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Medioriente, è con l’Iran di Ahmadinejad che bisogna fare i conti

di Luca de Fusco - 06/10/2006

Fonte: paginedidifesa.it

 

 

“Penso che musulmani, cristiani ed ebrei possano e debbano debbano vivere in pace”, avrebbe detto inter alia Ahmadinejad, presidente dell’Iran, durante la sua recente visita in Venezuela. Una frase, questa, estrapolata dal contesto di un severo appello rivolto ai musulmani che chiedeva di sospendere qualsiasi espressione offensiva nei confronti di Benedetto XVI. In ambito musulmano, quindi, l’unica voce autorevole che si è sentita a difesa del papa cattolico è stata quella di un ‘eretico’ sciita di etnia persiana.

Ci sono sicuramente precedenti storici e motivi dottrinali alla base di questi inattesi proclami. Come la straziante celebrazione del martirio che accomuna cristiani e sciiti dato che questi ultimi onorano come martiri della fede sia Gesù Crito come profeta che Ali come Imam congiunto di Maometto. Considerata l’importanza dell’argomento è assai probabile che il messaggio solidale e distensivo provenga direttamente dal supremo ayatollah Khamenei senza il cui consenso l’ex sindaco di Teheran non assumerebbe iniziative ideologicamente qualificanti di questi tipo.

Altra similarità non indifferente tra sciiti e cristiani è che entrambe le confessioni hanno un clero strutturato e gerarchicamente autorevole. Ulteriori precisazioni sono seguite sulla posizione ufficiale iraniana nei confronti dell’ebraismo, che confermano come le autorità iraniane distinguano tra ebraismo e sionism, se è vero - come hanno immediatamente confermato cronisti stranieri di base in Iran - che esiste in quel Paese una delle comunità ebraiche più antiche del mondo (dai tempi di Ciro il Grande), che raggiunge la consistenza di 25mila unità. Inoltre è confermato, al di là di ogni dubbio, che esiste una rete di sinagoghe un po’ ovunque nel Paese e che un esponente della comunità siede nel Mejlis, il parlamento iraniano, analogamente a esponenti cristiani e persino zoroastriani.

Nel discorso di Ahmadinejad all’Onu la differenza tra ebraismo e sionismo è puntualizzata in dettaglio e suffragata da esponenti ebrei iraniani, di lingua madre farsi, determinati a non lasciare il Paese in nessuna circostanza. Una situazione, quindi, ben più complessa di quella costruita dai media occidentali e in evidente discrepanza con le descrizioni apocalittiche di parte americana e israeliana. L’Ahmadinejad iraniano dimostra una abilità istintiva nella comunicazione di massa che ricorda il Nasser egiziano. A dichiarazioni estreme (concise e generiche per chi non ha familiarità con la retorica mediorientale), miranti a passare nei filtri dei media, seguono affermazioni più dettagliate che convogliano il messaggio politico vero e proprio.

Era inevitabile una reazione alla manipolazione mediatica emanata dagli Usa, che per anni ha definito, a proprio comodo, un ‘asse del male’ sulla base del possesso di armi nucleari e connivenze con il terrorismo e la cui infondatezza è stata messa in risalto fino al ridicolo dalle recenti dichiarazioni di Egitto e Turchia, entrambi affidabili alleati degli americani, di volersi dotare di energia nucleare. Senza contare il caso dell’alleato Pakistan, di cui vengono continuamente accertati da investigatori americani gravi precedenti nella diffusione clandestina di tecnologia nucleare nel teatro asiatico. Per quanto riguarda la sponsorizzazione del terrorismo, gli americani hanno accusato con pervicacia i soggetti più improbabili, Siria e Iran in primis, graziando invece Arabia Saudita e Pakistan fino alla plateale schermaglia verbale di pochi giorni fa tra l’afghano Karzai e il pakistano Musharraf, che si sono scambiati accuse reciproche di ospitare Bin Laden e il suo seguito. Sull’opera di contrasto all’estremismo sunnita svolta da Iran e Siria, sui numerosi arresti compiuti di jihadisti eccellenti come il figlio di Bin Laden tenuto a lungo al fresco nelle galere iraniane, nessuna menzione.

