La "rivoluzione liberale" anti-europea, ossia la formazione di un'opinione pubblica "liquida"
di Paolo Borgognone - 21/04/2016
Fonte: Arianna editrice
Il “cambio di fase” del capitalismo ed il suo approdo ad una dimensione speculativo-assoluta ha visto mutare anche gli strumenti con i quali s’impone e si afferma, a livello globale, una mentalità neo-capitalistica, soggetta ai dogmi culturali ed agli stereotipi comportamentali funzionali alla perpetuazione di un ordine mondiale fondato sul dominio speculativo di mercati e mode. Nell’ambito del “cambio di fase” di cui sopra, le menti ed i cuori del pubblico occidentale, pubblico televisivo e consumatore di format ultrapoliticizzati, tesi alla sua definitiva e non del tutto inconsapevole alienazione, non si conquistano più attraverso la propagazione mediatica di un’ossessiva isteria anticomunista bensì tramite il tentativo di persuasione dell’illimitata bontà del sistema occidentale, superiore in quanto liberale, “tollerante” e “senza frontiere” rispetto a modelli di sviluppo definiti “chiusi”, ossia portatori di un modus pensandi maggiormente improntato alla strutturazione su basi tradizionali gerarchiche e su scale di valori non del tutto allineati al dogma di fede della primazia dell’economia finanziarizzata sulla politica e sui vincoli nazionali e sulla primazia della società virtualizzata ed aperta su qualsivoglia retaggio tradizionale, patriottico e socialista, definito sempre e comunque “fuori dal tempo” e dalla “storia”. Sulla scorta di quanto propugnato dalle tesi di Francis Fukuyama e Toni Negri, un’indistinta massa di consumatori desideranti globalizzati si sarebbe sostituita ai popoli, agli Stati, alle nazioni, alle culture tradizionali, ai movimenti di liberazione patriottici e socialisti, percepiti come ostacoli all’affermazione senza tempo, senza limiti e senza futuro, di un governo mondiale delle banche, delle mode e delle industrie del divertimento giovanilistico senza frontiere. La differenza tra la “tesi Fukuyama” e la “tesi Negri” consiste nel fatto che il liberal nippo-statunitense indicava appunto nel “consumatore globale” cittadino del mondo l'homo novus, l'uomo nuovo che si sarebbe imposto come attore sociale unificato nell'ambito delle dinamiche di espansione illimitata, dopo il 1989, della cosiddetta “democrazia liberale” occidentale mentre il liberale camuffato da comunista estremista Toni Negri indicava nel magma indistinto ed unificato delle «moltitudini comuniste globalizzate» l'uomo nuovo. Da un lato dunque, Fukuyama concentrava la propria riflessione sul consumatore come soggetto globalizzato cui era concesso l’accesso illimitato alla società dei consumi e dello spettacolo a patto che potesse permettersi, dal punto di vista economico e di status, le risorse (materiali ed immateriali) per entrare a far parte del “sistema”. Dall’altro, Negri indicava nell’atomizzata moltitudine desiderante l’attore politico in grado di «spazzare via i crudeli regimi del potere moderno e incrementare i potenziali di liberazione»[1], ossia di uniformazione planetaria alla forma mentis cosmopolita, antinazionale e neo-borghese, «basata però sull’antropologia del desiderio e sulla foucoultiana dissoluzione del soggetto: il “nemico” non è individuato nel capitalismo come luogo dell’alienazione universale, ma nel potere, nel gendarme francese ispirato alla razionalità cartesiana ed all’autoritarismo degaulliano»[2]. In definitiva, la differenza tra l'aedo del capitalismo sans frontières Fukuyama e l'anarco-libertario Negri, «risiede soltanto nel fatto che, figli della stessa antropologia del desiderio, il primo è disposto a pagare per consumare, mentre il secondo aspira al consumo senza il pagamento»[3]. La costruzione di un immaginario collettivo centrato sul primato etico, politico, economico e sociale dell'homo globalis è il frutto della riproduzione, in ambito culturale, dei meccanismi liberisti tipici dei rapporti di produzione capitalistica. In una sua pubblicazione del 1995, lo storico Bruno Bongiovanni parlò apertamente di «facili abiti mentali liberisti»[4] indossati da parte dei cittadini dell'Europa centrorientale ex-socialista e dell'Urss in via di smantellamento, dopo il “fatidico 1989”. Il modello di riferimento ideale cui avrebbe dovuto ispirarsi l'homo globalis era l'«american dream», il “sogno” della classe media americana quale orizzonte cui confinare le proprie velleità di ascesa sociale individuale. La società dei consumi e dello spettacolo si sarebbe realizzata attraverso l'imborghesimento individualistico della forma mentis delle classi popolari, i nuovi consumatori indistinti sul mercato globale delle mode e dei desideri. Scrivevano, a riguardo dei processi di imborghesimento delle nazioni e dei popoli conquistati al modo di produzione capitalistico, Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del partito comunista:
La borghesia, con il suo sfruttamento del mercato mondiale, ha strutturato in modo cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i Paesi […]. La borghesia trascina tutti, anche le nazioni barbariche, nella civilizzazione per mezzo del rapido miglioramento degli strumenti di produzione e la comunicazione estremamente facilitata. I bassi prezzi della sua merce sono l'artiglieria con la quale rade al suolo tutte le muraglie cinesi […]. Obbliga tutte le nazioni ad adeguarsi al modo di produzione della borghesia se esse non vogliono andare in malora; le obbliga ad accettare la cosiddetta civilizzazione, cioè insomma a diventare borghesi. In una parola, essa crea un mondo a propria immagine e somiglianza[5].
L’“uomo globale”, l’indistinto “cittadino del mondo”, è la trasposizione sociale, il frutto avvelenato, se così si può dire, del “cambio di fase” del capitalismo, da una dimensione antitetico-dialettica (dicotomia borghesia/proletariato) ad una speculativo-assoluta e di mercificazione totale (postborghese e postproletaria). Un capitalismo culturalmente privo di classi sociali e dove i ceti subalterni hanno assunto i connotati ideologici, la forma mentis, di una nuova ed illimitata borghesia cosmopolita e giovanilistica, non definibile pertanto su livelli unicamente sociologici (la borghesia intesa come classe sociale) o economici (la borghesia intesa come ceto benestante che sta “nel mezzo” della famosa piramide sociale) bensì come soggetto politico ed attore sociale individuabile secondo criteri di riferimento prettamente ideologici (le velleità di far parte della “nuova classe media globale”). Lo storico Oliviero Bergamini ha sintetizzato con efficacia il mito mediatico americano della “nuova classe media” come modello politico e sociale di riferimento per l'affermazione, su scala mondiale, del tipo sociologico unificato denominato homo globalis:
Indubbiamente, tra la fine della guerra e gli anni Sessanta gli Stati Uniti sperimentarono un nuovo boom economico, che in tutto il mondo sembrò testimoniare la superiorità del modello americano […]. Il prodotto interno lordo crebbe a tassi elevatissimi […]. Durante gli anni Cinquanta i salari [americani] aumentarono, a una media del 3,3 per cento annuo tra il 1948 e il 1956, e dell'1,3 per cento tra il 1956 e il 1963. Ciò consentì alle famiglie di acquistare case, automobili, elettrodomestici, arredamenti, abiti, ma anche di andare in vacanza e di dedicarsi a nuovi consumi quali musica (con i nuovi dischi a 45 giri), vacanze, fast food, riviste a grande diffusione e gadget come l'hula hop. Gli anni Cinquanta videro l'affermarsi definitivo di una «civiltà dei consumi» costantemente alimentata dalla pubblicità […]. La classe media [in tale contesto, nda] fu elevata a protagonista assoluta della vita nazionale. Pubblicitari, sociologi, scienziati, politici si diedero a studiarla e a magnificarla, proclamandone la centralità sociale, economica e politica, identificando nella sua espansione e nella sua (presunta) omogeneità l'avverarsi del mito americano di una società senza classi e senza conflitti[6].
