I mostri siamo anche noi
di Alessandrio Di Marzio - 13/03/2016
Fonte: L'intellettuale dissidente
Uccidere per il gusto di uccidere. Per vedere cosa si prova, che effetto può fare. Lunedì mattina quando Roma si è svegliata ha trovato, sbattuta su ogni giornale, gracchiata su ogni emittente televisiva e radiofonica, questa raggelante notizia. Nel finesettimana appena trascorso due ragazzi si erano divertiti ad ammazzare a coltellate e martellate un loro amico. Per gelosia, per un regolamento di conti? No, unicamente per vedere che cosa si poteva provare durante l’atto.
Tutta la città è rimasta impietrita davanti alla storia di quei due ragazzi, due rampolli della Roma bene, due ragazzi qualsiasi che facevano la loro bella vita tra eventi esclusivi, aperitivi e serate nei migliori locali della movida capitolina, due ragazzi apparentemente normali, come tanti altri, diventati nel breve volgere di una notte due mostri.
Si è cercato nei giorni seguenti in tanti modi di spiegare l’inspiegabile, di dare un senso a ciò che non lo aveva. Perché due ragazzi che hanno tutto devono arrivare a distruggersi di cocaina e alcol e ammazzare una persona per divertimento. Andando oltre gli interrogativi e le contingenze del caso, le folli azioni dei due mostri romani appaiono come il prodotto di una società che ormai non ha più nessun orizzonte valoriale, come il frutto bacato dei tempi in cui viviamo. Tempi di una società vuota, persa nell’effimero e nel vanesio, smarrita negli idoli del consumismo, del capitalismo, dell’avere tutto e subito, buttarlo via e poi desiderare ancora di più, e il tutto senza nessuna fatica. Una società del genere, quella in cui siamo immersi, che non sa più offrire alcuno stimolo a chi ne fa parte, e che produce come frutto inevitabile una profonda e drammatica noia. E la noia di due persone ormai assuefatte ad avere tutto ciò che desiderano con un semplice click, o anche meno, porta a desiderare ciò che è oltre, ciò che ancora non si è mai avuto: il delirio di sentirsi per un momento onnipotenti, il brivido di farsi arbitri della vita e della morte altrui, di poter decidere sul tutto.
Ed è qui che nella vicenda dei due raffinati viveur romani viene in luce tutto il dramma di una generazione veramente perduta, che sfoga le sue frustrazioni nella droga, nell’alcol e nella ricerca dell’eccesso perché delusa da ciò che la circonda ogni giorno. Una generazione perduta la nostra come quella resa celebre da Hemingway, che però a differenza di quella di inizio Novecento, amareggiata dalla Belle Epoque e devastata dalla Prima Guerra Mondiale, che affogava anch’essa le sue delusioni nell’assenzio, nei festini e nelle sregolatezze, generazione che tuttavia fu in grado di partorire i geni e i capolavori di Hemingway, Fitzgerald, Pound, Eliot, Steinbeck e tanti altri, traendo dalla sua dannazione carburante per qualcosa di alto, finora non è stata in grado di riscattarsi in nessun modo, producendo invece certi abomini.
Un secolo dopo infatti, dopo che i nostri nonni con il sudore delle loro fronti hanno ricostruito l’Italia mattone su mattone dopo l’orrore della Guerra, dopo che i nostri padri con il loro duro lavoro ci hanno permesso di condurre le vite agiate che oggi conduciamo, ci hanno pagato prestigiose università, ci hanno comprato le macchine nelle quali sfrecciamo il sabato sera diretti a questa o quella serata, dopo che ognuna delle due generazioni che ci hanno preceduto si è fatta grande producendo qualcosa da consegnare alla successiva, dopo tutto questo oggi in noi non c’è alcuna grandezza. Stiamo ereditando un Paese e una società frutto della fatica delle due generazioni che ci hanno preceduto, un Paese e una società che però nel tempo si sono corrotti, incistati, riempiti di metastasi, effetti collaterali dello sforzo di coloro che li hanno riedificati dopo la distruzione del conflitto mondiale.
E tutto qui sta il nostro essere perduti, come i giovani di cento anni fa. Ma da questa perdizione noi, a differenza dei ragazzi di inizio Novecento, non abbiamo tratto alcun riscatto, invero di essa non siamo nemmeno consapevoli. Il mondo che abbiamo ereditato ci sta bene così, non gli abbiamo mosso nessuna critica, nemmeno spinti da quella naturale scintilla che dovrebbe essere il conflitto generazionale. Siamo cresciuti sugli allori, e da quegli allori non vogliamo scendere, anche se affondano le radici in una terra avvelenata. E così a questo Paese, a questa società così faticosamente tirati su dai nostri avi ma anche così pesantemente tarlati abbiamo scelto di non porre alcun riparo, stiamo troppo comodi nei nostri bei ventri di vacca che sono le nostre ricche case. Ma ecco che in questo totale smarrimento e svuotamento valoriale una sera a qualcuno, che ha affogato le insoddisfazioni generate da una società ormai incapace di offrire alcunché, bene una sera a questo qualcuno salta in mente di uccidere un poveraccio tanto per uccidere, per divertimento. E diventa un mostro. E tutti noi ci sconvolgiamo e lo additiamo appunto come mostro. Ma non è altro che il frutto dei tempi in cui viviamo. E a questo punto non si scappa: siamo noi che abbiamo ereditato questo mondo, noi che abbiamo scelto di non provare a cambiarlo o quantomeno a migliorarlo perché ci costava troppa fatica, e perché tutto sommato stavamo bene anche così, noi che ci siamo buttati a piene mani nei falsi valori di questa società materialista e capitalista ormai all’ultimo stadio. È su di noi che ricadono tutte queste colpe. Per tutto ciò non si può fuggire, e non c’è sconto. I mostri siamo noi.