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Globalizzazione: sono i contadini e non gli operai a opporsi (Intervista a Ignacio Ramonet)

di Carlo Petrini - 03/09/2006

Intervista a Ignacio Ramonet  
IL prossimo appuntamento di Terra Madre, dal 26 al 30 ottobre a Torino, aggiungerà molti temi di dibattito a quelli affrontati nel 2004. Oltre a contadini pescatori e nomadi, saranno anche presenti cuochi e università di tutto il mondo: la complementarità tra agricoltura e scienza gastronomica farà un ulteriore passo verso la reciproca consapevolezza di essere parti attive che agiscono sullo stesso fronte. Per questo si abbozzerà per la prima volta la costruzione di una rete mondiale che tuteli, produca e distribuisca il cibo sostenibile, che comunichi conoscenza e informazioni e permetta la mobilità delle persone coinvolte. Il tutto senza cappelli ideologici o politici. Su questi temi mi è sembrato interessante sentire Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde Diplomatique e intellettuale impegnato sul fronte del World Social Forum.


La linea politica di Terra Madre, se vogliamo trovarne una, è data semplicemente dall'incontro e dal dialogo, partendo dalla considerazione che, per esempio, molta dell'umanità che vi partecipa non ha mai avuto il diritto a viaggiare. Tutto questo è stato concepito e realizzato da un'associazione gastronomica, che cosa ne pensa Ignacio Ramonet?

«Conoscevo male il vostro movimento anche se ne avevo molto sentito parlare. Ora che mi sono potuto documentare meglio mi sembra formidabile: un movimento che a partire dalla gastronomia arriva senza difficoltà sulle questioni che oggi sono al centro del dibattito mondiale. Noi, che con il World Social Forum siamo giunti più o meno alle vostre stesse conclusioni, siamo invece partiti da altre constatazioni. Il risultato però non cambia, e durante questo dialogo vorrei soffermarmi in particolare su tre questioni che mi paiono centrali e decisamente pertinenti parlando di Slow Food, Terra Madre e globalizzazione».

Sulla globalizzazione: chi sono i soggetti più attivi nell’opporsi a questo fenomeno?

«La globalizzazione porta a diversi tipi di distruzione, sul piano industriale, economico, ecologico, sociale. Soprattutto alcuni settori industriali ne sono molto colpiti, ma se osserviamo attentamente, è facile constatare che chi resiste in tutto il mondo sono soltanto i contadini e non gli operai. Se guardiamo ai forum sociali, è evidente che praticamente non vi partecipano mai operai. Esiste soltanto una resistenza contadina ed è quella che ha meglio, e per prima, compreso i pericoli della globalizzazione: rispetto al libero scambio, alla perdita di biodiversità, all'acqua, a certe materie prime. I leader antiglobalizzazione più importanti, poi, vengono tutti dal mondo contadino: Vandana Shiva, José Bové, Rafael Allegria, Joao Pedro Stedile. Dunque l'agricoltura è un settore che si sta rivelando molto importante e non è nemmeno un caso che siano loro i più attivi durante le riunioni del Wto: colui che si è immolato nel Wto di Cancun, il sud-coreano che si è tolto la vita in pubblico, era un contadino».

In effetti analizzando le grandi sfide cui ci mette oggi di fronte la globalizzazione saltano fuori dati sorprendenti, la cui portata va addirittura al di là di quello che pensavamo. Ad esempio ho letto il Millennium Ecosystem Assestment, lo studio di quattro anni voluto dall'Onu e dalla Fao, che ha coinvolto più di mille scienziati di tutto il mondo. Essi volevano capire lo stato di salute del mondo ed è emerso un quadro molto preoccupante per quanto riguarda gli ecosistemi. Ma è ancora più interessante leggere le cause di questa minaccia. Gli esperti hanno concluso che i problemi ambientali sono stati provocati primariamente dalla produzione del cibo. Beh, di fronte a questi dati il nuovo gastronomo non può far finta di niente.

«I contadini, oltre a sentirli per primi, hanno anche la forza di porre all'attenzione del mondo questi problemi. Per esempio oggi il mondo intero ha capito che un problema è il cotone, non sto dicendo il petrolio, ma il cotone. Tutto il pianeta se ne interessa perché i coltivatori tradizionali dell'Africa sub-sahariana hanno fatto questa battaglia, che poi è un problema di tradizioni produttive e di economia globale che provoca l'abbandono delle coltivazioni da parte di milioni di africani. Essi emigrano in Europa o negli Stati Uniti, o vanno nelle bidonville delle grandi città come Lagos. Diecimila produttori industriali e sovvenzionati di cotone nel mondo sono riusciti a mettere in pericolo la vita di 10 milioni di contadini. Per questo l'agricoltura non è più solo al centro dell'interesse dei contadini, ma anche di tutti quelli che guardano al fenomeno della globalizzazione. E ci sono dei leader contadini che sono diventati molto popolari, come Bové in Francia. Hanno difeso la loro produzione e a prima vista poteva sembrare pittoresco difendere il Roquefort di fronte a tematiche più complesse, ma si è visto che Bové in realtà aveva delle cose da dire, molto profonde e pertinenti, anche sui massimi sistemi, sulla nutrizione di massa, sulla globalizzazione stessa».

