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Lo sviluppo è morto

di Gianluca Carmosino - 30/10/2006

 

 

Nell'autunno 1988, un gruppo di studiosi di tutto il mondo si incontrò per una settimana in Pennsylvania, negli Usa, per preparare il progetto di un libro che si sarebbe intitolato The devolopment dictionary. In Italia bisogna attendere dieci anni per trovare nelle librerie il Dizionario dello sviluppo, a cura di Wolfgang Sachs ed edito dal Gruppo Abele: il libro uscì più o meno quando il "popolo di Seattle" promuoveva una straordinaria mobilitazione contro le ricette sviluppiste dell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO).

Sono trascorsi diversi anni, quel libro conserva ancora tutta la sua attualità e importanza. In realtà, forse oggi è ancora più attuale, perché per migliaia di persone in tutto il pianeta, e non più solo per un gruppo di attenti ricercatori, è piuttosto chiaro come il mito dello sviluppo sia giunto finalmente al capolinea. Nell'introduzione del libro, tra l'altro, si legge: "Gli ultimi cinquant'anni possono essere definiti l'era dello sviluppo, ma questo periodo sta per finire. È tempo di scrivere il suo necrologio".

L'era dello sviluppo ha infatti una data di nascita simbolica: 24 giugno 1949, il giorno nel quale il presidente degli Stati uniti Truman annunciò la necessità di "aiutare i popoli delle aree economicamente sottosviluppate". Da quel momento non solo nacque ufficialmente la distinzione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, ma soprattutto si creò il mito, quello dello sviluppo, che presto avrebbe colonizzato culture e modi di pensare in tutto il mondo. Ma lo sviluppo non è niente altro che l'occidentalizzazione del mondo, già ampiamente imposta con la schiavitù e la colonizzazione nei secoli precedenti.

Le conseguenze dell'affermarsi di questo mito furono enormi anche nei paesi del nord del mondo, nei quali si accentuarono a poco a poco i processi di omologazione culturale. Costumi, abitudini, linguaggi, scienze, politiche di governo furono tutte travolte, non sempre in modo evidente, dalla ricerca dello sviluppo, dal mito della crescita infinita.

Ma cosa caratterizza oggi le correnti culturali che sostengono la critica allo sviluppo? Innanzitutto la capacità di evidenziare le conseguenze dello sviluppo, motore di devastazioni ambientali e sociali, nel nord e nel sud del mondo. In particolare, lo sviluppo che tende a essere misurato principalmente attraverso il parametro del "prodotto interno lordo" (Pil), ad un'attenta analisi, risulta essere sbagliato, ma soprattutto ingiusto. Il Pil, del resto, si basa essenzialmente sugli scambi monetari e dunque esclude dalla contabilizzazione, ad esempio, il lavoro domestico: la cura dei bambini e la pulizia della casa non influiscono quindi sul Pil perché non muovono denaro. Viceversa, ad esempio, il verificarsi di incidenti stradali, implicando l'intervento di meccanici, medici, operai, e provocando spesso l'acquisto di nuovi veicoli in sostituzione di quelli danneggiati favorisce certamente la crescita del Pil… Anche dal punto di vista statistico, il Pil può essere facilmente messo in discussione come parametro in grado di misurare il benessere delle persone: dal 1960 a oggi, il Pil italiano si è praticamente triplicato, ma il numero di persone occupate è rimasto invariato (circa venti milioni di persone), certamente sono aumentate le forme di precarizzazione del lavoro. La crescita del Pil, dunque, non comporta di certo un aumento dell'occupazione. Non solo: a livello internazionale, dal 1960 a oggi, il divario tra paesi ricchi e poveri è decisamente e drammaticamente aumentato.

A livello qualitativo può essere interessante valutare come lo sviluppo abbia comportato l'affermarsi, tra l'altro, del modello dell'agricoltura intensiva che, attraverso macchine pesanti e concimi chimici, aumenta la produttività della terra, ma i prodotti sono meno nutrienti, meno buoni e l'ingresso della chimica favorisce spaventosamente l'inquinamento di acqua, aria e terra. Inoltre, nel sud del mondo l'industrializzazione dell'agricoltura ha costretto migliaia di persone ad abbandonare le campagne per "rifugiarsi" nelle periferie delle grandi città, ormai implose e sempre più invivibili. Ma, alcuni recenti effetti delle politiche per lo sviluppo sembrano un pericoloso boomerang: basta pensare alle devastazioni dell'uragano Katrina a New Orleans (l'aumento del numero e degli uragani e della loro violenza è una delle conseguenze del buco dell'ozono, provocato a sua volta dall'inquinamento atmosferico) o ai problemi legati alla gestione dei rifiuti, presenti in tutte le grandi città.

Ma lo sviluppo è anche perdita di biodiversità, è l'affermarsi di una cultura di competizione (e non di cooperazione) e dunque di una cultura di guerra. Del resto, sviluppo significa economia di mercato, neoliberismo, che a loro volta sono costruiti intorno al possesso del petrolio, per il quale sono state fatte decine di guerre.

Per questo oggi sembra aumentare l'interesse per le esperienze che cercano di mettere in discussione il mito dello sviluppo e soprattutto cercano di proporre alcune alternative che come singoli cittadini o come comunità è possibile attuare. La cosiddetta "decrescita", ad esempio, è la prospettiva culturale ed economica secondo la quale il benessere delle persone può essere inseguito attraverso l'autoproduzione (tutto ciò che riduce la dipendenza da beni e servizi da acquistare), il risparmio energetico (in grado di ridurre drasticamente la dipendenza da fonti fossili e dunque ridurre inquinamenti e spese legate all'acquisto di petrolio…), la riconversione industriale ("meno auto e meno armi, e più microgeneratori di energia"), ma anche la "filiera corta" in ambito agricolo (con conseguente riduzione del traffico su strada) e più in generale i servizi scambiati dalle persone gratuitamente.

Per questo, oggi un libro come il Dizionario dello sviluppo (al quale hanno partecipato alcuni dei "padri" della critica allo sviluppo, da Ivan Illich a Serge Latouche, da Gustavo Esteva a Vandana Shiva) dovrebbe essere un testo da consultare, studiare e approfondire nelle scuole superiori, nei centri di ricerca istituzionali e della società civile, nei consigli comunali e nelle commissioni parlamentari, nelle sedi dei sindacati e nelle università.