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L'anima dell'Impero è oro nero Ma fino a quando?

di Sabina Morandi - 30/10/2005

Fonte: liberazione.it

 
Riuniti a Rimini i ministri e gli esperti petroliferi del globo per discutere il futuro energetico del mondo. Il greggio sta per finire, quali le alternative possibili.

Il petrolio sta finendo, anzi ne avremo per un altro secolo. La prima mattinata delle giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù, dedicata quest'anno all'Anima dell'Impero, come recita l'evocativo titolo (sottotitolo: Gli orizzonti inquieti del petrolio tra apocalisse e sostenibilità), parte all'insegna del disaccordo sulla domanda fondamentale cui sono chiamati a rispondere i maggiori esperti internazionali di questioni energetiche: siamo alla fine dell'era dei combustibili fossili oppure abbiamo il tempo di guidare la transizione? Come è facilmente comprensibile non è questione da poco stabilire se il momento in cui la produzione comincia il suo declino - il cosiddetto picco - è già stato toccato oppure no. Secondo Colin J. Campbell, geologo fondatore e presidente dell'Aspo, associazione che si occupa appunto di studiare l'esaurimento dei combustibili fossili, non ha dubbi: il declino della produzione petrolifera è già in corso e, realisticamente, entro il 2010 comincerà a scendere anche la produzione di gas naturale. Sul fronte opposto l'ottimismo inossidabile di Marcello Colitti - una vita passata all'Eni e attualmente responsabile del Consiglio consultivo per l'oleodotto dal Mar Nero a Trieste - che scommette su di un altro secolo di vacche grasse durante il quale, lasciando fare al mercato, l'alternativa tecnologica emergerà da sé.

Consenso si registra invece su due punti fondamentali. Prima di tutto, picco o non picco, la domanda cresce in modo esponenziale e servono ingenti investimenti soltanto per mantenere l'attuale ritmo di produzione e di raffinazione, figuriamoci per gestire un'eventuale transizione. Tutti d'accordo anche sul fatto che non si può contare sulla disponibilità del comparto petrolchimico: gli investimenti di cui si parla non sono alla portata delle singole imprese, anche se gigantesche, che da anni hanno smesso di investire. Non è un caso infatti, come sottolinea Campbell che «si registra un'inversione di tendenza, con le grandi compagnie che cominciano a rendere pubblici i dati in loro possesso». Quando si tratta di battere cassa il segreto industriale diventa un optional…

Ma se lo scenario viene ulteriormente complicato dalla stretta connessione fra petrolio e finanziarizzazione dell'economia, una relazione pericolosa egregiamente illustrata da Chris Sanders, banchiere e direttore della Sanders Rersearch Associated, le prospettive di fanno ancora più allarmanti. Cosa accadrà, per esempio, a un mercato immobiliare come quello statunitense tenuto artificialmente alto dai prezzi irrisori della benzina, quello cioè che ha reso possibile il boom dei suburbs? L'inevitabile impennata del greggio potrebbe innescare una reazione a catena di proporzioni inimmaginabili nell'indebitatissima economia Usa. E che fine faranno le meraviglie della globalizzazione se toccherà ri-localizzare le attività produttive più vicino a casa semplicemente perché trasportare le merci prodotte oltreoceano ingoierà tutto il vantaggio comparativo rappresentato dai salari da fame?

Tante domande ma poche risposte, insomma, e quelle poche sempre all'insegna dei vecchi trucchi contabili - primo fra tutti, l'esternalizzazione dei costi - che potevano essere accettabili quando si trattava di lasciar fare al mercato ma lo diventano molto meno quando si chiede ai governi - cioè ai contribuenti - di aprire la borsa per finanziare nuove avventure.

Esempio perfetto di questo stile è la relazione di Ian Fells, presidente di New and Renewable Energy Center, associazione britannica che, malgrado il nome, di tutto si occupa meno che di energie rinnovabili. Con una lunga e puntuale dissertazione Fells ha tentato di dimostrare come un ritorno al nucleare sia non solo auspicabile e possibile - i reattori superveloci di ultimissima generazione - ma anche, sostanzialmente, l'unica strada possibile per sostituire il petrolio. Certo, serviranno anche le rinnovabili e sicuramente avrà un ruolo fondamentale anche il gas e cosiddetto carbone pulito, ma sarà l'atomo a recitare il ruolo principale anche perchè le rinnovabili costano davvero troppo. Non dice, Fells, che il costo maggiore dell'energia nucleare - quello che sta spingendo la Francia a non rinnovare il suo parco centrali - è l'irrisolto problema dello smaltimento delle scorie, problema che viene sempre lasciato fuori quando si confrontano i costi dell'energia prodotta con l'eolico e con il solare con quelli delle centrali atomiche. Senza contare che forse, prima d'imbarcarsi in un vasto piano di rilancio del nucleare bisognerebbe magari fornire delle stime affidabili sulle scorte globali di uranio.

Meglio, molto meglio, Noè van Hulst dell'International Energy Agency, massima autorità dei paesi importatori e controparte storica dell'Opec. Finalmente anche all'Iea si sono accorti che «il business as usual è improponibile». Picco a parte, sul tavolo c'è la strozzatura delle capacità di raffinazione - che le industrie hanno smesso di costruire almeno nel nord del mondo - e i costosissimi investimenti necessari per lanciare lo sfruttamento in grande stile del gas naturale, meno inquinante del petrolio e del carbone ma di difficile gestione. Per rendere accessibile l'ultimo combustibile fossile bisogna infatti costruire gasdotti e stabilimenti per la liquefazione del gas che viene poi caricato su speciali navi criogeniche (perché il gas mantiene lo stato liquido a bassissime temperature) per venire poi rigasificato una volta giunto a destinazione. Un intero sistema di costosissime infrastrutture che, ancora una volta, richiede enormi interventi statali.

Lasciamo perdere la questione ambientale - il forte impatto delle cattedrali del gas liquido - e restiamo al mero calcolo economico: come si fa a chiedere ai governi di investire fette consistenti delle proprie risorse nello sfruttamento del gas naturale senza dedicare nemmeno una parola al fatto che anche il gas è destinato a toccare il suo picco dopo qualche anno? Van Hulst, fra l'altro, sottolinea con forza la risorsa dell'efficienza energetica - l'edilizia a zero emissioni, ad esempio, cioè il contrario esatto delle torri di vetro che hanno invaso le città di mezzo mondo - e giustamente sottolinea che serve tutto e tutto insieme. Peccato che taccia su alcuni dati importanti - appunto il picco del gas - e che sottovaluti "l'effetto coperta": quel che si investe in gas o nucleare sottrae risorse altrove.

La crisi petrolifera può essere una catastrofe epocale oppure una grande occasione per rilanciare il potere decisionale dei governi, sempre che non si lascino utilizzare come meri collettori di fondi. La scelta è insomma se utilizzare i nostri soldi per un vero e proprio new deal ecologico fondato sulla ristrutturazione di tutta la rete e sulle rinnovabili, oppure se affidare i nostri soldi ai soliti noti, firmando l'assegno in bianco per il prossimo miracolo tecnologico di là da venire.