La struttura di classe scaturita da una società massificata non poteva che essere caratterizzata, proprio in virtù del generalizzato addomesticamento al modello consumistico-pubblicitario totalitario e totalizzante, dal diffuso consenso pubblico, del pubblico-consumatore, nei confronti del capitalismo produttore di merci, gadget e, con l'avvento della televisione, immagini informatizzate. La classe media era il bacino di consensi privilegiato del regime pubblicitario. Già negli anni Cinquanta del secolo XX, andava così delineandosi, negli Usa, sull'onda dell'atomizzazione consumistica dilagante,
una «società del consenso», in cui la maggior parte della popolazione non contestava la distribuzione del potere, era contenta di cercare la propria realizzazione personale nel lavoro e nell'innalzamento progressivo del proprio tenore di vita, aveva valori certi e una solida fiducia nelle proprie autorità politiche[7].
Attorno allo stereotipo dell’homo globalis, il “consumatore desiderante senza frontiere”, si articola la tripartizione funzionale delle classi sociali del nostro tempo:
- una Nuova Classe Globale Finanziarizzata ai vertici della piramide sociale (i bellatores) del nostro tempo;
- una Nuova Classe Media Globale o “circo mediatico”, pretoriana o guardia bianca della prima, nel mezzo (gli oratores del nostro tempo);
- una indistinta “moltitudine desiderante” (di ottenere l’accesso al ceto sociale superiore) completamente uniformata alla cultura televisiva dominante, alla base.
L’homo globalis è l’attore sociale del processo di virtualizzazione dei rapporti politici, di classe e relazionali. L’homo globalis è portatore di una cultura di riferimento prettamente televisivo-commerciale (homo videns) ed utilizza la rete internet quale strumento di mediazione al fine di ottenere l’accesso al “circo mediatico”, alla società dello spettacolo, dell’immagine, del protagonismo del proprio ego narcisistico. Tra la fase finale del XIX secolo e la fine degli anni Settanta del XX l’accesso alla società dei produttori si otteneva, da parte dell’attore sociale del tempo (l’homo oeconomicus) attraverso strumenti d’integrazione di massa quali erano i partiti, i sindacati, ecc. Oggi che la società non è più di produttori ma di consumatori si ottiene l’approvazione sociale attraverso il protagonismo di se stessi nell’ambito di un modello di relazioni politiche e sociali dettato dalla pubblicità. La televisione come mezzo di comunicazione di massa fu infatti, a partire dagli anni Cinquanta del secolo XX, il vettore attraverso cui si costruì la nominata «società del consenso» americano, senza classi e potenzialmente in costante espansione, costruita attorno allo stereotipo sociologico dell'homo videns. Infatti,
la televisione tende a rappresentare un mondo fondamentalmente armonioso ed ottimista, fatto di vite medie e di piccoli eventi privati perché questo è il contesto migliore per creare nello spettatore il buying mood che consente di inserire efficacemente la pubblicità. Lo strumento e il simbolo più importante di questo orientamento sociale e psicologico [consumistico-conformistico-pubblicitario, nda] fu la televisione. Gli anni Cinquanta videro la televisione sostituire rapidamente la radio come mezzo primario di comunicazione collettiva; essa divenne un elemento centrale nella vita delle famiglie, capace di intrattenere e divertire, di alimentare sistematicamente i consumi attraverso la pubblicità, di codificare e rafforzare i valori dominanti, proponendo un'immagine della società edulcorata e semplificata da cui minoranze, dissidenti, ceti operai erano sostanzialmente esclusi[8].
La tv commerciale fu, tra gli anni Ottanta del secolo XX e l’avvento della società dell’internet, l’intermezzo mediatico, il persuasore[9], attraverso cui modellare, con l’entusiastica adesione dei “modellati”, al processo di omologazione alla cultura della visibilità mass-mediatica, la sostanziale maggioranza dei cittadini-consumatori occidentali. È davvero interessante notare, attraverso le parole del sociologo della comunicazione Marino Livolsi, scritte nel 1998, prima dell'avvento della società dell'Internet, come l'influenza del medium tv commerciale abbia mutato in senso prettamente consumistico ed individualistico l'immaginario collettivo, contribuendo in maniera significativa a rimuovere l'idea stessa di “frontiera”, di “limite”, di “confine” dall'orizzonte psicologico del singolo individuo-merce e delle nascenti reti individualizzate di consumatori di immagini:
Chi vive immerso nella società televisiva ha imparato a navigare nello spazio dell'immaginario alla ricerca di ciò che piace, di ciò che gli fornisce immediate gratificazioni. Si è liberi di sognare i luoghi in cui si vorrebbe stare, vivere le situazioni nuove e gratificanti, quelle che non richiamano la complessità ed il grigiore della vita quotidiana, ciò che norme e vincoli ci obbligano a fare. Quando si naviga nel mondo dell'immaginario ci si dimentica da dove si è partiti, dalla realtà e quotidianità in cui si era immersi fino a un istante prima. Questo ingenuo navigatore (che ha fratelli più giovani che si comportano allo stesso modo, ascoltando solo musica) si lascia alle spalle i confini sempre più incerti del reale[10].
La tv commerciale dunque come non-luogo privilegiato di evasione dalle difficoltà e dalle asprezze della vita quotidiana e di “rifugio nel privato”, di privatizzazione dei rapporti sociali, politici, affettivi, interpersonali. Un “non-luogo” contraddistinto dallo sconfinamento del sentire comune dei cittadini verso la dimensione a-spaziale ed a-temporale dell'iperrealtà, proprio nell'ottica di una dinamica di spettacolarizzazione della quotidianità, una sorta di imitazione perpetua del modello comunicativo fondato sullo stereotipo commerciale della “bella vita” dei protagonisti di sceneggiati, fiction, soap opera e serial tv. Scrive, a riguardo, Marino Livolsi:
Il telenauta [infatti, nda] predilige soprattutto lo spettacolo: ciò che diverte, commuove, fa provare emozioni forti […]. Del resto, in quest'epoca, la vita si trasforma in spettacolo anche quando non appare in tv. I giovani vanno in discoteca a celebrare i riti neotribali […]. Signore più o meno giovani si vestono, tra trasparenze e ammiccamenti, per sentirsi ammirate, non importa se come oggetto di desiderio o d'invidia. Uomini e donne, stranamente acconciati, volano per migliaia di chilometri, per fare vacanze esotiche, e recitano per se stessi o per chi è nei loro stessi villaggi e, idealmente […], per chi è rimasto a casa, la parte dei «belli e ricchi» proprio come lo hanno visto tante volte nelle storie televisive o nelle pagine dei rotocalchi. Le telenovelas ispirano anche le trame e, a volte, i dialoghi di molte storie d'amore dove lui o lei «giocano la parte» vista in un film o si comportano secondo modelli d'ispirazione televisiva […]. Dove finisce la realtà e inizia l'immaginario televisivo?[11]
Oggi i telefilm americani per adolescenti e la pop music di Mtv hanno sostituito, dagli schermi televisivi e dalla galassia virtuale dell’internet, i dispositivi di costruzione del consenso di massa attorno a determinati progetti di trasformazione politica e/o sociale, tipici dei sistemi ideocratici anti-liberali a partito unico del secolo XX[12], nell’opera di persuasione delle nuove generazioni tesa a veicolare l’idea che solo ed esclusivamente all’interno delle strutture mentali e negli atteggiamenti consumistici tipici della (invero declinante dal punto di vista delle risorse economiche pro-capite a disposizione) classe media americana della East e della West Coast, possa risiedere la virtù ed il privilegio della “libertà”. Il totalitarismo liberale occidentale odierno è centrato su di una dimensione prevalentemente mediatica e non necessariamente repressiva. Attraverso il medium televisione commerciale fu veicolato, presso l'opinione pubblica occidentale, l'idea che le libertà degli individui e delle nazioni coincidessero con le cosiddette libertà economiche delle multinazionali americane detentrici e controllori delle corporation dell'informazione. Scrive a riguardo Oliviero Bergamini:
Dietro la retorica della difesa e diffusione della libertà, la politica americana andò appiattendosi sempre più sugli interessi economici, specie quelli delle maggiori aziende. «Ciò che è buono per la General Motors è buono per l'America, recitavano i massimi dirigenti della corporation, divenuti ministri. E l'influenza dei grandi interessi andò accentuandosi sia attraverso pressioni lobbystiche sulle amministrazioni e finanziamenti a partiti e candidati, sia come imprinting culturale assimilato dalle classi dirigenti[13].
