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Sul culto del Lavoro

di Mattia Biancucci - 01/05/2016

Sul culto del Lavoro

Fonte: L'intellettuale dissidente

La premessa è d’obbligo. Del resto scrivere del Lavoro in questa giornata, screditandolo anche per certi versi, potrebbe risuonare come una fragorosa pernacchia nei confronti degli sfruttati per antonomasia. Sì, proprio una pernacchia, una di quelle alla Alberto Sordi. Rumorosa, fastidiosa ma soprattutto beffarda. Proprio come nel film I Vitelloni. Come si può non ricordare Albertone in quel “lavoratori… lavoratori della pasta”. Ebbene siccome gli epiloghi di quella scelleratezza li ricordiamo tutti bene, è necessario sottolineare innanzitutto che la classe operaia – ammesso e non concesso che esista ancora – è la prima vittima del sistema lavoro. Ed in quanto tale non può sentirsi vessata da qualche parola buttata lì contro un sistema coercitivo ed alienante, come quello del lavoro.

Un tempo lo disse Carmelo Bene, eppure in pochi lo presero sul serio. In fin dei conti, eravamo solo una platea di zombie. Ad ogni modo è bene ricordarlo, scandendolo chiaro e tondo: “La libertà è affrancamento dal lavoro”. Del resto, la fabbrica – intesa in questo senso come locus del lavoro – è un’istituzione totale, la quale condivide numerosi aspetti con le carceri, o le caserme. Insomma, il lavoro rappresenta, di fatto, una dimensione totalizzante nella quale un individuo si ritrova costretto in una situazione obbligata. D’altra parte cos’altro, se non il lavoro, può esser definito come una condicio sine qua non? Attualmente esso rappresenta la condizione senza la quale non c’è vita. Quel “ora et labora” di cristianissima memoria si è gradualmente trasformato in “lavora ora per ora”. Perché anche il tempo libero sia un lavoro. Ebbene come insegnava Eraclito con la sua dottrina dei contrari, per poter comprendere il lavoro è necessario guardare al suo opposto: il tempo libero. Quel lasso di tempo che l’anarchico Bob Black definì paralavoro, ovvero la parte della giornata in cui, di fatto, non si lavora ma in fin dei conti si vive in funzione di quest’ultimo. Insomma, dei momenti in cui ci si prepara alle fatiche. Si dorme, ci si lava, si indossano degli abiti che spesso non abbiamo scelto, per poi recarci in dei luoghi che somigliano a delle prigioni, dove qualcuno ci indica cosa fare, come comportarci e a volte anche quando andare in bagno. Del resto, però, c’è ancora qualcuno in grado di considerare il lavoro come valore positivo in sè, financo divinizzandolo.

Un atteggiamento che Bertrand Russell ha apostrofato come “Vangelo del lavoro”. Una concezione squisitamente moderna che si è incarnata attraverso le correnti di pensiero partorite dalla Modernità: il socialismo ed il liberalismo. Due ideologie apparentemente antitetiche ma entrambe appaiate attraverso un comun denominatore: l’industrialismo. Tant’è che nelle società pre-industriali era nobile colui che non lavorava, mentre gli artigiani o i contadini si adoperavano quanto bastava per sopravvivere. Il resto era vita, convivialità, gioco.

Sin dalla tenera età, si insegna che “l’ozio è il padre di tutti i vizi” e che alla pigra cicala avremmo dovuto preferire la formichina laboriosa. Previdente, assennata eppure morta dentro. Perchè come insegna Neruda:

“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia”
Ed è forse per questo che noi cicale faremo la rivoluzione. Domani, dopo il pisolino.