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La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno

di Lucio Mamone - 06/03/2016

Fonte: AldoGiannuli


Il DDL Cirinnà è stato finalmente approvato ed è ora possibile sviluppare una prima valutazione complessiva della vicenda, constatando che non si è persa occasione di spingere la Repubblica un passo più avanti verso il suo declino politico, culturale ed istituzionale. La vicenda ha pertanto acquisito una una rilevanza che va al di là dei suoi aspetti più contingenti e merita particolare considerazione, nonché un inquadramento che parte da lontano.

Nel 1923 Carl Schmitt pubblicava un breve saggio dal titolo piuttosto ambizioso: «La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno». La tesi di fondo dell’opera constatava una generale perdita di consapevolezza dell’essenziale significato dell’istituzione parlamentare, ossia l’essere la sede di un’autentica discussione volta alla determinazione della volontà generale, e metteva pertanto in risalto come le modalità di funzionamento di essa venissero valutate sempre più in base a criteri, quali la mera utilità, estrinseci alla sua natura. Il corso storico e lo sviluppo del pensiero ha invece favorito l’affermarsi di una visione decisamente più edificante, quando non trionfalistica, dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici occidentali, la quale interpretava il fenomeno per negazioni assolute e distingueva esclusivamente tra nemici esterni e promotori. In questo articolo cercherò invece di mostrare quanto l’intuizione schmittiana, contrariamente alla sua fortuna, avesse colto una tendenza effettivamente in atto e come anche il comportamento di politica e società civile italiane in occasione della discussione sulle unioni civili possa essere spiegato partendo da quella diagnosi.

L’apporto rovinoso dell’impegno parlamentare attorno alla Cirinnà non è da ricercare nel contenuto del disegno di legge, che personalmente giudico anzi troppo povero, quanto nel grado di bassezza e ipocrisia con cui è stato condotto il dibattito politico da parte dell’intero arco parlamentare. Nessuno escluso: se gli oppositori alla legge si sono distinti principalmente per il fondamentalismo delle loro posizioni sul tema, non certo maggior sfoggio di virtù è provenuto dai propugnatori, che hanno spesso condiviso con i primi la spregiudicatezza del calcolo politico e li hanno infine superati nell’ostentazione del disprezzo verso i principi della discussione parlamentare.

Della finezza intellettuale dei vari Giovanardi ed Adinolfi si era già fatta lunga esperienza, ha invece quasi del sorprendente il “candore” con cui anche quelle forze politiche ed elettori che sventolano con più frequenza le bandiere della legalità e della democrazia hanno invitato a mettere da parte la questione sulla correttezza dei mezzi e a concentrarsi unicamente sull’approvazione della legge.

In particolare, si sono lette un po’ ovunque reazioni di sdegno verso la scelta del Movimento 5 Stelle di votare contro il cosiddetto super-canguro. Buona parte dell’opinione pubblica e dei mezzi d’informazione ha cioè sposato la tesi per cui, visto che era in ballo una “legge di civiltà” ed inoltre gli avversari giocavano sporco con gli emendamenti, perdersi in questioni di principio, quali la democraticità o la costituzionalità del canguro (sic!), era segno di immaturità politica o, peggio ancora, di un vero e proprio tradimento. Piano di metodo e di merito si sono confusi a tal punto che il semplice rifiuto del super-canguro da parte 5 Stelle, i quali però confermavano il loro pieno sostegno alla legge, è stato interpretato, più o meno in malafede, come un’opposizione tout court alle unioni civili.

Il rischio maggiore che la discussione pubblica sul DDL Cirinnà porta con sé è che essa possa aver contribuito a creare una coscienza condivisa dell’inopportunità dei principi del parlamentarismo. Strumenti come il super-canguro, il canguro, la ghigliottina non sono certo nuovi alla scena politica italiana. Ciò che è invece nuovo è il fatto che, mentre fino ad ora questi strumenti venivano utilizzati con un certo pudore dai partiti, i quali almeno ufficialmente in qualche modo si rammaricavano di esser stati costretti a ricorrervi, e incontravano tendenzialmente ostilità o indifferenza da parte dell’opinione pubblica, in questa occasione invece il super-canguro sembra aver riscosso un ampio e fanatico sostegno. Potrebbe dunque accadere in futuro che si faccia leva sul ricordo dell’impasse causato dal rifiuto del super-canguro per promuovere e legittimare un atteggiamento “decisionista” dell’esecutivo finalizzato ad aggirare i “tempi lunghi del Parlamento”, dipingendolo appunto come decisore inefficace e luogo dell’intrigo e dell’immobilismo.

Ora, non serve scomodare Kant o Montesquieu per capire quanto un’argomentazione che pretende di screditare l’osservanza della regole procedurali per via della bontà dei contenuti possa essere pericolosa e autoritaria. Dovrebbe essere infatti piuttosto chiaro che all’interno di una società pluralista, o che vorrebbe essere tale, l’intesa tra i sostenitori delle varie opinioni può avvenire soprattutto sulle regole della discussione e non sui contenuti. Nella fattispecie concordo nel riconoscere le unioni civili un doveroso atto di civiltà, ma non si può certo pretendere che con questo argomento si possano convincere gli avversari ad accettare una procedura decisionale di dubbia legalità e di manifesta scorrettezza! Chi a parti inverse accetterebbe una stretta dei diritti degli omosessuali in nome della sopravvivenza dell’Europa cristiana? Porre i contenuti al di sopra delle forme è l’inizio della negazione della discussione pubblica e parlamentare, nonché in seconda battuta dello stato di diritto, e risulta incomprensibile il costume mentale che si sta affermando, per cui se una legge verso cui si è contrari viene approvata con le procedure sopraelencate, siamo in presenza di un colpo di stato, se invece la legge è di gradimento, allora la “prassi sbrigativa” è ben accetta.