Per far sì che l'imprinting aziendale delle classi dirigenti nordamericane divenisse l'imprinting culturale dell'opinione pubblica occidentale nel suo complesso, occorreva che tale opinione pubblica, segnatamente nei suoi settori “medi”, poco propensi all'impegno politico e dal senso critico facilmente conquistabile ai cliché di una società fondata sull'assenza di conflitti e sul “benessere” economico individuale, cominciasse ad “amare l'America”, in particolar modo identificando i propri orizzonti di affermazione personale, d'integrazione e di approvazione sociale con il favolistico microcosmo pubblicitario e filmico promosso dai telefilm made in Usa esaltanti la “normalità” di una middle class urbana anni luce distante da qualsiasi impegno di tipo politico e volontaristico non rivolto al consolidamento del proprio conformistico status piccolo-borghese. Scrive a riguardo Oliviero Bergamini, illustrando l'esempio tipico di tale realtà filmica, tesa a costruire nel pubblico-consumatore di immagini una vera e propria cultura della fiction televisiva seriale:
La popolare serie televisiva Happy Days riassume emblematicamente l'immagine convenzionale della società americana degli anni Cinquanta. A Milwaukee, città del Midwest, in una villetta di sua proprietà, vive una famiglia bianca di classe media. Il padre è un commerciante, epigono dell'individualismo economico americano. Lui e i suoi famigliari vivono nel comfort assicurato da un buon reddito, possiedono auto, televisione, giradischi; i figli escono spesso per andare al cinema o al fast food. La madre è una casalinga soddisfatta, che si prende cura di tutta la famiglia. I piccoli conflitti che animano le puntate pertengono esclusivamente alla sfera privata, e vengono risolti con buon senso e ironia, senza mai mettere in discussione gli assetti sociali e costituiti. Nel telefilm non c'è traccia di operai (che pure erano numerosi nella Milwaukee degli anni Cinquanta) e tanto meno di neri o di altre minoranze razziali (se si eccettua qualche personaggio caricaturale). Quella che viene rappresentata è una società ricca, soddisfatta di sé, priva di contrasti, omogenea, serena[14].
La serie televisiva Happy Days fu trasmessa negli Usa dal 1974 al 1984 e rappresentò un'immaginaria linea di faglia tra la costruzione di un'Idea di America funzionale all'affermazione ed al consolidamento di un capitalismo antitetico-dialettico e la transizione verso un capitalismo assoluto, di mercificazione totale. Il capitalismo esaltato dal telefilm Happy days si basava infatti sull'egemonia politica, sociale, economica e culturale di una borghesia conservatrice, benpensante, timorata di Dio e che identificava se stessa nell'edificazione di una nazione culturale fondata sul mito del benessere conquistato, da parte del capofamiglia maschio, bianco e lavoratore autonomo, “con il duro lavoro” e “senza l'aiuto di alcuno”, in perfetta continuità con l'opera di colonizzazione del padre pellegrino, che rifiutava lo Stato (identificato con la lontana Gran Bretagna) quale straniero oppressore intento ad imporre imposte e restrizioni alla “libera impresa” nel nome di un re assente ed inviso, e costruiva la “nazione” quale espressione culturale e patria di una borghesia proprietaria familistica bianca come unica classe sociale detentrice di diritti politici e nazionali. Questo particolare passaggio del processo di civilizzazione capitalistica (1945-1975), strutturato attorno alla centralità socio-politica e culturale di una borghesia conservatrice, tendenzialmente maschilista e dagli atteggiamenti ipocritamente moralistici, produceva, paradossalmente, ostacoli e fattori di resistenza alla successiva affermazione di un modello di mercificazione capitalistica assoluta, senza confini, limiti e frontiere, la mondializzazione capitalistica accelerata nelle sue dinamiche di espansione globale, a partire dalla fine degli anni Settanta del XX secolo. È importante notare più da vicino le contraddizioni interne a questa middle class americana conservatrice ed annoiata, frustrata e percorsa da non trascurabili elementi di auto-repressione ed inibizione delle istanze “affluenti” che le proprie possibilità di censo le avrebbero permesso, ma che il complesso di riferimenti etico-politici cui faceva riferimento le impedivano di portare a termine:
La vita nelle villette unifamiliari dei suburbs scorreva spesso solitaria e noiosa, e né la cura della famiglia né il dedicarsi ai riti del consumismo femminile (dallo shopping alla lettura di riviste sui divi del cinema) potevano risultare appaganti. Durante gli anni Cinquanta sulla società americana gravò in verità una pesante cappa ideologica, con tratti autenticamente repressivi. Il maccartismo e l'anticomunismo […] finirono col criminalizzare ogni forma di dissenso, e contribuirono a una rinascita, soprattutto nel Sud e nel Medio Ovest, di una religiosità bigotta, retriva e intollerante. Soprattutto nei suburbs delle piccole città il moralismo dilagò, colpendo i comportamenti «indecenti» con le armi della riprovazione e dell'esclusione sociale[15].
