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La guerra economica degli USA

di Giulio Zotta - 18/08/2014

Fonte: Stato e Potenza

Messi in difficoltà dall’avanzata di un mondo multipolare e dall’affermarsi di nuove potenze politiche ed economiche, gli Stati Uniti dell’era Obama stanno cercando in ogni modo di preservare la loro supremazia con una strategia volta a contenere i Paesi emergenti.

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Con il suo recente discorso a West Point, nel segno della più sfolgorante retorica americana, Obama ha fatto sapere che gli Stati Uniti possono mantenere il loro ruolo guida sul mondo senza dover ricorrere a guerre su larga scala, ma affidandosi ai famosi attacchi “chirurgici” operati dai droni, operazioni di intelligence ed altri espedienti che, in poche parole, non dovrebbero sottostare al clamore mediatico di una guerra “pesante” come in Iraq o in Afghanistan: una guerra “light” costante e combattuta su più fronti ma lontana da eventuali telecamere. Ovviamente la realtà è ben diversa come dimostra l’attacco alla Libia del 2011, lungi dall’essere un’operazione chirurgica, mentre gli Usa continuano a essere impegnati in Afghanistan da ormai 13 anni e tra agosto e settembre dello scorso anno si era fatta concreta l’ipotesi di un attacco alla Siria.

Il mondo ormai conosce bene le “imprese” militari americane, la loro politica guerrafondaia e la sterminata rete di basi disseminata sul pianeta. Meno conosciuta, ma forse la vera novità della “dottrina” Obama, è la guerra economica e finanziaria che si affianca a quella condotta dalle truppe americane nel mondo. Gli Stati Uniti stanno perdendo il loro primato economico e nel giro di qualche anno saranno superati dalla Cina come prima potenza mondiale. Le iniziative portate avanti dal gruppo BRICS promettono di erodere grandemente il dominio che gli Usa esercitano sul mondo tramite le loro multinazionali e organismi come il FMI e il WTO; molti Paesi stanno accettando l’idea di sostituire al dollaro altre valute di riferimento negli scambi internazionali.

Nei fatti, l’impalcatura economica e finanziaria mondiale rappresentata dai sopracitati organismi è in simbiosi con la politica americana: gli USA hanno bisogno di difendere lo status quo per difendere se stessi. Per questo è evidente che gli Stati Uniti stanno imponendo sanzioni, pressioni economiche, speculazioni per contenere ed attaccare le economie emergenti, cosa che hanno sempre fatto ma che adesso può assumere dimensioni più grandi che in passato. Infatti l’aspetto più curioso e preoccupante di questa politica è che mentre le amministrazioni Clinton e Bush avevano imposto sanzioni ed embarghi ai tradizionali “Stati canaglia” (la Jugoslavia, l’Iraq, l’Iran, la Corea del Nord), Obama sembra intenzionato a riproporre questo stesso schema a potenze di primo piano come la Russia, senza dimenticare ovviamente la pressione sugli Stati canaglia. La crisi ucraina, organizzata dagli Stati Uniti, ha servito su un piatto d’argento il piano a lungo inseguito di imporre un isolamento duraturo alla Federazione Russa che sotto la presidenza di Vladimir Putin si è (per fortuna) proposta come contrappeso all’unipolarismo statunitense.

Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti avevano sostanzialmente considerato la Russia alla stregua di una potenza regionale, e in effetti nel periodo Eltsin essa non era che il pallido ricordo dell’URSS. Con il ritorno di Putin alla presidenza, nel 2012, e il peso e il prestigio acquisiti da quest’ultimo con molte iniziative (crisi siriana, Unione Eurasiatica), sembra che Obama abbia declassato Mosca a uno Stato canaglia, con la conseguente minaccia di isolamento e l’imposizione di sanzioni che colpiscono in primis i Paesi europei che della Russia sono tra i principali interlocutori economici. La collaborazione tra Europa e Russia è vista come fumo negli occhi dagli Stati Uniti che stanno ricorrendo anche a minacce e ricatti per impedire la costruzione del gasdotto South Stream, progetto a cui oppongono la propaganda di un improbabile shale gas americano che dovrebbe rifornire l’UE.

L’altro fronte è stato aperto contro l’Argentina, che i media occidentali presentano come in default per la seconda volta, dopo tredici anni. Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Thomas Griesa ha dato ragione a quei fondi speculativi, “avvoltoio”, che detengono poco più del 7% del debito argentino, che hanno rifiutato le condizioni che erano state pattuite dal restante 93% dei creditori con i governi di Nestor e Cristina Kirchner. L’organo giudiziario degli USA sta dunque prendendo posizione per un manipolo di speculatori che la stessa Kirchner ha definito non a torto usurai. Se non si è completamente obnubilati dal teatrino mediatico occidentale è difficile pensare che la sentenza di Griesa non rientri nella strategia dettata dalla stessa amministrazione di Washington per piegare i governi che non accettano più di svendere la propria sovranità alla finanza speculatrice. In poco più di un decennio l’Argentina dei Kirchner non solo a ristrutturato in modo ragionevole il debito ma ha anche cambiato totalmente rotta rispetto ai governi neoliberisti che hanno condotto il paese al disastro seguendo le direttive del FMI. Questo default indotto da una sentenza giudiziaria è così paradossale che persino cento economisti, tra cui vari premi Nobel, si sono appellati al Congresso americano con una lettera in cui definiscono questa situazione dannosa al sistema finanziario internazionale.

