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Lissa, una sconfitta dalle lunghe conseguenze

di Lorenzo Salimbeni - 29/07/2015

Fonte: Opinione pubblica


Il 20 Luglio 1886 si svolse nell'arco di quella che fu la Terza Guerra di Indipendenza la Battaglia di Lissa, destinata a lasciare strascichi nella cultura del paese e nell'immaginario collettivo.


Navi di legno con uomini d’acciaio che ebbero la meglio su navi d’acciaio con uomini di legno. L’ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff che impartisce ordini ai suoi marinai in dialetto veneto. La morte in battaglia di Luca dei “Malavoglia” di Giovanni Verga. Tanti aneddoti e riferimenti letterari hanno caratterizzato la narrazione della battaglia navale di Lissa (20 luglio 1866), avvenuta durante quella che per l’Italia fu la Terza Guerra d’Indipendenza e per Austria e Prussia restò agli annali come Guerra delle Sette Settimane (14 giugno-23 agosto). Il successo prussiano a Sadowa consentì all’Italia, sconfitta pure sulla terraferma a Custoza e vittoriosa solamente grazie ai volontari di Giuseppe Garibaldi a Bezzecca, di ottenere la retrocessione del Veneto tramite la Francia, ma il trauma di tale disfatta lasciò segni profondi nello sviluppo della Regia Marina.
Sorta solamente cinque anni prima contestualmente al Regno d’Italia e con l’unione dei bastimenti e degli equipaggi delle marine preunitarie, l’Armata Navale aveva tuttavia ricevuto robusti finanziamenti, su precisa indicazione di Camillo Benso Conte di Cavour, all’epoca contemporaneamente Presidente del Consiglio e Ministro della Marina. Lo statista piemontese aveva colto l’importanza della posizione strategica italiana nel cuore del Mediterraneo e la conseguente necessità di allestire una flotta moderna e bene armata. Venne fondato l’arsenale di La Spezia ed i cantieri italiani vararono le corazzate di seconda classe (ancora con lo scafo in legno) Principe di Carignano, Messina, Roma, Venezia e Conte Verde, mentre furono ordinate all’estero le fregate corazzate di prima classe Re d’Italia e Re di Portogallo (negli Stati Uniti), le fregate corazzate Ancona, Castelfidardo, Maria Pia e San Martino nonché le corvette corazzate Formidabile e Terribile in Francia e in Gran Bretagna l’ariete corazzato Affondatore, una delle prime navi munita di torri rotanti di artiglieria. Questa era una fase di transizione nella strategia navale, in cui coesistevano vascelli lignei e corazzati, artiglierie a lunga gittata e rostri di prua con i quali speronare e colare a picco le imbarcazioni nemiche.

Allo scoppio del conflitto, tuttavia, i cospicui investimenti non erano riusciti a forgiare affiatamento e spirito di corpo negli equipaggi, gli ufficiali sardo-piemontesi erano stati privilegiati nell’ascesa gerarchica rispetto ai colleghi provenienti dalle altre marinerie creando litigi e divisioni e le scorte di carbone e munizioni lasciavano alquanto a desiderare. Ciononostante, allo scoppio delle ostilità il comandante in capo ammiraglio Carlo Pellion di Persano concentrò le forze ad Ancona ed effettuò tra l’8 ed il 12 luglio un’infruttuosa esplorazione nelle acque austriache, ricevendo le prime critiche per non aver cercato lo scontro risolutore. Il Ministro della Marina Agostino Depretis esortò pertanto Persano a cannoneggiare ed occupare la base austriaca che si trovava sull’isola di Lissa, nel bel mezzo dell’Adriatico centrale. Durante la Prima Guerra d’Indipendenza le flotte italiche avevano attuato un blocco al largo del porto di Trieste, il più importante scalo commerciale austriaco; nella Seconda la flotta franco-sarda aveva compiuto uno sbarco nelle isole quarnerine di Cherso e Lussino; stavolta si progettava di prendere il controllo dell’Adriatico al fine di consentire uno sbarco garibaldino in Dalmazia, non tanto per annettere il litorale dalmata, in cui era pur presente una significativa comunità italiana, bensì per fomentare slavi e ungheresi ad insorgere contro il governo di Vienna, aprendo così un nuovo fronte.