Il conflitto politico, sociale e culturale degli anni Sessanta e gli eventi che ad esso seguiranno contribuirà alla mutazione antropologica della borghesia in un ceto medio globalizzato, “affluente” e cosmopolita. Già negli Stati Uniti, gli anni Cinquanta segnarono, a livello giovanile, l'esplosione di tutta una serie di «atteggiamenti ribellistici copiati da divi del cinema come James Dean, e spesso associati a precisi stili di vestiario»[16]. La «cultura giovanile»[17] degli anni Sessanta, lungi dal contribuire ad un processo di trasformazione della società in chiave anti-capitalistica, fuse in essa «nuovo consumismo e segnali di insofferenza al clima conformista del periodo»[18]. In Europa, il Sessantotto (scritto in lettere e non in cifre, al fine di separare l'ideologia caratterizzante i movimenti ed i soggetti sociali animatori di quell'esperienza politica dagli eventi storici realizzatisi del 1968) costituì una tappa rilevante nel passaggio ad una società dell'informazione fondata su modelli culturali ultra-capitalistici. Il Sessantotto, infatti, paradigma politico «vissuto soggettivamente dalla stragrande maggioranza dei suoi partecipanti come rivitalizzazione della rivoluzione comunista, in realtà [fu un] momento di modernizzazione postborghese del costume, [nel senso che] quest'aspetto finirà, sul medio periodo, con il diventarne l'aspetto principale»[19]. Il filosofo Costanzo Preve definisce infatti il Sessantotto «il mito di fondazione di un nuovo capitalismo postmoderno, postborghese e postproletario, in cui abbiamo una liberalizzazione postborghese dei costumi, fatta passare per rivoluzionamento sociale»[20]. Affermò a riguardo Preve:
Il 1968 è l’anno internazionale della contestazione studentesca, ed appare ovviamente come un anno di sinistra. Dipende ovviamente da come lo si interpreta. Personalmente, in accordo con il francese [Gilles] Lipovetsky, tendo a vedere globalmente il Sessantotto come un episodio cruciale della storia dell’individualismo moderno, in cui una contestazione nichilista ed anarcoide della morale vetero-borghese fu scambiata erroneamente (Marx avrebbe detto “con falsa coscienza necessaria”) per un attacco utopico complessivo all’intero modo di produzione capitalistico. Balle. Più serie furono le lotte operaia italiane (ma anche europee) del periodo 1967-1974, che non ebbero però in nessun momento un carattere rivoluzionario antisistemico […]. Si trattava di oneste lotte sindacali di tipo socialdemocratico di “integrazione” nella normale società dei consumi piccolo-borghese europea. Ancora più serie furono le transizioni di Paesi fascisti o semi-fascisti (Grecia 1974, Portogallo 1974, Spagna 1975) verso la normale democrazia pluralistica, il migliore involucro possibile che il capitalismo possa augurarsi[21].
Il Sessantotto dunque, secondo Preve, come movimento anti-borghese, ossia di critica alle ipocrisie in ambito sessuale ed al bigottismo dei benpensanti da parte degli intellettuali radical-movimentisti ed anarco-libertari, ed ultra-capitalistico al contempo, perché teso «all'integrazione postmoderna del ceto intellettuale nelle strutture flessibili di un nuovo capitalismo “speculativo”, post-borghese, post-proletario e nello stesso tempo ultra-capitalistico»[22]. Il Sessantotto, sempre a detta di Preve, inverò la «separazione tra intellettuali e lavoratori. La separazione tra la critica economico-sociale del capitalismo, tipica dei lavoratori, e la critica alle ipocrisie sessuali e comportamentali della borghesia, tipica degli intellettuali. Il Sessantotto viene incontro alle esigenze degli intellettuali e chiaramente non a quelle dei lavoratori»[23]. Secondo Preve, il Sessantotto non fu «un grande movimento aurorale di critica sociale»[24], ma ebbe come proprio aspetto dominante «il passaggio ad una fase ultra-capitalistica»[25]. Sulla scorta del Sessantotto infatti, la sinistra ultraliberale e libertaria porta in avanti una politica improntata alla liberalizzazione incondizionata dei costumi che si configura come consona ad una società improntata alla mercificazione assoluta, in cui tutto è possibile, a patto di disporre delle risorse economico-finanziarie per potersene garantire l'accesso[26]. Gli anni Settanta, sempre a detta di Preve, debbono essere ricordati come «anni di ambiguità, come anni di compresenza tra istanze ancora dialettiche, ancora rivoluzionarie, e istanze di adattamento»[27]. Le istanze di adattamento al nuovo modello sociale ultra-liberale e fondato sulla progressiva egemonia di reti sociali individualizzate contenute nelle velleità giovanilistiche (la cosiddetta “controcultura”) del Sessantotto, si configurarono come il vettore principale dell'affermazione del nuovo ceto medio, disinibito, cosmopolita e parassita, base principale di sostegno e consenso al capitalismo di “terza fase”. Costanzo Preve ha descritto magistralmente questa nuova classe media globalizzata e gadgettizzata, la knowledge class e/o “circo mediatico” attorno ai cui gusti ruotava la produzione editoriale di riviste patinate e quotidiani liberali, la cui mission aziendale consisteva nel magnificare il ruolo politico, economico, militare e soprattutto culturale degli Stati Uniti nell'edificazione di un nuovo ordine mondiale fondato sul dominio speculativo delle mode e degli stili di vita dell'american way of life post-borghese e post-proletario. Questa borghesia di tipo nuovo, professionalmente impiegata nei settori del terziario, e del terziario avanzato, dei servizi “immateriali”, dell'editoria e delle comunicazioni, culturalmente orientata in senso americanocentrico e compulsivamente consumatrice-di-immagini, disinibita, libera da passatisti condizionamenti di matrice religiosa o politica, esterofila nel modo di gestire il proprio rapporto con lo spazio (non esistono più limiti, non esistono più barriere, non esistono più frontiere, fisiche, architettoniche e morali, etiche, tutti possibili fattori di ostacolo all’espansione illimitata della società dei consumi e dello spettacolo), puntinista nel modo di gestire il proprio rapporto con il tempo, «femminilizzata» nella gestione delle relazioni affettive/sentimentali, ma unificata nell'adesione all'american way of life quale fattore distintivo nel proprio percorso di affermazione, approvazione ed accettazione pubblica, vide l'inizio della sua parabola ascendente negli anni Ottanta del secolo XX, una volta che «il rigorismo anticonsumistico del Pci e dei sindacati»[28] fu vinto ed entusiasticamente sacrificato dai suoi stessi disillusi promotori di un tempo, via via trasformatisi nell'incarnazione politica dell'«ultimo uomo nicciano», sull'altare dell'accettazione incondizionata del libero mercato consumistico come unica via possibile per realizzare l'ego narcisistico individuale nell'ambito di una società pressoché totalmente mercificata. Gli anni Ottanta segnano il trionfo dell'ostentazione di una mondanità edonistica costruita ad arte per sbattere in faccia al “nemico comunista” d'Oriente, l'eterno “barbaro asiatico” da “convertire” ai fasti dello yuppismo affaristico trionfante in Occidente, la vetrina di un “mondo libero” perennemente attraversato da un interminabile carnevale mediatico. Gli anni Ottanta videro l'esplosione televisiva dell'entertainment, dei programmi volti all'esaltazione della vuota superficialità e del disimpegno come nuovo status commerciale del cittadino “inserito” in un insieme di relazioni sociali e politiche centrate sull'apologia del vuoto spinto. Gli anni Ottanta, con le loro riviste di gossip che immortalavano divi, starlettes e vip della nascente tv commerciale commistionati in un tutt'uno con gli elementi maggiormente in vista di una classe politica che tentava disperatamente di aggiornare il proprio lessico e confondere la propria immagine con quella degli imperanti divi delle copertine delle riviste patinate e degli schermi della tv commerciale (politica spettacolo), segnarono la cesura con il “trentennio glorioso” (1945-1975), il passaggio da una società di produttori basata sull'egemonia piccolo-borghese conservatrice ad una società di consumatori fondata sull'egemonia di una nuova borghesia “affluente”, parassita, edonistica, cosmopolita e priva di coscienza infelice. Scrive, a riguardo, il massmediologo Carlo Freccero:
Gli anni tra i Cinquanta ed i Settanta sono gli anni del boom economico e produttivo. Gli Ottanta riguardano il boom dei consumi frutto dell'edonismo reaganiano. C'è un ottimismo diffuso, una fiducia nel futuro, che la televisione generalista contribuisce a trasmettere, con la sua programmazione basata sull'intrattenimento e la sua dipendenza dal finanziamento pubblicitario […]. Il consumismo condiviso, l'amore per l'intrattenimento, il ballo, lo svago, sono stati gli elementi che hanno affossato la lotta di classe e l'atmosfera plumbea del terrorismo degli anni Settanta. Se tutti sono ammessi agli stessi consumi, vestono gli stessi vestiti, praticano gli stessi svaghi, condividono cioè stili di vita, non ci può essere lotta di classe[29].
