Dio e mondo

Se dunque il rapporto tra natura naturans e natura naturata, cioè tra Dio e mondo può essere paragonato, secondo un esempio proposto dallo stesso Spinoza, a quello tra il triangolo e le sue proprietà, tra la luce bianca ed i colori dell'arcobaleno, rispetto alle concezioni ontologicamente dualistiche la relazione Dio-mondo risulta inevitabilmente rivisitato.

Spinoza rifiuta infatti i modelli tradizionali che hanno parlato di creazione o di emanazione.

L'atto creativo di Dio supporrebbe in Dio un intelletto, una volontà, la possibilità di una scelta da cui discenderebbero il “Fiat” originario, ma in Dio libertà e necessità coincidono e il mondo quindi non nasce da un atto di creazione, ma è eterno come è eterno Dio perché il mondo è Dio e Dio è il mondo e tra i due momenti non c'è passaggio dalla causa all'effetto.

Il nostro modo di osservare le cose legato un modo ad un altro secondo un rapporto tra causa ed effetto è un errato; se osservassimo la Natura nella sua totalità, se legassimo le cose al loro continuo processo troveremmo che questo processo è Dio stesso come causa immanente alle cose.

Viene altresì rifiutato il modello emanazionistico che spiega il rapporto tra l'Uno e molti, tra Dio e le cose secondo un processo necessario, ma soprattutto degradante che spiega il passaggio tra L'Uno ed i molti secondo momenti discensivi che spiegherebbero l'Uno nei molti e i molti nell'uno del quale sono espressioni.

Escludere tanto la creazione quanto l'emanazione significa allora ammettere l'esistenza di un universo necessario che nega ogni contingenza.

Le cose non hanno potuto esser prodotte da Dio in nessun'altra maniera e in nessun altro ordine da quelli in cui sono state prodotte.

Dobbiamo allora ammettere una doppia necessità: da un lato sostenere che ogni singola cosa, ogni singolo modo si accorda con tutti gli altri modi secondo un ordine e una legge immutabile che è la stessa legge di Dio e contemporaneamente che tutte le cose, prese nella loro unità, nella loro connessione, sono così come sono; tutto ciò che accade o è accaduto doveva necessariamente accadere, tutto ciò che accadrà dovrà necessariamente accadere.

 

Il problema della libertà

Se natura e Dio coincidono, se Dio, a differenza di quanto poi sosterrà Leibniz secondo sceglie il migliore dei mondi possibili, se viene meno la differenza tra accidentale e sostanziale, se Dio non è libero di creare, perché Dio non può creare dal momento che volontà e necessità in lui coincidono quale spazio c'è per la libertà non solo in Dio, ma anche nell'uomo, che essendo come tutte le cose uno dei modi infinti di Dio stesso non può che essere quello che è? Che ne è del libero arbitrio divino ed umano?

La spiegazione di Spinoza è coerente al determinismo che spiega tutte le cose nel senso che pur negando la libertà ed il libero arbitrio tanto in Dio quanto nell'uomo, ma è allo stesso tempo originale perché, forte delle suggestioni stoiche, ridefinisce il concetto di stesso di libertà ponendo a proposito una distinzione tra Dio e uomo.

Egli infatti, relativamente a Dio, parla di una libera necessitas nel senso che Dio in quanto Assoluto non dipende da altro ed è libero da ogni legame con l'altro, a differenza dei singoli modi che pur sono espressione di Dio ma sono di fatto legati ad altri modi con i quali costituiscono un tutto inscindibile.

La libera necessitas di Dio, l'unica libertà possibile ridisegna una nuova concezione di Dio, antitetica a quella proposta dalla Bibbia.

 

Una diversa concezione di Dio

E' un Dio che va oltre ogni forma di antropomorfismo, che non è persona, che non è fatto oggetto di preghiera, che non crea, ma che è solo potenza ma non è onnipotente nel senso che possa creare o non creare qualcosa di nuovo e diverso rispetto a ciò che effettivamente produce, che non provvede perché è lui l'unica realtà; che non premia e non punisce perché non esistono né buoni da premiare, né malvagi da punire, non solo perché il comportamento degli uomini è necessitato, ma perché i concetti di buono e cattivo non identificano più dei valori; che ama se stesso ma che in quanto ama se stesso, ama gli uomini perché l'amore di Dio verso gli uomini e l'amore intellettuale della mente verso Dio sono una sola e medesima cosa.

Il Dio spinozano, insomma deve essere inteso come la legalità della natura di cui parla la rivoluzione scientifica. L'essenza della materia è la stessa essenza di Dio; le leggi dell'universo derivano dalla natura divina e non avrebbero potuto essere diverse da quelle che sono. Con Spinoza la materia diventa infinita e le leggi chela governano non possono essere medicate con il miracolosa Dio.