Trovo l'analisi perfetta, ma su questo primo aspetto, chiamiamolo della resistenza contadina, vorrei però aggiungere una cosa: penso che rappresenti un limite della sinistra, dei suoi uomini politici, perché la loro attività, essendosi fondata storicamente sulle lotte del movimento operaio, non riesce ad avvalersi di ragionamenti di questo tipo. La sinistra moderna ha ancora una concezione dello sviluppo prettamente industriale, senza limiti di sostenibilità. Ad esempio in Italia ho sentito dei comunisti dire che Serge Latouche, padre del concetto di decrescita economica come fattore di sviluppo, è un fascista. Vede, io provengo dalla sinistra italiana, ma non riesco proprio a condividere questo tipo di visione. Perché siamo di fronte a un mondo contadino che si ribella, e la loro lotta deve interessare tutti, anche nelle città più «sviluppate».

«Proprio da questo punto di vista, la seconda constatazione che volevo fare è che anche nelle società urbane, all'interno di categorie sociali sempre più numerose, si sta finalmente diffondendo la convinzione che l'alimentazione sia una cosa importante, e che essa sia sempre più vissuta come un problema. Fino agli anni '50 c'era una forte penuria di cibo in Europa: la fame era un fatto reale in Paesi come l'Italia, la Spagna, Il Portogallo, la Grecia e la Francia stessa. La sottoalimentazione era strutturale, c'era molta gente che basava le sue economie sull'autosostentamento. Poi però, con i progressi dell'industrializzazione, con la massificazione della produzione agricola, la questione della fame nei paesi sviluppati è sparita o diventata relativamente marginale. Oggi il problema di massa è invece diventato la cattiva alimentazione indotta da certi metodi di produzione industriali, condita con tutte le sue conseguenze, come le patologie per la salute: obesità, malattie cardiache, le allergie, le intossicazioni sempre più numerose, nuove malattie come l'aviaria e il morbo della mucca pazza. Quindi oggi c'è una preoccupazione crescente nei nostri paesi, contro la famosa malbouffe: è ormai diventato chiaro che anche la sovrapproduzione alimentare può creare la morte, esattamente come una volta la poteva portare la sottoalimentazione».

Sì, non è un caso che la preoccupazione sul cibo sia un sentimento più diffuso, penso soltanto rispetto a dieci-quindici anni fa. Quando abbiamo iniziato a lavorare su questi temi molta gente nelle città, presa dai ritmi moderni, vedeva il cibo come un semplice carburante. Lo scollamento abissale tra i momenti della produzione alimentare e del consumo ci ha fatto perdere molte coordinate per saper giudicare ciò che mangiamo, a dargli valore per ciò che realmente rappresenta.

«Cresce la consapevolezza che bisogna mangiare bene, non soltanto mangiare. Si cercano dei cibi che in qualche modo siano anche medicamenti, in Francia è addirittura stato coniato il neologismo "alicament". La preoccupazione di mangiare naturale senza pesticidi è ormai un fenomeno di massa: penso al grande sviluppo del settore del biologico. Ma è anche cresciuto molto il settore dell'equo e solidale: si fa strada una nuova presa di responsabilità verso chi produce. Per questo di sta anche cominciando a capire che si deve pagare un po' più per il cibo. Si può pagare un po' di più se si è sicuri che quei soldi aiuteranno chi ha veramente bisogno. E bisogna dire che questo sentimento che può sembrare di solidarietà in realtà non coinvolge soltanto la generosità, ma c'è anche un principio egoistico, che nasce dalla convinzione che mangiando certi prodotti si fa anche del bene a se stessi, ci si protegge in qualche modo».

Ecco allora che il mondo contadino diventa centrale e diventa fondamentale un'alleanza tra gli «urbanizzati» e coloro che realmente producono il cibo. Uno degli obiettivi di Terra Madre, la costruzione di un rete, assolutamente non terzomondista, perché vi sono coinvolti attori di ogni parte del mondo, Nord e Sud, nel pieno rispetto delle diversità. Anche di quelle linguistiche. Stiamo infatti cercando di esaltare le economie locali ma in una rete globale, ci servono Internet e le sue potenzialità, ma non vogliamo costruire una rete in inglese, vogliamo fare in modo che tutti possano esprimersi e ricevere risposte nella loro lingua.

«Questo ruolo importante dei contadini da un certo punto di vista è curioso, perché in Occidente c'è il sentimento che i contadini siano in via d'estinzione. È assurdo se ci si pensa: l'uomo, l'umanità è nata con l'agricoltura e oggi i contadini spariscono o vengono visti come una sorta di resto, di avanzo della tradizione che si è persa. Molti Paesi del mondo negli anni Sessanta hanno pensato che si potesse fare a meno dei contadini, tanto che oggi ci sono nazioni che hanno accettato l'idea di vivere senza un sistema agricolo, come ad esempio il Regno Unito. I pochi agricoltori rimasti laggiù, il 2% della popolazione, sono sovvenzionati per mantenere il paesaggio, non per produrre realmente cibo: perché questo si può comprare più economicamente nel Sud del mondo. L'industrializzazione vuole la clonazione, gli Ogm, fino ad arrivare a produrre la carne senza nessun animale. C'è quest'idea di fare un'agricoltura senza suolo, in laboratorio. E già si fa in alcuni casi. Si cerca di ritirare l'agricoltura dalla terra ma i contadini sanno bene che questa sparizione, quella del suolo, rappresenta la sparizione della cultura. Gli alberi, la biodiversità, l'identità alimentare, la tradizione in termini etnografici, canti e superstizioni che hanno marcato profondamente il territorio, tutto ciò che ha che fare con le persone, le feste, il piacere, il rapporto con la natura: la cultura di un paese sparisce insieme al suolo. E questo è il terzo elemento di cui parlavo. Il cibo come cultura».