A livello di immaginario televisivo, gli anni Ottanta furono caratterizzati dall'avvento delle soap opera americane, che la studiosa olandese Ien Ang riconobbe come «simbolo di una nuova epoca televisiva e sintomo della convergenza tra il capitalismo consumistico e la cultura popolare»[30]. La soap opera certifica dunque la fine della lotta di classe, attraverso il rinnovato desiderio delle classi popolari post-proletarie di entrare a far parte dell'insieme di riferimenti valoriali ed estetici dell'alta borghesia globalizzata della West o della East Coast americana. È in tale contesto di entusiastica sudditanza mediatica del pubblico-consumatore occidentale al format ed al lessico televisivo[31] della soap opera che si compie infatti il processo di involuzione antropologica del proletariato in “gente”. La “gente” è infatti un'indistinta massa sognante e spoliticizzata, totalmente priva di coscienza di classe ed intrappolata in uno stadio psicologico votato all'eterna adolescenza, essendo quella adolescenziale l'età della più fattiva proiezione consumistica e velleitaria dell'individuo. L'adolescente è inoltre il soggetto sociale maggiormente esposto al susseguirsi senza sosta di mode, stili di vita e costumi sociali dettati dalla pervasiva ed unificante logica del profitto pubblicitario sans frontières. A partire dai tardi anni Novanta del XX secolo, il pubblico-consumatore europeo poteva addirittura accedere direttamente al “sogno” di vivere, da protagonista di se stesso, l'esperienza della soap opera attraverso la partecipazione, naturalmente riservata a “pochi eletti” a fronte di masse oceaniche di aspiranti, al reality show “Il Grande Fratello” ed epigoni successivi. Deprivato della possibilità di decidere del proprio destino nell'ambito di un discorso collettivo d'integrazione politica nazionale, in quanto cittadino di uno Stato a sovranità azzerata, costretto a confrontarsi con le asprezze del vivere quotidiano in un contesto sociale moltiplicatore di frustrazioni e generatore perpetuo di insoddisfatte velleità di acquisizione di cose, beni immateriali e visibilità mediatica, l'individuo-atomizzato si trovava nella condizione di utilizzare il medium televisione commerciale quale veicolo per l'esibizione pubblica di una “seconda vita” (second life), totalmente immersa nelle dinamiche di rappresentazione dell'iperrealtà. A partire dal 2004, con l'irruzione dei social network quale surrogato dei tradizionali elementi di mediazione del conflitto politico e di classe, il “sogno” relativo alla “libera” partecipazione di ciascuno ad un reality show, vetrina del proprio ego narcisistico su scala globale, poteva dirsi definito e completato. Inoltre, il social network rendeva, “finalmente”, tutti quanti unificati neoborghesi cittadini del mondo americanizzato (McWorld) perché in rete le differenze nazionali e di classe non vengono percepite ed anzi sono bandite, asfaltate in una perpetua esibizione di mondana convivialità individualistica traboccante dai profili facebook dei singoli utenti/sorvegliati di quella che Julian Assange ha definito «la più grande polizia spionistica privata del mondo». Il social network è un passaggio fondamentale nel contesto della costruzione di una società globale virtualizzata modellata attorno agli stereotipi culturali e gli atteggiamenti edonistici della new global middle class, così come l'apertura indiscriminata delle frontiere politiche tra gli Stati nazionali, segnatamente dopo il 1989, significò una tappa privilegiata nell'ambito della costruzione del Nuovo Ordine Mondiale Neoliberale, basato sull'estensione illimitata del concetto di “libertà” di iniziativa, di impresa, di viaggio, di spostamento, di transazione incontrollata di cespiti finanziari da una parte all'altra del globo, mediante un semplice click. Infatti, come ricorda il filosofo francese Alain de Benoist, «malgrado l'esplosione dei blog, il modello dominante su Internet non è la creazione di contenuti, ma il consumo e il voyeurismo»[32]. Il social network è il portato mediatico maggiormente evidente del processo di affermazione di una società “liquido-moderna” e de-territorializzata, dove i legami sociali e nazionali dileguano nell'indeterminato spazio virtuale che costituisce il World Wide Web. Internet è espressione di un mondo unificato e dominato dalla potenza di fuoco multimediale delle tecnologie americane tese a rendere im-mediata la comunicazione digitale di massa. Attraverso l'adesione ai flussi del non-luogo universale e virtuale della rete mondializzata, il “popolo del Web” (la “gente 2.0”) di fatto assurge al ruolo di massa volontaristicamente subalterna al Nuovo Ordine Mondiale Neoliberale fondato sull'egemonia geopolitica mercantilistica e talassocratica a stelle e strisce. L'impero liberaldemocratico e talassocratico made in Usa (novella Atene, o meglio, novella Cartagine) si configura quale naturale avversario dell'impero tradizionalista eurasiatico tellurocratico (l'Unione Sovietica e la Russia, novella Sparta o meglio, novella erede e continuatrice della tradizione imperiale romano-bizantina e mongolo-turanica) e si fonda su di una rinnovata “società del consenso”, costituita dalle negriane «moltitudini desideranti globalizzate», espressione più vivida dei processi di sradicamento e di omologazione prodotti dalle travolgenti ed impetuose ondate di uniformazione planetaria, per via politica e militare (1989, rimozione del Muro di Berlino; 1991, smantellamento dell’Urss; 1999-2000, guerra del Kosovo e golpe in Serbia; 2003, aggressione occidentale all'Iraq; 2011; primavera araba, aggressione occidentale diretta alla Libia e per procura alla Siria; 2013-2014, golpe filoccidentale in Ucraina ed eventi successivi). Ogni fattore di resistenza a tali dinamiche di omologazione viene etichettato, non a caso, come un avversario dell'ideologia americana da esportare illimitatamente. Non ha forse il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, discepolo geopolitico dello stratega anti-russo Zbigniew Brzezinski, recentemente definito «la religione ortodossa orientale la principale minaccia alla civiltà occidentale»[33]? Il già citato Alain de Benoist ha riassunto con precisione il quadro di riferimento finora tracciato, sottolineando come la società prodotta dalla globalizzazione sia «una “società liquida”, nella quale le relazioni, le identità, le appartenenze politiche e persino le categorie di pensiero diventano nel contempo polimorfe, effimere e gettabili»[34]. In siffatto contesto di cyberspazio unificato, la de-territorializzazione diviene «la regola»[35] ed attraverso il passaggio ad una logica “terrestre” di codici ad una “marittima” di «trasmissioni di flussi»[36] ed ondate si invera una nuova forma di egemonia planetaria “talassocratica”, fondata sulla «logica del commercio e dello scambio, che va di pari passo con lo sradicamento»[37] e con la riproduzione seriale di masse alienate di cyber-furita, o «nomadi globali»[38]. Il nomade globale, o Uomo digitale, permeato da un complesso di valori libertari, cosmopoliti e centrati sulla logica delle libertà individuali quali fattore di primazia politica nei confronti di qualsivoglia elemento di “solidità” comunitaria (Stato, Nazione, Tradizione, Comunità Politica Organizzata, Socialità Partecipata), «è contemporaneamente dappertutto e in nessun luogo […]. Le masse anonime delle grandi città vivono in nuovi deserti»[39] e pertanto si configurano come il magma culturale mondialista di sostegno e supporto ai processi di estensione dell'economia finanziarizzata sans frontières. La società individualizzata e virtualizzata della comunicazione globale, abitata dall'Uomo global-digitale, è lo specchio mediatico della società della finanziarizzazione globale. Nel novero di un immaginario collettivo dominato dalla cultura televisiva ibridata alla crescente influenza, soprattutto a livello giovanile, della rete internet, e nell'ambito dei percorsi di commercializzazione e di privatizzazione dei rapporti politici, sociali e di classe, anche la relazione della “gente” mercificata con l'informazione andò incontro ad un progressivo slittamento sul terreno della spettacolarizzazione della notizia e del primato del pettegolezzo e del gossip sull'analisi e la riflessione. Gli anni Ottanta costituirono infatti, a cominciare dagli Usa per poi espandersi