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L’Ue ha solo screditato l’Europa

di Alain de Benoist - 20/03/2016

Fonte: Barbadillo



Alain de Benoist

Alain de Benoist

Signor de Benoist, che si sia a favore dell’Ue o euroscettici, un fatto è evidente: l’Europa va peggio che mai. Perché?

In effetti i segni si accumulano: la crisi dell’euro che perdura, il “no” dei Danesi al referendum del 3 dicembre, le ondate migratorie fuori controllo, la rabbia sociale, gli agricoltori sull’orlo della rivolta, l’aggravamento delle prospettive finanziarie, l’esplosione dei debiti pubblici, l’ascesa del populismo e dei movimenti “conservatori” ed euroscettici. Si aggiunga la possibile secessione della Gran Bretagna, che chiaramente creerebbe un precedente. Jean-Claude Juncker l’ha già riconosciuto: il 2016 potrebbe essere l’”inizio della fine” dell’Unione europea. “Nessuno può dire se l’UE esisterà ancora fra dieci anni”, ha dichiarato dal canto suo Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo. “Rischiamo una rottura”, ha rincarato Michel Barnier. “L’Europa è finita”, ha concluso Michel Rocard. Tutto ciò dà il tono. L’Unione europea si disfa sotto i nostri occhi sotto l’impatto degli eventi. Sulla questione dei migranti, il papa Francesco recentemente ha opposto coloro che vogliono costruire muri a coloro che vogliono costruire ponti. Ha dimenticato che tra i ponti e i muri, ci sono le porte, che funzionano come le serrature: si può, secondo le circostanze, aprirle o chiuderle. La creazione dello spazio Schengen presuppone che l’Unione europea assicuri il controllo delle sue frontiere esterne. Poiché non ne è in grado, l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Danimarca, l’Austria, la Slovacchia, la Slovenia, la Croazia, la Serbia, la Macedonia e anche il Belgio stanno ristabilendo, gli uni dopo gli altri, il controllo delle loro frontiere interne o a limitare drasticamente gli ingressi di “rifugiati” sul proprio territorio. Ciò significa che l’area Schengen è già morta. Voler costruire solo ponti, è condannarsi, a termine, a erigere solo muri.

L’inizio degli anni Novanta del secolo scorso ha visto la fine del tacito consenso dei cittadini in merito al progetto di integrazione comunitaria. Attualmente, solo un terzo degli europei afferma di aver fiducia nelle istituzioni europee, sia che soffrano la crisi (nei Paesi del Sud), sia che temano di essere colpiti a loro volta (nei Paesi del Nord). Dall’Europa ci si aspettava l’indipendenza, la sicurezza, la pace e la prosperità. Si è avuta la sottomissione all’interno della NATO, la guerra nei Balcani, la deindustrializzazione, la crisi agricola, la recessione e l’austerità. Da qui il senso di espropriazione che colpisce tutti i popoli.

I sovranisti potrebbero gioire dell’attuale rinascita delle nazioni, ma non si tratterà del ritorno degli egoismi nazionali?

L’attuale ritorno alle frontiere non è che una piega temporanea che non corrisponde affatto a una rinascita dello Stato-nazione. Tutti i centri decisionali dei Paesi europei restano nelle mani di organismi internazionali, il che significa che la loro sovranità (politica, economica, militare, finanziaria, di bilancio) è solo una “verniciatura”. Inoltre, non c’è un rimprovero rivolto all’Unione europea che non si potrebbero indirizzare anche agli Stati-nazione. Il deficit democratico delle istituzioni europee, per esempio, non è che solo un esempio della crisi generale della rappresentanza che colpisce oggi tutti i Paesi, parallelamente a una crisi fondamentale della decisione che si ritrova a tutti i livelli.

Era ineluttabile?

Il maggiore rimprovero che si possa fare all’Unione Europea, è quello di aver screditato l’Europa. L’Europa attuale è, infatti, tutto meno che un’Europa federale, ed è per questo che non è in grado di unirsi nel rispetto della molteplicità dei “noi” nazionali, vale a dire delle esistenze collettive che esistono al suo interno. Non ha mai voluto costruirsi come una potenza autonoma, ma come un grande mercato, una zona di libero scambio tenuto per organizzarsi secondo il principio esclusivo dei diritti dell’uomo, senza legame collettivo né fedeltà a una cosa comune. Si è realizzata, fin dall’inizio, a partire dall’economia e dal commercio invece di realizzarsi a partire dalla politica e dalla cultura. L’idea di fondo era che, per una sorta di effetto a cascata, la cittadinanza economica avrebbe trascinato ineluttabilmente la cittadinanza politica. E’ accaduto il contrario.

In conformità con i diktat del “senza frontierismo” liberale, l’Europa ha voluto unificarsi in una prospettiva “universale”, riferendosi a nozioni astratte, senza alcun ancoraggio culturale o storico che potesse dare un senso per i popoli. Lungi dal proteggere gli europei dalla globalizzazione, l’Unione europea è diventata così uno dei suoi principali vettori. Al posto di cercare di far emergere una volontà politica comune fondata sulla coscienza d’un destino unico, ha scelto di aprirsi al mondo senza rendersi conto che non ci si può adattare alle circostanze esterne senza possedere un principio interiore. Lungi dal situarsi nella prospettiva di un mondo multipolare, si è messa al servizio di una “religione dell’umanità”, prefigurando così un ordine cosmopolita fondato sulla universalizzazione della democrazia liberale (un ossimoro del quale il senso esatto è la sottomissione delle procedure democratiche al sistema di mercato).

Il dramma è che più le politiche che la Commissione europea realizza falliscono, più si ostina a perseverare nella stessa opera, convinta com’è che tutto crollerà se si dovesse interrompere la sua fuga in avanti. Non si sfuggirà quindi a questa fuga in avanti. Né al crollo.

Intervista apparsa su Boulevard Voltaire (bvoltaire.fr) a cura di Nicolas Gauthier [Traduzione di Manlio Triggiani]