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Ricerca scientifica, interdisciplinarità, limiti della scienza

di Franco Cardini - 12/05/2015

Fonte: Franco Cardini


La Modernità, nello stadio attuale del suo processo dinamico, ha sviluppato e imposto dei “primati”: ad esempio quello dell’economia, delle scienze “esatte” e della tecnologia a detrimento di discipline considerate ormai meno “utili” e scarsamente attendibili, quali tutte quelle “umanistiche”.

   

Nei vecchi manuali di metodologia storica s’insisteva sul concetto di “discipline ausiliari della storia”: ch’erano materie quali la paleografia, la diplomatica, la numismatica eccetera. Oggi si è decisamente affermato un modo d’intendere la storia che da un lato la considera una scienza à part entière, quasi non tanto una disciplina quanto una sintesi di tutte le discipline possibili e la coscienza stessa delle loro reciproche complementarità, dall’altro ritiene che qualunque forma di sapere possa essere, sul piano concreto e soggettivo e dal punto di vista del singolo specialista, “ausiliare” rispetto a qualunque altra. D’altronde, tutto ciò presuppone la consapevolezza da parte dei ricercatori e la coscienza che il progresso scientifico ci ha posti dinanzi a una tale complessità di metodi e di strumenti che rende indispensabile il massimo spirito di reciproca collaborazione: quindi il massimo senso del limite individuale, la massima onestà intellettuale, oserei aggiungere la massima umiltà personale. Tuttavia la Modernità, nello stadio attuale del suo processo dinamico, ha sviluppato e imposto dei “primati”: ad esempio quello dell’economia, delle scienze “esatte” (e sedicenti obiettive) e della tecnologia a detrimento di discipline considerate ormai meno “utili” e scarsamente attendibili, quali tutte quelle “umanistiche” (storia, filologia, filosofia in primis).
Se quindi da un lato storici, archeologi e filologi accettano volentieri di vestire idealmente a loro volta il camice bianco e di affidarsi per il progresso delle loro ricerche ai fisici, ai fisiologi, ai climatologi e perfino agli esperti di medicina nucleare, di solito non si verifica il reciproco. E’ comunissimo, intendiamoci, il caso, ad esempi di “medici-umanisti”, innamorati della letteratura o cultori di storia o collezionisti ed esperti d’arte, ma nella maggioranza di questi casi essi considerano il lato “umanistico” della loro preparazione scientifica come un hobby, un “riposo del guerriero”, convinti che la vera scienza sia quella, “certa” e “obiettiva”, ch’essi esercitano principalmente e professionalmente.

E’ un atteggiamento deleterio, che rischia di generare errori e distorsioni mentali. Sembra proprio che sia arrivato il momento di porre un limite alla hybris dello scientismo che si sente infallibile e onnipotente; che legge soltanto al libro dei suoi metodi e delle sue ricerche, ritenendosi autoreferenziale e autosufficiente. Non c’è dubbio che il rapporto interdisciplinare con le scienze fisiche, mediche, matematiche, astronomiche, architettonico-ingegneristiche, informatico-telematiche e così via, abbiano fatto fare passi da gigante anche a quelle archeologico-filologico-storiche. Tuttavia esiste in ciò un pericolo: che tale rapporto sia cioè “asimmetrico” e che, mentre lo spirito critico connaturato a filologi e storici determini una loro apertura verso ogni forma di novità e di cambiamento d’interpretazione, i ricercatori degli àmbiti scientifici discutano e polemizzino sì tra loro, ma appaiano impermeabili all’apporto recato appunto da storia e filologia. Inoltre, dal momento che la falsa coscienza d’onnipotenza cancella per sua natura il senso del limite, càpita altresì che molti scienziati finiscano con il ritenere i loro personali metodi e le loro personali scoperte o ritenute tali come i soli veicoli dell’obiettiva certezza scientifica, i soli coincidenti con l’effettiva realtà delle cose. L’eccesso di fiducia nella scienza provoca una specie di sonno della ragione critica: e il sonno della ragione, si sa, genera mostri. Se ne è vista una prova giovedì sera, 7 maggio 2015, assistendo alla puntata della rubrica televisiva Porta a Porta. Ne era oggetto la Sindone di Torino, una reliquia (o un’immagine) attorno alla quale è andata creandosi un’autentica foresta di ricerche scientifiche dagli opposti risultati, con tutte le relative polemiche. Probabilmente, tali ricerche e tali polemiche non finiranno mai: e sono d’altronde chiare tre cose. Primo, la scienza non potrà mai dirci se davvero quel telo di lino ha mai davvero avvolto il corpo non già di un morto di duemila anni fa, ma proprio di Lui, di Nostro Signor Gesù Cristo. Secondo, l’oggetto in questione – usurato, fragilissimo: e circondato d’altronde da un’aura di sacralità e di devozione che impediscono di poterlo ridurre a una cavia da laboratorio e pongono un drastico limite a indagini invasive – non può per sua natura prestarsi a divenire un ostaggio eternamente e totalmente in balìa di manipolazioni. Terzo, se vogliamo considerarlo – e obiettivamente lo è – come un “corpo di reato”, appunto le manipolazioni ch’esso ha subìto nei secoli lo ha trasformato in una “prova inquinata” che molto difficilmente può fornire risposte attendibili alle sollecitazioni scientifiche.

