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L’agonia del carrozzone Alitalia, un cancro parassita (Intervista a massimo Fini)

di Carlo Passera e Massimo Fini - 19/10/2006

Massimo Fini, viviamo l’agonia del carrozzone Alitalia e, ancora una volta, sembrano prevalere le ragioni della clientela a quelle dell’efficienza. Vogliono “uccidere” Malpensa a favore di Fiumicino.
«Il discorso è lo stesso che si può fare per tutto il vecchio parastato italiano. Io credo che in uno Stato moderno il pubblico sia quantomai necessario; in Italia però è stato totalmente infangato, in quanto ciò che era “pubblico” è stato inteso come “partitico” dando luogo a continue spartizioni dell’intero apparato: aziende a partecipazione statale, banche, conservatori, casse mutualistiche, Asl e così via, l’elenco è infinito. Ecco: Alitalia è diventata il solito serbatoio clientelare alla cui dirigenza chiamare boiardi di Stato affiliati a questo o a quel partito; ovvio quindi che, al momento del dunque, quando ha dovuto affrontare un mercato non protetto, ha fatto flop. Ma ripeto: il pubblico non è di per sé deprecabile. Se vuoi ti faccio un esempio».
Prego.
«La Centrale del Latte di Genova acquistava il latte dai contadini del territorio, quelli che vivono al di là delle montagne, in Liguria. Lo pagava qualcosa di più, certo, ma questo consentiva di mantenere un’economia e una socialità in zone rurali dove vivere è difficile; era insomma una scelta politica come quella che viene operata anche in Svizzera, Paese che difficilmente può essere sospettato di essere contro il libero mercato».
Poi che è successo?
«La Centrale è stata privatizzata e i nuovi proprietari hanno trovato più conveniente comprare latte olandese; questo però ha significato la rovina di una parte di entroterra ligure. Morale: il privato fa giustamente calcoli di profitto immediato, il pubblico può però permettersi logiche un po’ più vaste».
Ma i liberisti dicono: anche un servizio pubblico può essere svolto con più efficienza da un privato. Non è necessario che sia lo Stato - con il proprio contorno partitico - a gestire pubblici servizi, basta che li garantisca, magari dandoli in concessione e a patti chiari (del tipo: “Continuerete a comprare il latte dai contadini dell’entroterra ligure”).
«Sono d’accordo. Ma deve essere appaltato a privati che siano veramente tali, non agli “amici degli amici”. Lo Stato poi deve disciplinare la cosa, dare un certo indirizzo».
Il “disastro” del pubblico è dunque uno specifico italiano.
«Proprio così. Io credo che un Paese debba avere una compagnia di bandiera, gestita seriamente e non affidata agli uomini delle varie parrocchiette partitiche, capaci solo di trasformarla in un carrozzone clientelare».
Ecco: se c’è un carrozzone che manifesta ancor oggi nostalgie assistenziali è proprio Alitalia, “appesantita” da 19mila dipendenti sindacalizzati a Roma (su 20mila totali) decisi a mantenere i propri privilegi.
«Qui dobbiamo riscontrare le classiche difficoltà del rapporto tra Roma e Milano, e dunque risaliamo al problema di Roma Capitale. I padri fondatori dell’unità d’Italia, che erano piemontesi, decisero di optare per Roma, con una scelta coraggiosa e parzialmente autolesionista, perché era al centro dell’Italia e per la sua storia. Purtroppo è stato un drammatico errore, perché quella è da sempre, fin dal tempo dei latini, una città parassitaria. All’epoca era piena di plebs frumentaria che non faceva nulla ma riceveva il grano dallo Stato; in cambio assicurava il proprio sostegno, in una logica perfettamente clientelare. Catilina tentò di rompere il meccanismo, distogliendo la plebe romana dalla passività e dando nuovo spazio ai piccoli proprietari agricoli che venivano uccisi dal latifondo; al che Cicerone parlò chiaro e spiegò alla gente: “Se vi mettete a lavorare non potrete più vendere il vostro voto”. Così nulla accadde e da allora niente più è cambiato».
Direi che la situazione si è ben sedimentata.