all'Europa atlantica, il banco di prova di un nuovo genere di consumo televisivo massificato: l'infotainment, commistione di informazione ed intrattenimento, dove quest'ultimo termine assumeva valenza preminente rispetto al primo. La strategia giornalistica del gossip come nuova frontiera dell'informazione ridotta a comunicazione di massa e reificazione della notizia, divenuta nel frattempo un prodotto da “vendere” sul mercato delle news 24 ore su 24, affonda infatti le proprie radici nella cultura politica degli Usa degli anni Ottanta, il periodo segnato dall'incedere dell'edonismo reaganiano e di una rinnovata offensiva geopolitica, economica, militare e mediatica, questa volta risultata essere, alla prova dei fatti, decisiva, contro l'Unione Sovietica, Paese definito, dal presidente-comunicatore-show man Ronald Reagan, «l'Impero del Male». L'era di Reagan fu interessata dunque da profondi mutamenti: nelle relazioni internazionali (costituzione, nel 1983, del National Endowment for Democracy come contraltare civile della Cia al fine di facilitare la politica del “golpe non-violento” nei Paesi da ricondurre nell'orbita di Washington), nel modo di produzione capitalistico (con il passaggio al capitalismo di “terza fase”, finanziarizzato) e nell'idea stessa di formazione ideologica delle masse attraverso lo strumento delle corporation dell'informazione. Scrive, riguardo a quest'ultimo punto, Oliviero Bergamini:
Gli anni Ottanta videro lo sviluppo di quello che Fabrizio Tonello ha definito fast food journalism, incarnato dal quotidiano «USA Today» e dalla rete all news CNN; un giornalismo che esalta l'immediatezza della notizia, la sua semplificazione e spettacolarizzazione, e che contribuisce quindi a far degenerare la politica nella polemica e nello slogan, a concentrarla su temi semplici e di forte impatto emotivo quali gli scandali, i delitti più clamorosi, gli eventi più «cinematografici»[40].
La tv commerciale e la società del gossip, da un lato incoraggiano e promuovono continuamente la proiezione edonistica dell'individuo come soggetto destinato immancabilmente a spendersi sul mercato delle relazioni para-sentimentali (Zygmunt Bauman ha parlato a riguardo di «usi postmoderni del sesso») e dall'altro utilizzano i cedimenti degli uomini politici a tale modello di integrazione nello spazio politico-mediatico pubblico, come arma di ricatto e di demonizzazione contro di loro rivolta. Basti osservare come, dopo il 25 maggio 2014, i due esponenti politici più temuti dalla tecnocrazia di Bruxelles e dai “mercati” internazionali per il loro imprinting “sovranista”, Nigel Farage e Marine Le Pen, siano stati oggetto di una campagna di delegittimazione fondata non su argomentazioni di ragionata critica dei programmi elettorali dei rispettivi partiti, tra l'altro usciti vincitori delle elezioni in Gran Bretagna ed in Francia, bensì su speculazioni giornalistiche riguardanti la solidità dei loro rapporti coniugali. Si vorrebbe che i politici fossero immancabilmente protagonisti di situazioni da soap opera, per costruire attorno alla loro figura un vero e proprio mercato degli scandali attraverso lo spostamento dell'attenzione collettiva dai programmi al pettegolezzo, dall'identità dei soggetti collettivi da tali politici rappresentati all'attenzione per la vita privata, abilmente spettacolarizzata ad arte, a scopo di volta in volta diffamatorio o apologetico, di costoro. È sufficiente osservare come è stata costruita, dai media liberali aziendali, in occasione della campagna elettorale per le europee 2014, la figura mediatica del premier italiano e leader del Pd, Matteo Renzi, definito dalla London School of Economics «pro-europeista e buon amico dell'America»[41] e quella della leader del Front National Marine Le Pen, “euroscettica” e buona amica della Russia. Renzi e la sua squadra di collaboratori che parevano usciti direttamente da un teen drama statunitense degli anni Novanta per adolescenti e post-adolescenti globalizzati, furono raffigurati come i politici “giovani”, “moderni”, “dinamici” ed open minded di cui l'Italia abbisognava da secoli, Marine Le Pen fu ripetutamente tacciata di essere la «figlia di un fascista», «fascista» a sua volta ed un'«antisemita». Le libertà consumistiche individuali hanno sostituito, con l’avvento della tv commerciale, del fast food journalism come metodo di trasmissione e diffusione della notizia, nonché della cultura neoborghese e libertaria del liberalismo politico americanocentrico postmoderno, la rivendicazione di diritti sociali, nazionali e collettivi quali effettivi fattori di emancipazione culturale, politica e nazionale. La libertà, nell’auspicato, dalle classi dirigenti speculatrici e dal “circo mediatico” occidentali, “secolo americano”, è la “libertà di consumare e di desiderare illimitatamente”. La tv non fa altro che rinfocolare questo stereotipo che trova humus e terreno fertile in una sterminata suburra («post-proletariato flessibile») completamente pervasa da una sotto-cultura televisiva individualistica, mercificata e degradata. È ovvio che laddove si è stabilita una nuova struttura di classe centrata su soggetti sociali perfettamente interni ad una dinamica di mediatizzazione totalitaria in chiave consumistica ed atlantista dei riferimenti culturali, politici e d’integrazione delle masse perfettamente addomesticate ai processi di globalizzazione, i media possano spacciare qualunque narrazione (storytelling) per analisi. L’economia è stata trasformata in finanza globale, il cittadino produttore/lavoratore in consumatore massificato postborghese e postproletario intento in un’ulteriore involuzione in senso virtuale dei propri orizzonti politici, sociali e relazionali, l’informazione in comunicazione, in spettacolarizzazione della notizia a fini commerciali. Perché allora ci si deve stupire nel momento in cui pressoché tutto il “circo mediatico” occidentale parla di «aggressione» ed «invasione» della Crimea da parte della Russia e la knowledge class (ceto medio semicolto) sostanzialmente ci crede o fa bellamente finta di farlo? È la naturale conseguenza di almeno 35 anni (ma già in parecchi elementi del movimento del Sessantotto se ne scorgevano i germi nocivi) di politiche culturali tese alla destrutturazione del soggetto kantiano, cartesiano, gaulliano... Non bisognava rovesciare de Gaulle in nome dell’“immaginazione al potere”? Non bisognava distruggere ogni forma di opposizione culturale (la coscienza infelice borghese...), politica e spirituale all’avvento di una società cosmopolita unificata e senza classi? Non diceva questo, quarantacinque anni fa, il leader dei sessantottini francesi Daniel Cohn-Bendit? E non dice, oggi, Cohn-Bendit, che occorre rovesciare Putin (e tutti i nemici dell’impero liberaldemocratico Usa) in nome dell’estensione illimitata del “sogno europeo”, ossia del “sogno americano” di una post-società (le moltitudini globalizzate ed individualizzate) mondiale senza classi, senza Stati, senza nazioni, senza religioni (in senso spirituale e non bigotto del termine) che non siano quelle del divertimento consumistico e privo di confini, nonché della destrutturazione di ogni rigidità (statale, nazionale, spirituale, militare, di solidarismo o pianificazione economica e così via)? La sinistra politica liberal e postmoderna è oggi infatti il principale apparato di riproduzione, a livello culturale, dell'ideologia mondialista dominante e del processo di flessibilizzazione integrale delle masse. Il giornalista tedesco Jürgen Elsӓsser ha notato che «mentre gli elogi di Toni Negri alla globalizzazione “in sé” continuano ad essere celebrati dai suoi adepti radicali di sinistra come “manifesto comunista del ventunesimo secolo”, le sue tesi riecheggiano negli ambienti ufficiali del centro-sinistra»[42] europeo. A tal proposito, Elsӓsser cita alcuni passi di una lettera aperta ai “no-global” scritta da Guy Verhofstadt, politico belga «presidente di una coalizione viola-verde»[43] e nel 2014 candidato alla presidenza della Commissione europea per l'Alleanza dei democratici liberali europei. Nella nominata missiva, Verhofstadt scriveva:
La vostra irrequietezza è giustificata […]. La risposta alle vostre domande, però, sta in più e non in meno globalizzazione [...]. In altre parole, non si deve frenare la globalizzazione, bensì accettarla eticamente[44].