Quali siano i limiti dei diplomatici americani, in prevalenza non professionisti, non è cosa nuova, ma l’ammissione di Nicholas Burns, sottosegretario agli Esteri e responsabile governativo per l’Iran, di non aver mai incontrato un esponente iraniano in 25 anni di carriera, lascia intuire quale tipo di persone possano influenzare le decisioni politico-militari della superpotenza. Non è chiaro se a Washington e dintorni abbiano chiaro in quale posizione di vantaggio le iniziative militari Usa in Afghanistan e in Iraq abbiano posto il governo di Teheran. Ma questo è comunque enorme. Crollato il regime talebano da una parte e quello baathista dall’altra, ambedue a base sunnita, il principale paese non arabo a maggioranza sciita gode ora di una posizione estremamente favorevole in una regione di importanza strategica primaria.

Una serie di circostanze, casuali o conseguenze dirette della prassi politica degli Usa, hanno attribuito una importanza politica senza precedenti all’Iran. Nessun altro governo mediorientale può presentarsi a un miliardo di musulmani con credenziali credibili come quelle che può vantare il governo di Teheran, sul piano del progresso socio-economico, della difesa e dei valori religiosi. Inoltre, con una florida posizione finanziaria che ha reso possibile allo Stato iraniano emettere obbligazioni internazionali già da alcuni anni. La capacità dei correligionari Hezbollah di resistere agli attacchi israeliani è stato il tassello mancante all’immagine di un Iran militarmente potente e fieramente indipendente. Infatti, a mano a mano che le ostilità in Libano diminuivano di intensità, diminuivano anche i toni della propaganda iraniana. E’ ora sufficientemente chiaro a tutti (o quasi) che l’Iran non necessita di armi atomiche per mettere in forse gli equilibri regionali. Questo è il messaggio che l’Occidente deve recepire, secondo Teheran.

Per quanto riguarda il vero fronte a cui guardano i dirigenti iraniani (l’opinine pubblica musulmana), il trionfo è travolgente. Ahmadinejad e Nasrallah sono i nuovi eroi della gente qualsiasi e, per la prima volta in molti secoli, esponenti sciiti. Gli stessi storicamente descritti come eretici dai teologi sunniti vengono ora acclamati come non succedeva ad alcun dirigente dai tempi di Nasser negli anni 60. I risvolti immediati di questa situazione sono probabilmente meno tragici di quanto viene descritto dalla stampa faziosa.

Innazitutto in Libano, Hezbollah, pur provato dall’offensiva israeliana e in evidenti difficoltà a rifornirsi di nuove armi, viene considerato per quello che veramente è: un movimento politico-militare con una base di massa e pertanto in grado di stipulare alleanze trasversali che prescindono dalla base religiosa. A tale proposito è significativo il parere di Efraim Halevy, ex capo del Mossad, secondo il quale Israele dovrebbe considerare un modus vivendi con Hezbollah e Hamas al fine di escludere il terrorismo sunnita di al-Qaeda e simili dalla zona. Questi ultimi sono caduti nella trappola da essi stessi congegnata e che additava gli sciiti - in Iraq, ma potenzialmente ovunque - come quinta colonna e quindi nemici più pericolosi degli occidentali. Dai successi militari degli sciiti libanesi, i proclami e le fatwa di al-Qaeda appaiono sfocati e privi di incisività. Con sollievo, l’opinione pubblica musulmana può ora osannare gente che non fa degli sgozzamenti di prigionieri la propria prassi politica.