Curiosamente, gli economisti fanno notare come questa situazione potrebbe essere un boomerang per la stessa economia statunitense, poiché se il debito di un Paese deve sottostare alle leggi di Wall Street, in futuro altri governi potrebbero non più finanziare il loro debito in America. In poche parole, la strategia statunitense per perpetuare il proprio dominio economico sembra così anacronistica e isterica che è difficile trovarne sostenitori oltre la cerchia degli alleati di Washington. I Paesi sudamericani, ormai retti in maggioranza da governi che fanno della sovranità e della indipendenza nazionale la loro bandiera, hanno fatto quadrato intorno all’Argentina, non ultimo il Brasile, membro importante dei BRICS e che agli ultimi Mondiali di calcio ha dovuto subire una campagna mediatica diffamatoria come quelle subite in passato dal Sudafrica e dalla Cina. Infine bisogna ricordare come proprio i BRICS abbiano dimostrato interesse nel far entrare nel gruppo l’Argentina: mentre un Occidente sottomesso ai diktat della finanza presentano l’Argentina come un Paese in default, non devono pensarla così nel resto del mondo, come dimostrano le visite di Vladimir Putin e Xi Jinping che hanno stretto importanti accordi con Buenos Aires.

Sanzioni, ritorsioni, default indotti, dunque, in barba alla globalizzazione e alla presunta libertà del mercato, sono le armi che gli Stati Uniti del Nobel per la Pace Obama stanno utilizzando in misura crescente per bloccare l’avanzata dei grandi Paesi emergenti, oltre ovviamente a quei Paesi che storicamente resistono all’imperialismo di Washington, dalla Corea popolare all’Iran, Cuba e lo Zimbabwe.

Ma nel frattempo Washington ha anche bisogno di serrare le fila dei suoi alleati, a cui non sono perdonati rapporti troppo stretti con certi Paesi, come insegna il caso degli elicotteri “Mistral” che la Francia costruisce in cooperazione con la Russia o, sempre rimanendo in Francia, le sanzioni imposte alla banca Paribas, accusata di violare gli embarghi commerciando con Cuba, Sudan e Iran. Come nel caso del debito argentino, ancora una volta le leggi americane pretendono il potere di sanzionare imprese pubbliche o private di Paesi terzi che in qualche misura violano le linee di politica estera stabilite dalla stessa America. Ma le cose possono peggiorare ancora di più se entreranno in vigore accordi che minacciano di fare dell’Europa una vera e propria “riserva” di caccia degli Stati Uniti.

Il TTIP (Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti) e il TISA (Accordo di commercio nei servizi) sono nomi che alla maggior parte dell’opinione pubblica europea direttamente interessata non dicono nulla poiché le trattative vengono condotte nella massima segretezza e i media, nella migliore delle ipotesi, ne danno solo rare e vaghe notizie. Ultimamente a rivelare alcuni particolari dell’operazione è stata Wikileaks. I due trattati prevedono rispettivamente la creazione di un’unica aerea di commercio tra il Nord America e l’Unione Europea e una completa liberalizzazione dei servizi anche fondamentali, come sanità e trasporti. In questo contesto, verrebbero aggirate, se non cancellate, le varie legislazioni nazionali che tutelano, per esempio, prodotti tipici e servizi, o che regolamentano le attività finanziarie, per dare libertà d’azione alle grandi multinazionali e alla grande finanza. Il TTIP e il TISA, insomma, rischiano di travolgere le piccole e medie aziende europee e quel che resta dei servizi pubblici. Gli Stati Uniti dunque affiancherebbero al capillare controllo militare che già esercitano sul Vecchio Continente un controllo economico, una sorta di “NATO economica”, destinata a rinsaldare il campo occidentale, in previsione di una nuova guerra fredda, diretta principalmente contro la Russia e la Cina, a un prezzo che ovviamente sarebbero gli europei a pagare in prima persona.

Le aziende e i lavoratori europei e italiani stanno già toccando con mano le conseguenze delle scellerate sanzioni contro la Russia dettate da Washington ed eseguite pedissequamente dai dirigenti dell’Unione Europea; l’Italia potrebbe subire un danno economico che si aggira intorno ai settecento milioni di euro in un anno. Sfortunatamente per gli Stati Uniti, quasi nessuno, dall’Argentina all’Egitto, dall’Ecuador all’India, è disposto a menomare la propria economia e quella dei Paesi “incriminati” – Russia o Iran o altri – in nome dell’imperialismo atlantico. E anche in Europa, in particolare in Germania, l’opinione pubblica e alcuni media difficilmente accusabili di essere anti-americani, stanno iniziando a porsi qualche domanda, chiedendosi se non sia veramente meglio per l’Europa sganciarsi dalla “protezione” statunitense per avviare rapporti più proficui e convenienti con la Russia e i Paesi emergenti extraeuropei.