Leggere Dio come propone, anzi impone la Bibbia è frutto di superstizione proprio di uomini che si vennero forgiando Dio ad immagine dell'uomo, ora adirato, ora misericordioso, ora proteso nell'attesa del futuro, ora preso dalla collera e dal sospetto, e ora persino preso in trappola dal demonio. Pensare a un Dio giudice serve solo ad alimentare la superstizione di cui si alimenta ogni forma di religione istituzionalizzata e positiva, come superstizioso è credere nell'esistenza dei miracoli che prevedrebbero lo smantellamento di quell'ordine immodificabile delle cose garantito dalle stesse leggi di Dio ed ammettere un aldilà.

Convincersi di ciò è condizione di quella serenità che non guarda a Dio come ad un giudice severo o ad un padre comunque lontano dall'uomo e dalle cose.

A differenza dell'Uno di Plotino, del Dio della mistica e della teologia negativa, il Dio di Spinoza è nel mondo, è il mondo.

Se Dio non è persona non può rivelarsi nella Bibbia le cui dottrine hanno solo un valore morale e che, scritta da uomini che si rivolgono a masse non sempre culturalizzate adotta un linguaggio spesso immaginoso e mitologico che non va assolutamente preso alla lettera.

Col tramonto di Dio creatore e provvidente, scompare pure ogni concezione finalistica che Spinoza etichetta come un pregiudizio proprio della mente umana disposta a credere che tutto ciò che avviene debba inquadrarsi in un progetto provvidenziale e s'illude che l'agire dell'uomo sia sempre da mettere in relazione ad un fine o ad un vantaggio da conseguire per il quale Dio gli ha fornito gli strumenti più idonei; se poi l'esito è negativo dipenderebbe dalle colpe di cui l'uomo si macchia nei confronti di Dio stesso. Ammettere una concezione finalistica, comporta mettere in discussione la perfezione divina; ammettere un finalismo di tutto ciò che accade è frutto d'ignoranza.

Facendo sua la tesi di Galilei, Spinoza è convinto che nella lettura della Bibbia occorra andare al di là del semplice significato letterale.

La conseguenza è che la vera religione non si fonda su nessun testo rivelato, ma soltanto sulla ragione; la Scrittura non si propone di insegnare la verità.

Sa bene Spinoza che una simile lettura della Bibbia scandalizza molti, ma ammonisce:

Io sono certo che, se essi vorranno considerare seriamente la cosa, smetteranno subito di protestare: Infatti sia la stessa ragione sia l'insegnamento dei profeti e degli apostoli testimoniano apertamente che la parola eterna di Dio, il suo patto e la vera religione sono scritti a carattere divini nel cuore degli uomini, ossia nella mente umana, e che in essi consiste la carta di Dio, alla quale si oppose il suo sigillo, e cioè l'idea di sé, come immagine della divinità. (dal Trattato teologico-politico)

Ecco perché condanna la superstizione religiosa, figlia dei fantasmi dell'immaginazione degli uomini dominati dalle passioni, ma anche alimentata da teologi e autorità ecclesiastiche.

Da qui la critica alla religione cosiddetta “positiva” che si risolve nel culto, nell'esteriorità, nel bigottismo mentre si continua a vivere dominati e vittime delle passioni.

Agli antichi Ebrei la religione fu tramandata sotto forma di legge scritta, perché a quell'epoca essi erano come uno stato infantile. Ma poi Mosè e Geremia annunziarono loro un'epoca futura nella quale Dio scriverà la sua legge nell'intimo dei cuori. (Trattato teologicopolitico)

Da questa tesi discende la convinzione che il vero modo di vivere, consiste non nelle cerimonie, ma nella carità e nella retta intenzione.

Religione e filosofia

Da qui la distinzione tra religione e filosofia: la prima ha per oggetto l'ubbidienza e persegue lo scopo di far aderire alla fede e all'obbedienza dei precetti di giustizia e di carità, la seconda di scoprire con la ragione la verità che l'enunciazione di dogmi e di verità propri di ogni chiesa non riesce a dimostrare. Filosofia e rivelazione non hanno niente in comune e non potrà mai accadere che i risultati della ricerca filosofica siano dannosi per la religione, per cui chi ha a cuore il messaggio della scrittura non può, non deve proibire la libertà di pensiero; l'intolleranza religiosa imposta dallo Stato, è illegittima perché non ha senso.