Ma giovedì scorso, a parte tre testimoni diciamo così marginali – un buon sacerdote e teologo, un docente di storia che avrebbe dovuto testimoniare le vicende conosciute dell’oggetto (e che nella fattispecie era l’autore di queste righe) e Piergiorgio Oddifreddi, convocati a far la parte dell’advocatus diaboli, era evidente che tanto i due specialisti quanto un giornalista chiamato a testimoniare in quanto autore appunto di un’indagine giornalistica della questione erano paladini dell’autenticità della Sindone: ed esponevano i risultati delle loro ricerche personali o di gruppo – ecco l’errore obiettivo, fosse o no risultato di soggettiva disonestà intellettuale – come l’esito di analisi dotate di attendibilità e obiettività assolute, a evidente scapito e discredito di altre tesi e di altre ricerche, le quali sul medesimo oggetto hanno fornito risultati in gran parte diversi o del tutto opposti. E, siccome dalle loro esposizioni apparivano evidenti sia la presenza di gravi lacune sul piano dell’informazione relativa ad alcuni aspetti della realtà – quelli relativi alla storia e alla filologia, ad esempio – sia la mancanza da parte loro di consapevolezza della gravità di tali lacune, il risultato della serata è stato al tempo stesso grottesco e allarmante. Grottesco per le sciocchezze che si sono dovute ascoltare (come l’affermazione, piena di ridicola sicumera, di ciò che “scientificamente” parlando accadrebbe all’atto della resurrezione: una sorta di esplosione di energia nucleare), allarmante in quanto i milioni di spettatori di tale sciagurata emissione televisiva, nella stragrandissima maggioranza dei casi del tutto ignoranti di quel che si stava dibattendo, hanno ricevuto l’impressione di essere stati edotti in termini, appunto, sicuramente scientifici. Cito un solo esempio. Uno studioso di statistica ha ritenuto di rilevare alcune somiglianze formali tra l’immagine del volto del Cristo in una moneta bizantina del VII secolo e la fisionomia dell’uomo della Sindone di Torino; e ne ha dedotto immediatamente e arbitrariamente che il monetiere altomedievale senz’ombra di dubbio conoscesse una reliquia della quale non c’è traccia sicura prima del XIII secolo e ne avesse riprodotto i caratteri somatici con assoluta esattezza. Eppure gli sarebbe bastata una migliore cognizione, a non dir altro, della problematica iconologica e numismatica, per accedere alla conoscenza del prototipo del volto del Cristo nell’arte sacra medievale, il “Santo Mandylion di Edessa”, per non incorrere in un risibile errore di valutazione.

Gli sarebbe stata sufficiente la conoscenza di come veniva concepita e prodotta una moneta del tempo (artigianalmente e manualmente, attraverso il colpo di martello su un dischetto di metallo posato su una piccola incudine: martello e incudine che recavano ovviamente incisi al negativo i “sigilli” delle due facce, dritto e del rovescio della moneta che si voleva ottenere) per capire che l’immagine così riprodotta, anche ammesso – e non concesso – che l’incisore avesse avuto l’attenzione di attenersi fedelissimamente a un dato modello, non poteva venir assunta a punto di sicuro e realistico riferimento, tanto da poterne ad esempio distinguere le tumefazioni del volto riprodotte a somiglianza dell’originale. Gli sarebbe stata necessaria, infine, a dissuaderlo del tutto dal proseguire nella sua aberrante ipotesi, la conoscenza che mai e poi mai su una moneta aurea dell’impero romano d’Occidente si sarebbe apposta l’immagine di un defunto ritratta con puntiglioso realismo: primo perché tale puntiglioso realismo (che esisteva ad esempio nei ritratti scultorei d’età romana) è assente dalla logica delle immagini caricate sulle monete soprattutto (ma non solo) altomedievali, secondo perché mai e poi mai l’immagine di un Cristo non solo patiens ma addirittura morto sarebbe stata scelta nel contesto della simbolica imperiale che puntava sistematicamente a quella del Cristo triumphans, anzi del Pantokrator secondo una tipologia iconica ben nota, tradotta anche in termini monumentali, e prototipo della quale era appunto l’immagine, ritenuta “autentica” e ovviamente “acheropita” del Mandylion di Edessa, collegato a un apocrifo evangelico, trasferito nel 944 a Costantinopoli e scomparso nel saccheggio crociato nel 1204. E’ vero che alcuni studiosi – mi limito a citare i lavori di Barbara Frale, editi dal Mulino; ma invito anche a vedere, contra, quelli di Andrea Nicolotti editi dalla Salerno e dalla Einaudi – hanno identificato Mandylion e Sindone: ma quello è un altro problema. Peraltro, lo studioso di statistica il quale citava come dati sicuri e obiettivi i risultati soggettivi della sua indagine (dandoli sicuri al 1000 per 1000, ma senza chiarire il metodo di elaborazione dei parametri numerici addotti), a domanda rispondeva di aver ad esempio letto il libro del Nicolotti – mentre io, con onesta umiltà, ammettevo di non aver letto il suo, anche perché molto recente -: ma il proseguimento della trasmissione, dalla quale dal canto mio mi ero dovuto assentare per raggiungere la biblioteca del senato nella quale un altro evento richiedeva la mia presenza, rivelava se non altro che il Mandylion era un tema scarsamente noto se non ignoto agli scienziati che stavano animando il dibattito sindonico. Quanto a me, quel che so e che ritengo a proposito della Sindone è presente nel libretto La Sindone di Torino che ho scritto insieme con Marina Montesano e che è edito dalla Medusa. E’ una semplice e umile, ma onesta sintesi.