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Un mondo senza lavoro?

di Luca Gritti - 01/05/2016

Un mondo senza lavoro?

Fonte: L'intellettuale dissidente

Nel tempo di internet e della società digitale il Lavoro rimane fermo alle categorie valoriali dell'Ottocento dickensiano, ignorando le varie correnti innovative sorte nel corso di due secoli

 

Il lavoro, per la generazione nata dopo il crollo del Muro di Berlino, la fine del blocco sovietico e la mondializzazione americana non è solo un’occupazione: è un orizzonte totalizzante, la meta che orienta le nostre decisioni, ciò che attribuisce valore alle nostre vite e determina la considerazione degli altri. Alcuni di noi si convincono, assillati da una propaganda martellante, pervasiva, opprimente, che tutto questo sia normale, e in base al lavoro modellano le loro scelte, i loro gusti, i loro interessi, a volte perfino le loro relazioni. Altri, invero una minoranza sparuta e dissidente, eccentrica e pensante, considera la riduzione dell’esistenza al proprio lavoro una clausura inaccettabile, una mentalità opprimente e claustrofobica.

Molti di loro, di noi, hanno letto Massimo Fini e Serge Latouche, le riflessioni sulla decrescita e sulla ridiscussione dello sviluppo industriale, la critica al feticismo delle merci e, appunto, della sacralizzazione del lavoro. Sappiamo, a differenza di quanto si dice oggi, che il lavoro non è sempre stato un elemento qualificante od esclusivo della vita degli uomini. “Nelle società preindustriali il nobile non lavora, i contadini lavorano per quel che è loro necessario”, scrive Massimo Fini nel suo La Ragione aveva Torto. Serge Latouche parla da tempo della necessità di decolonizzare l’immaginario, di riesplorare, sulla scorta di Marcel Mauss, i concetti di dono e gratuità in contrapposizione alla mercificazione totale del moderno capitalismo, e di ritornare alla vita, alla comunità e alla relazione restituendo il lavoro al campo della necessità, che è quello che gli compete. Nel suo meraviglioso saggio La Sfida di Minerva, Latouche racconta un suo viaggio in Africa in cui si rende conto che le economie africane, basate sui principi di limite e ragionevolezza- che l’economia classica ed egemone liquida, con frettoloso snobismo, come “di sussistenza”- creano delle società spesso più vivibili delle nostre, in cui il lavoro è ridotto ad una sfera marginale, non preponderante, e in cui a prevalere sono la relazione, il mutuo soccorso, il solidarismo reciproco. Lo stesso Pasolini si era accorto che i paesi del terzo mondo (e, in parte, quelli del Sud Italia) erano rimasti immuni dai guasti dell’industrializzazione e avevano così mantenuto uno stile di vita campestre e solidale, sereno e ragionevole.

Diversamente, “l’ossessione produttivistica” (Bauman) era una malattia diffusa in tutto il mondo industrializzato, e in URSS e in Occidente. Il comunismo, in questo senso, non ha mai rappresentato una valida alternativa al capitalismo per quanto riguardava tale ambito: il mito del lavoro era enfatizzato dalla propaganda sovietica in modo ancora più sfacciato e disumano di quanto non lo fosse nel mondo occidentale,  perché il comunismo è in fondo un parto dell’industrialismo occidentale (“Marx è nato a Treviri, mica a Baghdad”, come ama ricordare sempre Massimo Fini). Non è un caso se una delle più feroci e coraggiose critiche all’ossessione del lavoro arrivi da un libro, La Fattoria degli animali di Orwell, che criticava lo stalinismo (ma che si attaglia con precisione chirurgica anche al moderno turbocapitalismo). Boxer, il cavallo che rappresenta Stakanov, il mito dell’efficienza e della produttività, ripete sempre due formule, come un mantra ossessivo: “Il compagno Napoleone ha sempre ragione” e “Bisogna lavorare di più”. Questo, naturalmente, finché non lo mandano al macello perché è ormai diventato improduttivo. Lavorare di più, sempre di più, finché non si è vecchi, inservibili e inefficienti, quando poi si viene gettati via, senza neppure la pensione. Non vi ricorda niente? Orwell aveva già visto tutto. Che fare dunque? Disertare il lavoro, abdicare al mito dell’efficienza, sottrarsi alla condanna di essere un ingranaggio alienato ed anonimo della catena di montaggio? Tessere l’elogio dell’ozio, dell’inoperosità; criticare gli “occupati” che riducono la vita al lavoro e finiscono per non vivere più, come faceva Seneca coi suoi contemporanei?

A volte si può avere questa tentazione: poi però la provocazione finirebbe per legittimare orde di sfaticati, di pigri e di svogliati, parcheggiati nelle aule universitarie o occupati in comodi e miseri lavoretti senza arte né parte. Nietzsche temeva, più d’ogni altra cosa, la propria santificazione: quanto si rischia, criticando la mitizzazione del lavoro e dell’efficienza, di diventare i santi protettori dei cazzari di ogni specie?