Il 18 e 19 luglio il grosso della flotta italiana sprecò carbone e munizioni nell’assedio di Lissa, le cui difese costiere dettero ottima prova di sé, sicché il giorno dello scontro lo sbarco non era ancora avvenuto e gli equipaggi erano sfiduciati e stanchi, tanto più che il mare si era fatto mosso. 12 tra fregate, corvette e cannoniere corazzate, 10 pirofregate lignee e 4 cannoniere di legno battenti bandiera italiana videro giungere al mattino del 20 luglio dalla base austriaca di Pola 7 corazzate (fregate o corvette), un vascello a vapore, 5 pirofregate, una pirocorvetta e 12 cannoniere in legno. Incuneatosi in mezzo alla flotta sabauda schierata, Tegetthoff dette ordine a ogni nave di concentrare il fuoco su un unico obiettivo e la catena di comando si dimostrò più efficace di quella italiana. Colarono a picco le corazzate Re d’Italia e Palestro, mentre altre navi scamparono fortunosamente all’accerchiamento delle agili e insidiose unità austriache, il cui equipaggio era in effetti costituito in buona parte da marinai dalmati lealisti e pertanto la lingua franca per comunicare risultava il dialetto veneto. Rientrato ad Ancona annunciando un’improbabile vittoria, Persano sarebbe stato in seguito processato dal Senato del Regno, di cui faceva parte, riunito in Alta Corte di Giustizia e condannato per imperizia, negligenza e disobbedienza, ma la gravità della sconfitta (due navi affondate, 620 morti e 40 feriti) ebbe conseguenze a lungo termine.

Nonostante nuovi robusti investimenti, la Regia Marina denunciò un preoccupante complesso d’inferiorità che le operazioni compiute nella guerra italo-turca per il possesso della Libia non avrebbero fugato: dalle basi conquistate nel Dodecaneso il capitano di vascello Enrico Millo avrebbe portato le torpediniere Spica, Centauro, Climene, Perseo e Astore a violare lo stretto dei Dardanelli, insidiando da vicino il centro vitale della flotta ottomana. Si trattò comunque di un’audace incursione attuata da naviglio leggero, mancarono il massiccio spiegamento di forze e la battaglia decisiva, dopo che nei decenni precedenti la flotta si era impegnata al massimo nella scorta dei corpi di spedizione nel Corno d’Africa a più riprese e in Cina contro la Rivolta dei Boxer (1900).
Analogamente nella Prima Guerra Mondiale, in cui la flotta italiana e quella austro-ungarica si fronteggiavano nell’Adriatico più o meno ad armi pari, mancò il grande confronto risolutore poiché le navi italiane contribuirono essenzialmente ad irrobustire il blocco del Canale di Otranto che francesi e inglesi attuavano dall’agosto del 1914. Imponente sarebbe stato lo spiegamento di mezzi adoperati per trarre in salvo l’esercito serbo nell’inverno 1915-’16 ed assiduo si sarebbe rivelato il pattugliamento da parte di cacciatorpediniere e siluranti, ma di fatto i vertici italiani adottarono la tattica della fleet in being. Adottando il concetto di “flotta in potenza”, infatti, le navi da battaglia ed il grosso della flotta rimanevano ancorate al sicuro, onde evitare perdite e sconfitte che avrebbero danneggiato il morale, ma costringendo il nemico ad una costante vigilanza nel timore di improvvise sortite. D’altro canto il litorale dalmata frastagliato ed articolato in una miriade di isole e canali offriva sicuri approdi all’imperial-regia flotta, laddove la costa adriatica dello stivale era priva di punti di appoggio ed esposta alle incursioni nemiche. Nelle prime ore del 24 maggio 1915, in effetti, le prime incursioni di rilievo furono attuati dalla flotta austro-ungarica al gran completo, che cannoneggiò Ancona (che pur era stata dichiarata città aperta) ed altre località rivierasche, mentre la flottiglia lacustre del Garda colpì sul litorale veneto e lombardo. La Regia Marina dovette poi subire lo smacco di due attentati portati a segno dal servizio segreto asburgico: l’Evidenzbureau distaccato a Zurigo riuscì a infiltrare suoi agenti a Brindisi, ove colò a picco il 27 settembre 1915 la corazzata Benedetto Brin in seguito ad un’esplosione nella santabarbara, e a Taranto, ove analoga sorte toccò il 2 agosto 1916 alla corazzata Leonardo Da Vinci.