L'ex-presidente polacco e leader di Solidarnosc (un “sindacato” che, nel corso degli anni Ottanta, fu lautamente finanziato, tra gli altri, con un versamento di «un milione e seicentomila dollari da parte di sindacati francesi, in gran parte socialisti [...]»[45]) Lech Walesa, un politico in Occidente considerato di centro-sinistra e di estrazione operaia, affermò a sua volta: «Il mondo si è globalizzato da solo: televisioni, cellulari e computer non rispettano le frontiere»[46]. Sul capitalismo di libero mercato, Walesa aggiunse: «Sconfitto il comunismo, non c'era e non c'è una terza via. A noi operai non piaceva molto, ma cosa potevamo fare? Abbiamo dovuto creare i padroni»[47]. Parole molto indicative, cui ne seguirono anche di più esplicite riguardo a come le nuove tecnologie della società della comunicazione globale fossero i principali dispositivi fautori della sopravvenuta sostanziale “inutilità” dei poteri pubblici statali come apparati di gestione e determinazione della politica nazionale:
[…] l'epoca delle guerre e delle divisioni è superata. Le tecnologie sono ormai inadatte a piccoli Stati, è inevitabile creare strutture più ampie […]. Dobbiamo abolire le frontiere e aprire gli Stati, cioè quello che fa l'Europa […]. Le economie e i sistemi si fonderanno, i confini sono diventati ridicoli[48].
Secondo Walesa, coloro i quali si opponevano, come a livello geopolitico era stata sostanzialmente costretta a fare la Russia a seguito dell'allargamento della Nato ad Est, ai processi di uniformazione planetaria nel nome del capitalismo globalizzato, dovevano essere convinti a «cambiare strada»[49]. Disse infatti Walesa, da buon atlantista polacco anti-russo, alla volta di Mosca:
Bisogna agire con equilibrio e consenso, ma si deve fare. La Russia ha fatto scelte differenti: ha tirato fuori i carri armati e si è presa la Crimea. Questo non possiamo accettarlo […]. Vincerà il mondo libero e aperto. Putin non ha alcuna possibilità, la questione è quanto sangue verrà versato. Il metodo di Putin è legato al passato ed è inefficace[50].
Per i liberali ed i radicali di sinistra, infatti, qualsivoglia opposizione politica ai processi di globalizzazione culturale travolgente doveva considerarsi “sbagliata” ed “inefficace” e soltanto la critica agli eccessi del liberalismo selvaggio in economia era apprezzata e considerata scevra da “pericolose reminiscenze di destra”. Soggetti politici, considerati dalla stampa mainstream occidentale come di sinistra “estrema” o “radicale”, espressero considerazioni analoghe a quelle di Walesa in merito alle mitiche e mitizzate “opportunità”, in termini di libertà individuali ed accesso alla società dei consumi, offerte da un mondo culturalmente globalizzato (open society) nel segno di Internet e del rifiuto dello Stato nazionale e della sovranità statale. È il caso di Claudia Roth, esponente di spicco dei Verdi tedeschi, che disse in merito:
Gli accenti della discussione oggi sono posti ancora troppo unilateralmente sulla difesa, sull'illusoria ri-nazionalizzazione e non sulla reale realizzazione degli stravolgimenti del tempo... Si tratta di cambiamenti profondi in tutto l'assetto economico-culturale-informativo: l'internet collega oggigiorno centinaia di milioni di persone in “tempo reale”. Una passeggiata in una città medio-grande offre un caleidoscopio di stili di vita e di culture che pochi decenni fa si sarebbero potuti registrare solo facendo il giro del mondo. La cooperazione di persone con una formazione socio-culturale molto diversa diventa una forza produttiva decisiva nel mondo globalizzato […]. La politica di sinistra abbandona la vecchia scatola dello Stato nazionale nella quale è stata chiusa per troppo tempo[51].
Valutazioni dello stesso tenore si ravvisavano nei documenti ufficiali del partito della sinistra tedesca DieLinke, dove la globalizzazione era descritta come un fenomeno socio-culturale «irreversibile»[52], cui opporsi era nientemeno che «donchisciottesco»[53]. La “guerra fredda culturale” in corso è dunque tra un Occidente liberal-totalitario, dove il “circo mediatico” è il nuovo clero, e gli oppositori della globalizzazione (Stati, nazioni, popoli ancora, per così dire, borghesi primitivi o comunque non pienamente addomesticati ai processi di ridefinizione delle classi sociali nel senso di un primato ideologico e politico neoborghese come sopra illustrato), considerati dai media e dal ceto politico conformisti tout court soggetti politici e sociali “vecchi”, nostalgici di un passato “totalitario” estinto e sublimato nei radiosi orizzonti della “fine della Storia”, “fuori dalla realtà” e “fuori dal mondo”. Costanzo Preve suddivise il “nuovo clero” politicamente corretto in due ramificazioni tra esse distinte:
- clero regolare (i detentori del sapere universitario scientifico, i professori liberal unificati al dogma di Francis Fukuyama della “fine capitalistica” della Storia e dell’estensione della democrazia di libero mercato in ogni angolo del mondo);
- clero secolare (i controllori e gli operatori dei media generalisti, a mezzo tv e stampa, ossia i diffusori, presso il volgo, del mantra “non c’è alternativa” all’Occidente, alla Nato, all’economia di libero mercato, al dileguare di ogni forma di socialità e di “economia morale”, all’estinzione dell’idea stessa di comunità, politica, economica o nazionale).