In Siria, Bashar Assad e gli altri dirigenti alawiti, a lungo additati dagli estremisti sunniti come eretici totalmente estranei all’Islam, possono ora aspirare, come minimo, a essere considerati correligionari di Nasrallah. Particolare non indifferente in un Paese dove, nonostante l’onnipresente rete spionistica e il ricorso alla repressione più violenta, i Fratelli Musulmani e altri gruppi sunniti hanno dato segni di risveglio, coagulando un seguito a ogni timido tentativo della dirigenza di iniziare negoziati di pace con Israele.

In Iraq, comprensibilmente, gli sciiti reagiscono agli attacchi, provengano essi da ultrapuritani sunniti o da ex militanti baathisti. Paradossalmente, questo pone Siria e Iran su versanti opposti, con la prima, laica, che vede svanire la possibilità di presentarsi come sostituta alla locale dirigenza Baath dopo la probabile eliminazione di Saddam Hussein, il secondo come protettore della componente maggioritaria e beneficiario di una inevitabile vittoria sciita. Da sfondo fa la visione pragmatica dell’ayatollah Sistani il quale, considerando temporanea la presenza occidentale, ritiene che i suoi possano nel frattempo accumulare vantaggio a proprio favore per emanciparsi dall’oppressione del Baath e crearsi uno spazio adeguato.

La possibilità di secessione, sciita al sud e curda al nord, appare ora meno fantapolitica che in passato. Di concreto rimarrebbe il fatto che le due componenti combinate assumerebbero il controllo di oltre cento miliardi di tonnellate di petrolio. Questi sviluppi non lascerebbero inalterato lo status quo in alcuno dei Paesi confinanti. Non in Kuwait, dove esiste una forte minoranza sciita. Non in Arabia Saudita, dove il 20 per cento degli sciiti sono per lo più concentrati nelle zone petrolifere e forniscono la maggioranza del personale addetto ai pozzi. In Bahrein il 60 per cento degli sciiti, insofferenti dei regnanti sunniti, chiederebbero con maggior forza l’autodeterminazione. Situazioni analoghe esistono più o meno in tutti gli emirati del Golfo. E gli sciiti zeiditi dello Yemen, minoranza dominante, potrebbero acquisire un maggior potere negoziale con la maggioranza sunnita ed emarginare la fronda pro al-Qaeda nello Stato e nell’Esercito. A condizione che l’Iran non venga costretto a reagire e a chiedere appoggio esterno.

Questi mutamenti, in prevalenza già avviati, possono verosimilmente sprigionare tensioni enormi accumulatesi nel corso dei secoli. Interventi esterni possono solo peggiorare la situazione, con esititi imprevedibili. Sono state sufficienti poche righe di un discorso proferito da un sovrano morto secoli fa per scatenare le piazze. Auspicando in questo campo una maggiore sensibilità alle regole della politica, si provi a immaginare cosa potrebbe succedere alla notizia che una flotta da guerra americana si sta avvicinando alle coste dell’Iran.

La notizia che il governo Usa ha stanziato fondi per l’opposizione iraniana, valutazioni politiche a parte, sta a confermare che l’opposizione interna è consistente, ma non è affatto dimostrato che essa si adegui ai desideri di Washington solo per il fatto che i programmi in farsi trasmessi in satellitare dagli Usa sono molto seguiti. E’ stato grossolanamente sottovalutato il nazionalismo iracheno. Quindi, a maggior ragione, sarebbe opportuno evitare l’errore con gli iraniani, che in questo campo hanno fornito esempio per oltre un millennio, riuscendo a mantenere la propria identità nazionale. L’opposizione certamente esiste, è decisa, colta e ben presente nella società civile. Ahmadinejad naturalmente lo sa e i dispiaceri, in quella patria della satira che è l’Iran, non gli mancano. Per esempio, verso metà settembre il giornale d’opposizione al-Sharq è stato sospeso per aver raffigurato l’Onorevole Presidente con sembianze di somaro intento a trattare con gli europei sul nucleare.