La fede non richiede "dogmi veri" e pertanto creazione, provvidenza, trinità incarnazione non sono verità, ma “dogmi pii", tali da indurre all'obbedienza con la conseguenza che tutte le sette religiose sono ammesse.

Da qui, soprattutto, la condanna di ogni forma di fanatismo e d'intolleranza religiosa; tutte le religioni di fatto si equivalgono e per scoprire Dio non occorre conoscere le opere dei dottori della chiesa, di una chiesa, ma basta credere in uno sparuto numerosi precetti; la vera religione, non si risolve, come precisato da Bruno, in una sorta di santa asineria, non in un sistema codificato di dogmi, ma nella religione naturale praticabile sulla base della pura ragione e fondata esclusivamente su alcune verità razionali comuni a tutte le religioni e cioè:

a) l'esistenza, l'unicità, l'onnipresenza di Dio;

b) il riconoscimento a Dio del diritto al dominio su tutto e contemporaneamente la consapevolezza che egli non agisce perché condizionato da una legge, ma secondo il suo assoluto beneplacito;

c) la necessità di obbedire a Dio e soltanto a Dio, ma nella serenità di sapere che l'obbedienza si risolve nella giustizia e nella carità;

d) l'ammissione di una salvezza o di una perdizione eterna perché l'uomo possa vivere ubbidendo a Dio piuttosto che alle sue passioni;

e) la certezza del perdono di Dio quando ci si pente con il cuore.

Ma elencati questi precetti, peraltro desunti dalla ragione e dall'esperienza, Spinoza precisa:

Nessuno potrà disconoscere la primaria necessità della loro conoscenza, se si vuole che tutti gli uomini, senza eccezioni, possano obbedire a Dio, secondo la prescrizione della legge che sopra abbiamo illustrato. Per il resto, che cosa sia Dio, ovvero quel modello di vita autentica che abbiam detto, cioè se egli sia fuoco, spirito, luce, pensiero, ecc; tutto ciò non ha importanza ai fini della fede, come non ha importanza sapere in che modo egli sia modello di vita autentica. Se egli lo sia in quanto possiede un animo giusto e miseri­cordioso, o in quanto tutte le cose esistono e operano attraverso di lui e di conseguenza anche noi comprendiamo attraverso di lui e riusciamo così a cogliere la vera equità e la vera bontà. Tutte le opinioni che a ciascuno è dato formarsi a questo riguardo si equivalgono. Né ha importanza ai fini della fede il credere che Dio sia onnipresente secondo l'essenza o secondo la potenza; che egli governi le cose del mondo secondo libertà o secondo necessità di natura; che prescriva le leggi come un sovrano o le comunichi col suo insegnamento come eterne verità; che l'uomo obbedisca a Dio secondo il suo libero arbitrio o secondo la necessità che il decreto divino comporta; che infine il premio per i buoni e la pena per i malvagi sia d'ordine naturale o soprannaturale.

 

L'uomo

In questo contesto s'inscrive l'uomo.

Quando Spinoza ne parla, lo fa in toni quasi sommessi, con un taglio molto personale, quasi a comunicare agli altri la sua personale esperienza, come non avesse nulla da insegnare agli altri.

La riflessione sull'uomo non può non fondarsi sulla tesi del Deus sive Natura e ciò consente di risolvere la scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa.

L'uomo non è una sostanza perché in questo caso dovrebbe trovare in se stesso la ragione del proprio essere e soprattutto esistere necessariamente, ma così non è.

L'uomo è uno dei modi dell'unica sostanza divina, sinolo di due modi della sostanza anima e corpo; la sua realtà è una nei due aspetti di pensiero ed estensione il corpo è l'aspetto esteriore, l'anima-pensiero l'aspetto interiore di un'unica realtà.

Come l'essenza del mondo visibile è Dio, così l'anima è l'essenza dell'uomo è l'anima di cui il corpo è la fenomenizzazione; per questo nell'Ethica l'uomo è definito mens.

Non c'è più posto per il dualismo cartesiano e non soltanto per il dualismo antropologico, ma anche di quello gnoseologico che nella concezione cartesiana contrapponeva l'oggetto dal soggetto, convinto che pensiero ed estensione non abbiano niente in comune.

Per Spinoza il corpo non agisce sulla mente o viceversa, ma sono soltanto corpi ad agire sui corpi e enti ad agire sua altre menti dal momento che la mente umana non conosce il corpo umano né sa che esiste se non mediante le cose delle affezioni da cui il corpo è affetto; e che la mente umana non conosce se stessa , se non in quanto percepisce le idee delle affezioni del corpo. (Ethica)

Se pensiamo al contrario è perché vediamo che gli eventi sono reciprocamente incatenati.

