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L’Italia: il Paese delle lacrime di coccodrillo

di Francesco Colaci - 18/04/2016

Fonte: L'intellettuale dissidente


La gente protesta, si lamenta delle proprie condizioni sociali, critica l’operato dei governanti ma prova disgusto nei confronti del voto e dell’attivismo politico. Un popolo che vuole il bene dello Stato e desidera il cambiamento, ma senza creare i presupposti per conseguirlo: questa è l’Italia, un Paese di contraddizioni, ove il disagio sociale incontra la cittadinanza passiva.

  

Gemiti e lamenti caratterizzano da sempre l’umore inquieto dell’italiano medio, infelice delle proprie “tasche”, della propria storia, come della situazione politica nazionale e internazionale. Di fatto, tuttavia, cosa fa il popolo d’Italia per innescare un’inversione di tendenza? Ben poco, considerato che a essere “attivo” politicamente o socialmente è uno strato molto esiguo della popolazione. Si tratta, per lo più, di studenti, lavoratori del settore pubblico, anziani e veterani attivisti, un tempo partecipi delle lotte studentesche. Oltre queste fasce, non si riscontra un coinvolgimento di massa, pari, per esempio, a quello registrato in Italia fra gli anni ’60 e ’80 del Novecento, epoca caratterizzata da una forte  politicizzazione della vita sociale.

Il Paese viveva, all’epoca, una forte contrapposizione dialettica fra le culture della sinistra progressista/comunista e la destra d’ispirazione fascista/nazionalsocialista. Ciò era dovuto all’esistenza di un forte senso di comunità e appartenenza, che permeava la psicologia collettiva dei cittadini, sociologicamente attribuibile alla forte connotazione provinciale che caratterizzava l’identità dell’uomo italiano del XX secolo. Individualismo e indifferenza erano peculiarità decisamente meno accentuate rispetto alla modernità, dove regnano e hanno la precedenza le distrazioni del singolo. Distrazione è, infatti, quella offerta dalla falsa politica, che elargisce panem et circenses a cittadini educati poco o male, inevitabilmente più vulnerabili al processo di narcotizzazione della cittadinanza politica. L’italiano di oggi, salvo sporadiche eccezioni negli ambienti culturali o dell’impegno sociale, prova un totale disinteresse nei confronti dell’amministrazione e della situazione dei luoghi pubblici o delle istituzioni a lui vicino. Qualora gli venisse proposto un briciolo di partecipazione, o solamente una consultazione elettorale, egli non risparmierebbe critiche grossolane e frutto di ignoranza e pregiudizi. Non a caso, si tende a confondere l’essenza semantica della parola “Politica”, spesso scambiata per il concetto di parlamentarismo o partitismo, i quali costituiscono soltanto alcuni degli aspetti che la caratterizzano. L’attivismo politico e civile, invece, sono le peculiarità fondamentali della cosiddetta “Politica”, la quale non a caso è prima di tutto “Polis”, ovvero “città”, ovvero “pubblico”, ovvero “quotidiano”. Finché questa dimensione non sarà interiorizzata dai singoli, sarà impossibile creare le condizioni adeguate per l’acquisizione di una “Societas” realmente partecipativa.

Lo stesso Gramsci parlava della situazione difficile dell’Italia, in grande svantaggio rispetto ad altre nazioni, dal momento che, rispetto a Paesi quali Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, non ha vissuto un processo unitario partecipato dal basso. Si è trattato, invece, di un’unificazione pianificata dalla borghesia industriale del Nord e dall’aristocrazia agraria del Sud, con la complicità di un esiguo movimento risorgimentale, al quale certamente non hanno preso parte le migliaia di contadini che popolavano il Sud. Questi ultimi, al contrario, hanno subito gli effetti fiscali della durissima legislazione piemontese dell’Italia post-unitaria, instillando odio nei confronti degli agricoltori stessi e dei lavoratori umili. Questa “ferita” ha dunque segnato la memoria della povera coscienza civile italiana, la quale non percepisce una dimensione di appartenenza esterna al proprio nucleo familiare, retaggio culturale di grande valore nella civiltà latina.

Considerate le premesse storiche, è dunque plausibile l’ipotesi di una genesi passiva della cittadinanza politica italiana. Tuttavia, ciò non è più giustificabile, dal momento che il Paese possiede gli strumenti e le risorse per contribuire alla formazione di una coscienza popolare. Nessun altro stato europeo subisce gli attacchi sociali di presidenti tecnocrati e non eletti, alcuna nazione ha ingoiato tacitamente leggi che aboliscono il diritto alla stabilità lavorativa, dunque esistenziale, nessun altro popolo, nel vecchio continente, ha dovuto considerare l’ipotesi di fronteggiare misure antipopolari attraverso innumerevoli referendum.

E’ evidente il fatto che vi siano problemi nel “Bel Paese”, questioni le cui cause siano riconducibili a responsabilità esterne alla stessa Italia, come tuttavia esistono motivazioni che dipendono esclusivamente dal cittadino. Se un individuo si astiene, non soltanto in termini di scelte elettorali, ma anche dalla scelta di tipo referendario, ciò spesso avviene per motivazioni futili e superficiali. L’astensione non potrà non essere considerata come una colpa, oltre che una dimostrazione di immeritata acquisizione del diritto al voto stesso.

In fondo, basta avere una disponibilità economica, poter ambire al divertimento nei locali e mangiar bene perché politica, cultura e ambiente non contino più nulla. Come direbbero in molti fra i seguaci del qualunquismo: “l’importante è la salute”.