Nell’ambito di questo quadro d’insieme è doveroso descrivere alcuni passaggi relativi al più eclatante caso di manipolazione della percezione, presso l’opinione pubblica, di abusate tematiche lessicali quali “rivoluzione”, “dittatura”, “guerra”, “invasione” ed “annessione” tutt’ora in corso, ossia il caso ucraino del dicembre 2013-giugno 2014. La Russia (insieme alla Siria, all’Iran ed a qualche Stato latinoamericano disobbediente al padrone a stelle e strisce) è infatti il bad boy da punire, non in quanto significante un manifesto caso d’insubordinazione geopolitica (Putin non è Chavez o Fidel Castro, è chiaro...) bensì perché (per molti versi, insieme alla Repubblica popolare cinese), con la sua stessa esistenza come Stato nazionale retto da una leadership nazional-globalista e non liberal-globalista, con una prospettiva geopolitica euroasiatica, pone in discussione, in quanto new global player, il dominio transatlantico a livello mondiale. Il golpe realizzato in Ucraina tra il dicembre 2013 ed il febbraio 2014 ha potuto contare sullo schieramento a favore della causa di Euromaidan da parte dell'intero “circo mediatico” atlantista occidentale. Le vicende dell'Ucraina ci sono state arbitrariamente raccontate come quelle di un popolo in lotta contro una brutale dittatura repressiva eterodiretta da Mosca, che soltanto il provvidenziale “intervento democratico” occidentale avrebbe potuto “aiutare” nell'intento di liberare se stesso dal “giogo” imposto dalla Russia, attraverso la successiva integrazione di Kiev nelle strutture dell'Unione europea e della Nato. Giornalisti di fama parlarono apertamente della necessità dell'Occidente di «vincere la partita»[54] geopolitica e mediatica contro l'«avversario»[55] russo, ponendosi in questo senso non come osservatori, commentatori ed analisti indipendenti ma come attori protagonisti dello scontro militare, economico e mediatico in atto. Su uno dei più importanti e diffusi quotidiani italiani, il 7 giugno 2014 Matt Browne e Brian Katulis ricordavano l'urgenza, per gli Usa e l'Unione europea, di «definire un piano di rinnovamento del rapporto transatlantico, […] asse portante dell'alleanza delle democrazie liberali di tutto il mondo e fondamento dell'ordine del dopoguerra [che] oggi conosce nuove sfide»[56]. Queste «sfide», naturalmente, erano quelle costituite dallo sviluppo economico e dalla proiezione geopolitica dei BRICS, Russia e Cina in testa. I due giornalisti-ricercatori parlarono infatti apertamente di «rinnovate minacce poste dalla Russia in Ucraina»[57], affermavano l'imprescindibilità di rafforzare, contro la percezione di queste supposte e per la verità mai esistite «minacce», i legami transatlantici tra Ue e Stati Uniti (sanzioni contro la Russia, Nato economica, ecc.). Ecco, più nel dettaglio, le parole di Browne e Katulis:
Una rinnovata alleanza transatlantica è essenziale per garantire che i nostri valori si affermino sulla scena mondiale e che i nostri interessi strategici e commerciali siano protetti […]. Il presidente Obama ha indicato l'indirizzo per una visione della Nato che vada finalmente oltre la logica della Guerra fredda e la metta in grado di affrontare nuove missioni entro e oltre i confini europei[58].
Società della comunicazione globale, mondializzazione economica ed impero liberaldemocratico mondiale. Ecco, in sintesi, il paradigma politico-mediatico del Nuovo Ordine Mondiale, sarcasticamente definito da Alain de Benoist «l'impero del Bene»[59]. D'altronde, erano gli stessi giornalisti sopra citati a delineare gli scenari di espansione illimitata del summenzionato “impero delle libertà, delle opportunità e delle illusioni individuali” ad uso e consumo nella nuova classe media globalizzata, ammettendo, tra l'altro, il ruolo esercitato, segnatamente dopo il 1989, dagli Usa nella strategia cosiddetta di “promozione ed esportazione all'estero” della democrazia di libero mercato:
Dopo il crollo dell'Unione Sovietica gli Stati Uniti e i loro partner europei hanno […] collaborato per ampliare e sostenere la zona delle democrazie liberali e porre fine ai sanguinosi conflitti sulla frontiera balcanica dell'Europa […]. L'Europa e gli Stati Uniti hanno un enorme interesse comune nel fissare le prossime regole dell'economia globale. In futuro le nostre industrie e servizi prospereranno esclusivamente a livello globale e creeranno in patria buoni posti di lavoro per la classe media […]. L'inesorabile trionfo della democrazia liberale non è inevitabile – richiede costante lavoro e vigilanza[60].
A “lavorare” ed a “vigilare” affinché, nell'immaginario collettivo occidentale, la democrazia liberale (l'involucro politico all'interno del quale il capitalismo globalizzato meglio s'integrava e prosperava) potesse continuare ad essere percepita come l'unica alternativa a se stessa avrebbero dovuto essere, naturalmente, i media mainstream, il “circo mediatico” unificato dei giornalisti e degli intellettuali politicamente corretti, la cui funzione di coscienza critica nazionale era inesorabilmente svilita in quella di «tecnici del consenso» neoliberale. I nemici politici del “circo mediatico” e della Nuova Classe Globale erano, infine, indicati da Matt Browne e Brian Katulis negli oppositori della mondializzazione capitalistica. Questi summenzionati “nemici del mondo libero” erano, secondo i due ricercatori statunitensi, «i partiti anti-sistema» e finanche “filo-russi” affermatisi, in Francia ed in Gran Bretagna segnatamente, alle elezioni europee del 25 maggio 2014 ed il «populismo economico isolazionista»[61] in crescita tra i settori piccolo-borghesi e popolari dell'Europa e dell'America “profonde”, gravemente colpite dagli effetti nefasti della mondializzazione economica. Arrivati a questo punto, si può pertanto affermare che le trasformazioni della sfera pubblica, degli equilibri e della struttura di classe nell'era del capitalismo globalizzato hanno reso possibile l'ascesa di una società della comunicazione, volta alla riproduzione massificata di meccanismi politici generatori di consenso attorno all'idea del primato morale, etico e politico della democrazia di libero mercato nei confronti di qualsivoglia modello di sviluppo basato sul primato dei valori comunitari, tradizionali e della sovranità di Stati e nazioni nei confronti dell'espansione illimitata dei mercati di capitali privati transnazionali. La resa incondizionata degli intellettuali, i nuovi chierici e tecnici del consenso neoliberale e/o postmodernista, il loro conformismo teso a ritagliarsi una nicchia di sicura visibilità all'interno di un sistema mediatico totalmente pervaso dalle strategie di propaganda di guerra, guerra fredda culturale ed infotainment, non hanno fatto altro che radicalizzare il processo di involuzione dell'informazione in comunicazione digitale globalizzata e della cultura e del sapere scientifico in chiacchiericcio televisivo addomesticato al Pensiero Unico Neoliberale dominante, filastrocca di opinioni perfettamente aderenti alla visione perbenista ed “illuminista” della nostra era, cosmopolita e “liquido-moderna”.
Paolo Borgognone
[1] J. Elsӓsser, Cavallette. Capitale finanziario, balcanizzazione e fallimento della sinistra, Zambon, Frankfurt, 2008, p. 76.
[2] D. Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, saggio introduttivo di Andrea Tagliapietra, Bompiani, Milano, 2012, p. 398.
[3] Ivi.
[4] B. Bongiovanni, La caduta dei comunismi, Garzanti, Milano, 1995.
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