Come contromosse, un blitz in territorio elvetico dell’intelligence italiana consentì di scoprire i nomi di chi faceva parte della rete spionistica nemica e l’impegnativa difesa della costa adriatica fu affidata sempre più ai treni blindati, mentre si dimostrò debole la sinergia che la flotta di base a Venezia fornì alle truppe combattenti sul basso Isonzo, limitandosi a schierare alcuni pontoni armati di grossi calibri. L’affondamento della corazzata Vienna in rada a Trieste il 9 dicembre 1917, il siluramento della Santo Stefano nelle acque di Premuda il successivo 10 giugno e l’affondamento a Pola dell’ammiraglia Viribus Unitis il primo novembre 1918 furono prestigiosi successi, ma compiuti da naviglio leggero, cioè MAS e torpediniere capaci di infiltrarsi nelle maglie difensive nemiche e di assestare precisi colpi di siluro, oppure da incursori in grado di minare la chiglia della nave nemica.
Nel corso delle trattative di pace, i vertici della Regia Marina chiesero a più riprese che, coerentemente con il Patto di Londra, tutta la Dalmazia venisse annessa all’Italia, laddove il Regio Esercito preferiva rinunciarvi pur di portare il confine alle Alpi Giulie e fare a meno di impegnare numerose truppe per presidiare il frastagliato litorale adriatico orientale abitato in prevalenza da croati e serbi, i quali avrebbero tramato per l’annessione al neonato Regno dei Serbi, Sloveni e Croati. Quest’ultimo aveva fra l’altro ereditato l’imperial-regia flotta (già pochi giorni prima della fine del conflitto, tanto che l’affondamento della Viribus Unitis fu un danno maggiore per Belgrado che per Vienna) e costituiva pertanto un possibile antagonista italiano nell’Adriatico. Vani si sarebbero rivelati gli sforzi dell’ammiraglio Millo, governatore militare della Dalmazia dopo l’armistizio di Villa Giusti e giunto al limite dell’ammutinamento e dell’insubordinazione rispetto agli ordini provenienti da Roma, pur di annettere la costa dalmata all’Italia (fiancheggiamento dell’operato di Gabriele d’Annunzio a Fiume, favoritismi nei confronti della minoranza connazionale assieme ad un atteggiamento paternalistico nei confronti di croati e serbi per cercare di convincerli della bontà della presenza italiana). Il 12 novembre 1920 il Trattato di Rapallo risolse in maniera bilaterale il contenzioso di confine, assegnando all’Italia l’entroterra della Venezia Giulia (pur abitato a maggioranza da sloveni e croati), solamente l’enclave di Zara in Dalmazia (in effetti l’unica città a maggioranza italiana) ed istituendo lo Stato Libero di Fiume, contiguo al Regno d’Italia che però doveva liquidare la Reggenza del Carnaro. Ne sarebbero conseguiti il Natale di Sangue, l’allontanamento di d’Annunzio e dei suoi Legionari ed il malumore della Regia Marina, la quale non poteva dichiarare l’Adriatico “mare nostrum” e così emendare definitivamente la catastrofe di Lissa.