Logiche di questo tipo, come accennato, rivelano lo sviluppo di un comune sentire, purtroppo non limitato al nostro contesto nazionale, che ignora o mal tollera i principi costitutivi dell’istituzione parlamentare, che assume particolare evidenza se si considerano le opposte provenienze politiche degli attacchi. Se ad esempio ci siamo fino ad ora concentrati sull’irragionevolezza delle critiche al Movimento 5 Stelle in relazione al suo rifiuto del super-canguro, è altrettanto possibile riscontrare nella cronaca delle ultime settimane posizioni anti-parlamentariste espresse proprio dai pentastellati, prima fra tutte la proposta di introduzione del vincolo di mandato (di cui il Professor Giannuli si è già diffusamente occupato in “M5S: supercanguro, candidati sindaci e multe” e “M5s: eletti e sanzioni”).

Il vincolo di mandato, nonostante venga propagandato come passo verso la democrazia diretta, rappresenta in realtà una negazione, di fatto e di principio, non solo del parlamentarismo, ma anche della stessa democrazia, e non può che condurre o alla burocratizzazione o alla privatizzazione di quest’ultima. L’assenza di vincolo di mandato trova infatti il suo senso nella volontà di rendere il parlamentare rappresentante non solo dei propri elettori, ma della Nazione intera. Egli dunque dovrebbe, idealmente si intende, agire non in base all’interesse di un particolare gruppo sociale, ma essere invece espressione della volontà generale. Se invece il parlamentare è giuridicamente vincolato al rispetto di uno specifico programma elettorale, è evidente che egli non potrà più essere il rappresentante dell’intera Nazione, ma solo di coloro che si riconoscono in quel programma, tanto è vero che di negozio privato si è parlato proprio nel tentativo (maldestro) di dare legittimità giuridica alla proposta, e sarà inoltre tenuto a rispettare tale programma anche quando riterrà che tale osservanza vada a danno del bene comune. L’effetto in questo caso sarebbe doppio: da un lato il Parlamento cesserebbe di essere il luogo di un’autentica discussione, essendo la linea politica dei vari membri dell’assemblea decisa in anticipo dal loro obbligo di fedeltà ad un programma già definito prima dell’inizio della legislatura o comunque ridefinito al di fuori dell’aula; ma ciò comporterebbe al contempo la sua trasformazione in una sorta di assemblea degli stati generali, con la conseguenza paradossale che non vi sarebbe più un organo di rappresentanza del popolo sovrano, ma solo un organo di mediazione tra i vari gruppi di interesse della società civile.

Sicuramente mi si obietterà che la situazione sopra descritta come l’effetto del vincolo di mandato sia già la fotografia della realtà parlamentare, per cui tanto vale rendere gli onorevoli responsabili di fronte ai proprio elettori, piuttosto che continuare a permettergli di essere rappresentanti solo di se stessi. Tale obiezioni resta però non valida non tanto per la sua premessa, difficilmente confutabile, quanto per la sua conclusione, in quanto il vincolo di mandato non è uno strumento in grado di garantire un’effettiva funzione di controllo degli elettori sui propri parlamentari di riferimento. Come già rilevato dal Professor Giannuli, non è innanzitutto chiaro chi e come dovrebbe esercitare tale funzione di controllo; la soluzione può o avere carattere istituzionale, ossia sarebbero i partiti stessi, o un’improbabile commissione parlamentare, a vigilare sul rispetto del vincolo, oppure si può ipotizzare un qualche diritto di iniziativa diretta per i cittadini. Per la prima ipotesi ritengo che il Professore abbia già esaurientemente mostrato come il vincolo di mandato si rovescerebbe in un potere di ricatto dei partiti sui propri parlamentari e delle maggioranze sulle minoranze, portando a ciò che ho indicato come burocratizzazione dell’attività parlamentare; non andrebbe tanto meglio se, invece, la funzione di controllo fosse direttamente svolta dai cittadini, ammesso che si possano effettivamente risolvere problemi pratici quali l’individuazione degli elettori di riferimento per ciascun parlamentare (e qui rimando ancora agli articoli del Professore). Ma ammettiamo pure per amor di discussione che tali difficoltà siano in qualche modo arginabili, quali soggetti sociali sarebbero favoriti nella possibilità di esercizio del potere di revoca? Ritengo più che probabile che a poter far valere i propri diritti di rappresentanza sarebbero essenzialmente coloro che dispongono dei mezzi economici per sostenere le complicate cause contro i parlamentari “infedeli”: quanto è infatti plausibile che dei comuni cittadini impieghino soldi e tempo per condurre una battaglia, dall’esito per altro per niente scontato, per la revoca di un mandato? Dunque il vincolo si tradurrebbe in uno strumento in mano a lobby, corporazioni, grandi banche ecc. e in sostanza avremmo più che altro a che fare con una forma di controllo del potere economico-sociale su quello politico. Non esattamente il non plus ultra della democrazia, che si fonda sul principio diametralmente opposto.

Ad oltre novant’anni dalla prima edizione de «La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno» vediamo quindi come le considerazioni espresse dal giurista di Plettenberg stiano addirittura acquisendo maggior evidenza e consistenza, le quali dovrebbero spingerci ad una messa in discussione, radicale e soprattutto di ampio respiro, dei paradigmi politici e retorici attuali. Quanto al nostro tema, occorre innanzitutto ricordare, usando le parole di Schmitt, che «Se il Parlamento passa dall’essere un’istituzione di evidente verità a strumento semplicemente tecnico-pratico, allora è sufficiente, non necessariamente attraverso una dittatura manifesta, che venga via facti mostrato che si può procedere anche diversamente, e il Parlamento è così archiviato.»

Lucio Mamone