Allora forse non ci possiamo accontentare di criticare il lavoro oggi e di vagheggiare l’approdo a mondi e tempi senza fatica. D’altra parte, siamo sicuri che una proposta del genere, oltre che dei fannulloni, non finirebbe per fare anche il gioco del capitalismo moderno? Oggi, infatti, il capitalismo è passato dalla sua fase pesante, collocata in una modernità solida, ad una leggera, propria della nostra post-modernità. Il sociologo polacco Bauman lancia in questo senso un monito: se il capitalismo pesante si fondava sull’ossessione della produttività, quello moderno si fonda su quella del consumo. Il Sessantotto è stato uno spartiacque decisivo tra le due epoche, che ha posto una cesura soprattutto a livello valoriale. I vecchi valori borghesi fondati sulla disciplina, sul rigore, sullo zelo, sul culto del lavoro sono stati travolti dalla classe valoriale basata sul ribellismo ebete, sull’ozio, sul consumo e sul soddisfacimento immediato di ogni bisogno, di ogni desiderio, in forma assoluta e illimitata. Ieri il capitalismo ci intimava di lavorare di più, oggi ci intima solo di consumare, in modo smodato e sregolato, sfacciato e morboso. Il Capitale, semplicemente non ha più bisogno d’operai-massa, ma di semplici consumatori passivi e inerti. L’aveva già detto Marx: il capitalista, quando guadagna, investe sulle macchine, non sugli uomini.

Quindi non solo non è vero, come vorrebbero i liberali, che al guadagno dei capitalista corrisponde un benessere generale, perché aumentano le paghe e i posti di lavoro. Tutt’altro: se il capitalista guadagna, si dota delle tecnologie più sofisticate, che rendono superflui (gli economisti, avvezzi alla neolingua, dicono, con un eufemismo, “ridondanti”)  molti posti di lavoro esistenti. L’uomo, oramai, risulta antiquato. Lo documenta in modo spietato Jeremy Rifkin, un economista collaboratore del Prodi euroburocrate, in un libro dall’eloquente titolo La fine del Lavoro.

Lo strepitoso (e, in apparenza inspiegabile e positivo) successo che sta avendo in occidente la proposta del reddito di cittadinanza, specie in paesi ipercapitalistici come l’Inghilterra e la Scandinavia, è significativo: lo Stato ci manterrà tutta la vita solo per renderci in grado di comprare i nuovi prodotti della Apple, o  il cibo spazzatura di McDonald, non curandosi più delle politiche d’occupazione e sviluppo, pensando al gretto tornaconto di manovrare un’ingente massa di consumatori alienati. Il reddito della gleba, come Alberto Bagnai l’ha genialmente definito, che pure entusiasma molte forze tutt’altro che organiche, tipo Podemos o il Movimento Cinque Stelle, non è pertanto la norma con cui far rinascere il Welfare State, ma il modo con cui il capitalismo transnazionale provvede a procrearsi profitti senza distribuire valore.

Come ripensare, quindi, il lavoro?

Bisognerebbe forse far prendere coscienza a tutti i lavoratori della dignità, della specificità e della storia del loro lavoro: e questo lo si potrebbe fare mediante la cultura umanistica. Un nuovo umanesimo del Lavoro, come già Giovanni Gentile immaginava agli albori del XX secolo, permetterebbe di dare un nuovo slancio alla cultura umanistica, altrimenti relegata in vetuste aule universitarie e consegnata allo sterile accademismo. Pensate, ad esempio, come i lavoratori di una vigna o di un’industria vinicola potrebbero capire i versi dei greci sul vino meglio di tanti cattedratici filologi.  Da una parte la realtà ne guadagnerebbe in poesia, ma dall’altra la poesia ne guadagnerebbe in realtà. Scrive a tal fine Simone Weil

“La missione, la vocazione della nostra epoca è quella di costruire una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro. I pensieri che sono in relazione col presentimento di questa vocazione, e che si trovano sparsi negli scritti di Rousseau, George Sand, Tolstoj, Proudhon, Marx, nelle encicliche dei papi e altrove, sono gli unici pensieri originali del nostro tempo, gli unici che non siano stati presi in prestito dai greci. (…) Tutti ripetono, con terminologia leggermente diversa, che viviamo di uno squilibrio dovuto ad uno sviluppo esclusivamente materiale della tecnica. Lo squilibrio può essere riparato solo con uno sviluppo spirituale nel medesimo ambito, vale a dire nell’ambito del lavoro”.

Forse, per una società che non sia né oberata dal lavoro, né dal lavoro completamente priva, serve ripartire da qui.