«Già. La città è eterna per definizione, i romani sono convinti di poter continuare così per sempre e in fondo hanno anche qualche ragione perché - fatte le debite eccezioni - vivono tranquillamente sfruttando le mille rendite di posizione che derivano loro dall’essere al centro degli interessi politici. Roma, straordinaria e bellissima, corrompe con il suo modo di fare, col suo clima, il suo ocra... con tutto! Non a caso Bossi, la prima volta che la Lega scese in massa nella Capitale, voleva rinchiudere i propri parlamentari in una foresteria. La vita dei romani è piacevole, sono quelli che campano più a lungo: ma quella città è un cancro parassita che succhia le energie altrui. Oltretutto nemmeno si è rivelata un “luogo mediano” come pensavano i piemontesi, perché in realtà ha meridionalizzato - nel senso peggiore - l’Italia intera. In questo contesto si inserisce perfettamente anche il caso Alitalia».
Non c’è solo Alitalia. Roma nonostante tutto non ci vuole restituire un po’ di produzione televisiva, che pure è nata da noi; si mette in concorrenza con Torino per il Salone del libro e con Venezia per il cinema. Ora, vuole “disinnescare” Malpensa, l’unica grande opera pubblica per il Nord che sia stata realizzata negli ultimi decenni.
«Roma si è fatta ancor più audace a causa della debolezza strutturale soprattutto milanese. Sotto la Madonnina è sparita la vecchia borghesia che, pur con tanti difetti, aveva difeso il territorio. I Pirelli, i Bassetti e i Brionvega degli anni Cinquanta e Sessanta mandavano i loro uomini a discutere coi segretari di partito e coi ministri e così facevano il bene del Nord, anche perché erano ancora depositari di quel poco di etica protestante rimasta, proprio concentrata a Milano, dove il lavoro era importante e il padrone rispettato pur nella lotta sindacale. Poi tutto è venuto meno, la classe dirigente è scomparsa, abbiamo visto uomini del Nord, anche validi, romanizzarsi in pochissimo tempo: penso a Craxi, allo stesso Berlusconi, nonostante la sua mentalità imprenditoriale che lo vedeva contraltare naturale del “teatrino della politica” del quale ora è invece divenuto uno degli attori principali. Più Milano perde forza e tanto più cresce l’attrattività di Roma, che vampirizza tutti».
È venuta meno la nostra comunità, il nostro territorio?
«A livello di classe dirigente. Il discorso identitario si è invece paradossalmente fatto più forte a livello di base, si è sviluppato parecchio un sentimento “nordista”. Milano, nei suoi limiti, era una città molto cosmopolita; ma ora la gente si sente defraudata di un suo modo d’essere e fa comprensibilmente resistenza, non vuole essere romanizzata: non per una questione di superiorità, ma perché il popolo padano è semplicemente diverso. Ancora una volta si dimostra insomma assolutamente intelligente quel progetto delle tre macroregioni che non a caso è stato scartato proprio dalla classe dirigente romana, perché sarebbe stata la sua fine. Lo stesso Sud col tempo si sarebbe organizzato in modo diverso, meno dipendente da Roma e quindi poco clientelare. Invece ha vinto l’ipotesi opposta».
E ci rubano tv, cinema, libri...
«Sì, ma con una precisazione parzialmente in controtendenza rispetto a quanto stiamo dicendo: negli ultimi anni Roma ha mostrato una vivacità in campo culturale che a Milano è assolutamente mancata. Nella Capitale si è passati dal cialtronismo di Nicolini a un Veltroni che sta facendo cose molto interessanti; a Milano invece non ho visto nulla di tutto questo e solo la gestione Formentini, che lavorava nell’emergenza, può avere qualche attenuante».
Il sindaco Moratti ti dà qualche fiducia in più?
«Non lo so, tutti gli ultimi sindaci meneghini erano persone perbene, ma non so se basta, ci si trova di fronte a difficoltà così stratificate che è difficile riprendere quanto interrotto, perdipiù in mancanza di una classe sociale di riferimento, poiché come detto la borghesia è sparita. Milano si è accontentata della moda e della “città da bere”, che è molto superficiale. Per il territorio padano il discorso peraltro è diverso: è cresciuto il Nordest in modo notevolissimo, Torino stessa ha cambiato volto ed è molto più viva...».
Anche Genova è cambiata.
«Ne so di meno, non la frequento molto perché io non vado in una città dove c’è il mare eppure non si può fare il bagno... A parte gli scherzi, certamente ha effettuato operazioni validissime di restyling del centro storico e ha vinto la consorteria dei camalli che paralizzavano il porto: erano i migliori operatori, sapevano stivare benissimo ma lavoravano troppo poco».
Cambiamo discorso, riprendendo però dall’arroganza romana. Qualcuno l’ha tirata in ballo anche nel commentare l’oscuramento - diciamo così - del filmato realizzato da Le Iene che avrebbe dovuto denunciare come buona parte della nostra classe politica fa uso di droghe. Ne sono nate molte polemiche, tu da che parte stai?
