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L’illusione di vincere l’infelicità

di Guido Ceronetti - 12/09/2006

 
Un po’ d’inattuale più attuale dell’attuale può forse attrarre di più chi nei giornali non trova che attualità in misura da sommergerlo, fino ad imporgli la ricerca di una distrazione che ne diverga, di un contravveleno... Se questo bisogno fosse compreso e in qualche modo soddisfatto, la parola stampata batterebbe la concorrenza dell’immagine.

Tempo fa, in una dichiarazione pubblica, Prodi ha accennato al problema delle felicità. Mi fermo alla parola perché ignoro il contesto, l’occasione, e se ne domandi a qualcuno ti accorgi dello stato pietoso in cui versano le memorie. Fu pronunciata, in un’assemblea politica che aveva freschezza e ferocia messianica, da Saint-Just alla Convenzione: «La felicità è un’idea nuova in Europa». Lo era; ma il problema autentico che si poneva e si pone è quello di diminuire l’infelicità e questo presuppone tanta intelligenza da capire che, dai giorni in cui un genio discretamente sanguinario pronunciò quella frase da lapide l’infelicità, in Europa, nonostante un immane sforzo collettivo per indigare, correggere, eliminare l’infelicità materiale, sforzo forsennato perseguito a danno di tutto ciò che è vivente, e raggiunto, con un’affannata trascuratezza del raggiunto per incalzare l’Oltre - ecco, proprio l’infelicità è aumentata vertiginosamente, tanto da poterla tangere di mano o urtare col gomito come la tenebra della Linea d’Ombra conradiana, paurosa e sterminatrice, per i marinai della nave immobilizzata, le vele spente, nella bonaccia tropicale. La solidità di quella tenebra contiene un simbolismo estensibile dal metafisico perfino al politico. Metti la mano fuori dai finestroni dello Stato e puoi sentirla, se hai falangi sensibili.

I padri fondatori iscrissero la felicità nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti: poco più di due secoli dopo la grande America è il motore, oltre che dell’economia, dell’infelicità occidentale, e mondiale. La sua industria più potente e più influente sui destini è quella dello Psicofarmaco. Lo scopo è di ridurre l’infelicità in trabocco dovunque, l’Angst, mediante l’inebetimento chimico (droga e alcool son dietro l’uscio) che fa dimenticare il male interno, il terrore che dà la privazione progressiva, in incessante perfezionamento, della speranza, del senso della vita. Dal momento però che il male è psichico (non ha un luogo del corpo, li occupa tutti) è anche incurabile: lo psicofarmaco lo tampona, lo stordisce, lo attenua per un momento soltanto. Tutte le nostre letterature, nel loro meglio, da un paio di secoli non parlano d’altro.

La parte di umanità che l’antica Gnosi chiamava appunto psichica (a metà tra la Spirituale e la Ilica, prevalentemente materiale) sono oggi un incalcolabile numero di facce, sono l’Occidente euroamericano autoctono e questa è diventata la più fradicia d’infelicità nel mondo. Sono questi i cittadini più esigenti, gli elettori che si spostano in delusioni invariabili da lista a lista, i divoratori di bilanci della Salute introvabile, gli affamati di superfluo che mercato e pubblicità corrompono midollarmente, le vittime sinistre del prolungamento della vita, che condanna quasi tutti alle solitudini e agli abbandoni drastici dell’invecchiamento. L’errore politico fondamentale è di voler dare alle maggioranze psichiche (dominate, in linguaggio teosofico, dal corpo eterico, deboli nel mentale, trascurate nel fisico perché sazio) beni materiali in eccesso, che interiormente vengono vomitati con nausea, perché a governarli in profondità c’è un timone individuale impazzito e senza bussola, e il Demone, ben più potente di un Primo Ministro e di qualsiasi leader carismatico, della Depressione.

Una riflessione sbendata sull’infelicità può valere nel politico intelligente la determinazione di puntare allo sradicamento di ogni tentativo di società perfetta. Gli esempi di moderne società perfette sono tremendi: sessualità sadica, suicidi tradizionali, suicidi per medicazione, voragini di consumi antidepressivi, droghe, alcolismo, distruzione dei legami di sangue e di amicizia, malattie degenerative perché la Natura è ostinata, più si sfugge alla morte più le sue trappole si fanno malvage. Mantenere vivi i mali sociali è un’accortezza per non creare micidiali perfezionamenti; lasciar vivere il difetto, non temere la scandalosità, lavare e non abolire la piaga, non perseguitare la povertà per farla sparire. È vero che, nelle funzioni pubbliche come nell’esistenza individuale, quanto più si vorrebbe medicare l’infelicità, leviatano mostruoso che avvolge tutti come i draghi del Laocoonte, si va a tastoni e si sbaglia sempre. Non tenendone invece alcun conto, le orecchie turate al grido, tutto fila. Con la realtà profonda tutte, credo, le nostre analisi intorno alla res publica hanno un ben scarso rapporto; servono a far parole...