Mente e corpo sono in rapporto di parallelismo; se pensiero ed estensione non sono altro che attributi dell'unica sostanza, l'anima è l'idea, il corpo è l'ideatum, in perfetta coerenza con il principio ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum.

Nel determinismo generale dell'universo spinoziano, l'uomo s'illude di poter disporre di se stesso perché dotato di libero arbitrio; un'illusione che nasce dal pregiudizio di ritenersi consapevole dei suoi desideri, quando in realtà ignora le cause che lo induce a desiderare; un pregiudizio innato da cui è difficile liberarsi.

Tale è la libertà che tutti gli uomini si vantano di avere e che consiste solo nell'essere essi coscienti dei loro desideri e ignoranti delle cause che li determinano. E' così che un bambino crede di desiderare liberamente il latte, ed un fanciullo di volere vendicarsi se è adirato, e invece di voler fuggire, se pauroso: Un ubriaco crede di dire liberamente ciò che successivamente avrebbe voluto tacere. Allo stesso modo,un demente, un chiacchierone, e tanti altri individui di questo genere, credono di agire per una libera decisione della loro mente, e non perché trascinati da un impulso. (Epistolario VIII)

Eppure, se il determinismo generale non permette il libero arbitrio, non è detto che non si possa parlare anche per l'uomo di libertà. Spinoza lo fa quando nella prefazione dell'Ethica definisce il concetto di schiavitù.

La schiavitù alla quale egli si riferisce è quella relativa alle passioni.

Coerente che tutto nel mondo è perfetto e ogni cosa avviene per un'intima, immodificabile necessità, viene radicalmente esclusa ogni trattazione moralistica delle passioni, solitamente intese come vizi capitali che occorre estirpare.

Il disprezzo delle passioni è tipico dei moralisti, che come “fustigatori dei costumi” rinunciano a comprendere la natura umana, ritengono che le passioni siano vizi verso i quali gli uomini scivolano per propria colpa e trovano strano poterne trattare, come fa Spinoza, in modo geometrico come se si trattasse di linee, di superfici e di volumi.

Leggere le passioni in modo geometrico, comporta ricordare che in natura nulla accade che possa essere attribuito ad un suo vizio, che tutto è rigorosamente determinato da leggi e regole universali, che tutte le cose hanno una natura positiva perché sono espressione di Dio.

Le passioni dell'uomo sono perciò affezioni o affetti proprie della sua natura, anzi della Natura e come tali, come forze naturali sono irrefrenabili.

Per affetto Spinoza intende ogni modificazione del nostro corpo accompagnata da un'idea: se questa idea è adeguata, allora l'affetto si chiama azione, se è inadeguata si chiama passione.

Più propriamente gli affetti si dividono in passione e azioni; le passioni sono gli affetti che l'uomo subisce e delle quali non ha idea adeguata, azione è la modificazione di cui si è coscienti quando si è perfettamente consapevoli di quanto accade nel nostro corpo; l'azione dipende dal soggetto, la passione no.

Sulla base di questa distinzione alcuni affetti sono naturalmente buoni come ad esempio la letizia, altri cattivi come la tristezza, l'odio, la malinconia, a seconda che favoriscono o limitano l'autoconservazione, altri risultano sono buoni o cattivi a seconda della loro misura come l'amore e il desiderio.

In questo contesto la vita morale non è l'atarassia, la distruzione della vita emotiva, ma la predominanza degli affetti sulle passioni

Spiegazione delle passioni

Procedendo dunque in modo geometrico dagli affetti primari come l'autoconservazione, la Letizia e la Tristezza e dalle tesi secondo le quali

a) ogni cosa si sforza di perseverare nel suo essere

b) il bene coincide con l'utile

c) il male è ciò che impedisce di impadronirsi del bene

d) virtù e potenza si identificano

è possibile ricostruire la genesi delle passioni.

Esse appartengono alla natura tanto quanto la ragione e sono dovute all'istinto proprio di ognuno di autoconservarsi, che corrisponde al di conatus o sforzo: se esso si riferisce alla mente esso si chiama volontà, se concerne la mente e al corpo, si chiama appetito o cupiditas.

Tale sforzo non dipende dall'uomo, ma dalla sua stessa natura e lo costringe ad agire in conformità ad essa senza lasciare spazio alla volontà. Da questo istinto originario derivano geometricamente le altre passioni.

Naturalmente l'uomo cerca la felicità perché essa dà letizia ed evita il dolore perché da esso deriva la tristezza e dalla conseguita o meno felicità derivano i concetti di “Bene” e di “Male”, a seconda che ciò che conseguiamo lo riteniamo utile o no alla nostra autoconservazione.