«Il parlamentare non deve avere più diritti del normale cittadino, ma neanche di meno. Il diritto di cronaca non è assoluto e incontra limiti in altri, giuridicamente rilevanti, come può essere quello alla privacy. Non si possono diffondere dati sanitari di una persona, né raccoglierli senza il suo consenso. L’uso personale di stupefacenti è lecito in Italia, mentre è illegale lo spaccio; il parlamentare può fumarsi una canna o bere alcol esattamente come qualsiasi altro cittadino, son cose che non devono interessarci. Piuttosto, dobbiamo vigilare che non abbiano privilegi».
Obiezione: non è forse lecito pretendere che un parlamentare non alimenti il giro dell’illegalità, dando soldi agli spacciatori?
«Ma questo diventa un processo alle intenzioni che si inserisce in un clima illiberale del Paese! Ripeto: la vita privata dei cittadini - anche se parlamentari - non deve interessarci minimamente. Dobbiamo solo preoccuparci che facciano bene il loro mestiere. Se bevono whisky o vanno in discoteca, meglio: così frequentano la gente normale».
Altra obiezione: bere whisky o andare in discoteca sono comportamenti comunemente accettati. La classe politica è invece la prima a condannare l’uso di droghe, anche di quelle leggere. Poi si scopre che agisce all’opposto. Ebbene: non è doveroso pretendere un poco di coerenza tra parola e azione?
«Non necessariamente. Un parlamentare può anche essere adultero ma lavorare per una legge contro l’adulterio; se poi verrà approvata dovrà certo pagarne le conseguenze come tutti gli altri. Pretendere una coerenza estrema tra vita privata e attività pubblica mi sembra per prima cosa utopico. Eppoi preferirei che ci fosse coerenza nel tempo nell’ambito dell’attività pubblica. Il resto rientra in un moralismo che non mi piace».
Qualcuno ha voluto sfruttare l’occasione per tornare a parlare della legge sulla droga. Rimane il fossato tra coloro che vogliono liberalizzare gli stupefacenti e chi invece chiede maggiore repressione del fenomeno. Come ti schieri?
«È un tema difficilissimo. In linea di principio ogni cittadino adulto ha diritto di fare ciò che vuole della propria vita e della propria salute; il problema sono i minori e certamente una diffusa cultura della droga penetrerebbe anche in coloro che hanno meno di 18 anni. D’altro canto si sa che, specie a livello giovanile, la repressione eccita la trasgressione; inoltre una liberalizzazione delle droghe dovrebbe spezzare il lucro dei trafficanti, almeno in linea logica. Dunque io sono tendenzialmente favorevole a quest’ultima ipotesi, ma mi rendo conto che il problema è assai delicato. Mi chiedo piuttosto perché non si intervenga mai con decisione per stroncare davvero il traffico di stupefacenti».
Non è facile...
«Ricordo come il tanto deprecato mullah Omar avesse proibito la coltivazione del papavero e, a vedere le statistiche, nel 2001 l’Afghanistan la produzione risultò davvero azzerata».
Se ne fece bello Pino Arlacchi, che allora era il commissario delle Nazioni Unite incaricato di trattare con gli afghani per stroncare questo traffico.
«Arlacchi dialogò nel 1998-99, i talebani chiedevano in cambio il riconoscimento internazionale, gli Usa però si opposero e costrinsero l’Onu a fare lo stesso, quindi la decisione del 2000 del mullah Omar fu del tutto autonoma e si basò su un fatto ben preciso: l’economia per i talebani è meno importante della religione, il Corano proibisce l’uso e lo spaccio di stupefacenti, loro applicarono semplicemente una regola. Fu una cosa sorprendente, calcolando che i contadini afghani vivevano soprattutto di queste coltivazioni».
Ora la situazione è di nuovo cambiata.
«In Afghanistan oggi si concentra il 93% della produzione mondiale di oppio, nel 2000 eravamo a zero... Mi chiedo allora cosa stiano a fare là le truppe occidentali. Il mullah era riuscito a stroncare il fenomeno, non vedo perché non ci debba riuscire una grande superpotenza. A meno che - ed è il mio sospetto - noi ci si affanni a discutere del problema, ma vi siano dietro a tutto questo grandi organizzazioni criminali legate a classi politiche pur insospettabili».
Insomma: comunque la pensiate, diamo questo merito al mullah.
«Esatto. Io gliene attribuisco pure altri, ma è un discorso che abbiamo già fatto».