“Bene” o “Male, “Bello” o “Brutto”; “Ordine” e “Disordine” si riferiscono a ciò che favorisce o limita l'autoconservazione; così “Male” è ciò di cui non ha un'idea adeguata; “Bello” ciò che produce nei sensi piacere, “Brutto” ciò che si ritiene “Sgradevole”, “Ordine” ciò che corrisponde all'immagine che ognuno ha del mondo, “Disordine” il contrario.

La concezione delle passioni comporta allora quella gnoseologica già anticipata nel De emendatione e nell'Ethica rivisitata.

I ravvisati quattro livelli adesso si riducono a tre.

La passione corrisponde al primo livello conoscitivo, quello dell'imaginatio, una conoscenza assolutamente inadeguata delle cose, come al secondo livello conoscitivo, quello della ratio, corrisponde l'atteggiamento l'apatia, un concetto storico che sta ad indicare il pieno controllo razionale delle affezioni umane; dovrebbe essere l'uomo a regolarle non esse a regolare l'uomo.

Se così non è l'uomo è schiavo perché agisce spinto da idee oscure e confuse.

Egli infatti non è solo passione, ma anche ragione, in forza della quale opera secondo idee chiare e distinte.

La libertà dalle passioni coincide con la perfetta conoscenza con la consapevolezza che l'uomo ha del suo agire; l'uomo è libero quando è attivo e non subisce o, che è lo stesso, quando vive secondo virtù, atteso che virtù è agire secondo le leggi della propria natura, ossia tecnica del buon vivere.

Uomo virtuoso è colui che sa discernere attentamente ciò che gli è più conveniente per il miglior vivere possibile, -intendo per buono ciò che sotto la guida della ragione sappiamo con certezza esserci utile; per cattivo ciò che sappiamo con certezza ci impedisce di possedere il bene-(Ethica) che consiste proprio nell'Amore verso Dio… quanto più la mente gode di quest'Amore divino, ossia della beatitudine, tanto più essa conosce, cioè tanto maggiore è la potenza che ha sugli effetti, e tanto meno essa patisce dagli affetti che sono cattivi. (Ethica)

Se nella religione e nella morale la virtù guarda alla trascendenza, nel determinismo spinoziano essa si identifica nella potenza del corpo e della mente e si carica di quel concetto di virtù come calcolo, come abilità come sottolinea l'etimo latino già impiegato dal pensiero rinascimentale e specificatamente dalla riflessione politica di Machiavelli.

Vivere secondo virtù, comporta, comporta allora vivere secondo una sorta di vangelo naturalistico che consiglia ad esempio di non rispondere all'odio con l'odio, ma con l'amore, perché l'odio si può vincere con l'amore.

L'uomo è essere razionale e come tale realizza la propria natura vivendo da essere razionale; vive da essere razionale

quando finalizza la conoscenza alla perfetta comprensione delle cose;

quando si rende libero dal dominio delle passioni, non perché se ne possa sottrarre perché esse sono necessarie ed ineludibili, ma perché se ne rende consapevole;

quando si rende conto di essere una parte della natura e di non poter far nulla per sottrarsi al conatus di autoconservarsi;

quando nella natura intuisce l'immanenza di Dio stesso, l'Uno-Tutto;

quando con un atto intellettivo consegue il terzo livello conoscitivo che gli consente divedere la realtà sub specie aetenitatis, parallelo all'amore intellettuale di Dio, il vertice stesso della vita morale, la somma delle virtù e della felicità, la beatitudine che pasce l'animo di pura gioia

In questa beatitudine che consiste proprio nell'Amore verso Dio…-quanto più la mente gode di quest'Amore divino, ossia della beatitudine, tanto più essa conosce, cioè tanto maggiore è la potenza che ha sugli effetti, e tanto meno essa patisce dagli affetti che sono cattivi- (Ethica) l'uomo celebra la sua libertà che consiste appunto nel conoscere, nell'accettare la necessità di riconoscere che tutto ciò che accade deve accadere secondo un ordine stesso di Dio secondo quel principio che possiamo considerare la colonna sonora di tutta la riflessione spinoziana: Nec ridere, nec lugere neque detestari sed intelligere.

Uno stile di vita che potrebbe anche essere il nostro se riteniamo che in esso forse consiste l'essere sapiente.

Il sapiente, conclude Spinoza nell'Ethica, difficilmente è turbato nel suo animo, ma essendo consapevole di sé e di Dio e delle cose per una certa eterna necessità, non cessa mai di essere, ma possiede sempre la vera soddisfazione dell'animo.