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I conti in tasca alla guerra ai talebani

di Emanuele Giordana* Gianni Rufini** - 12/11/2006

 
82 miliardi in quattro anni di spesa militare e solo un decimo per finanziare lo sviluppo. Meno di quel che costa in un anno il contingente americano. E Kabul scoppia di fame

A volte basta fare due più due per ottenere risultati incredibili. E rendersi conto che tutto quello che la comunità internazionale ha speso in Afghanistan in cinque anni per aiutarne lo sviluppo e migliorarne la qualità della vita, equivale a poco più del costo del contingente americano per sette mesi o, ad andar bene, di 30 mesi di mantenimento dei soldati dell'Isaf. E se la chiave del successo nei processi di ricostruzione è sempre stata la capacità - o meno - di produrre un salto di qualità in sicurezza, benessere, risanamento delle «piaghe» della guerra, riconciliazione, vitalità economica e culturale, miglioramento dei servizi, rapido ritorno a una vita normale, tutto questo è proprio ciò che in Afghanistan manca. E' forse davvero il momento di un «ripensamento», come ha detto ieri D'Alema prima di partire per Kabul.

Finora, il costo colossale delle spese militari ha fatto sì che per la ricostruzione non restassero che briciole. Se per lo tsunami sono stati stanziati dai Paesi donatori 11 miliardi di dollari, il Fondo di ricostruzione dell'Afghanistan ne ha ricevuti soltanto 1,4 dal 2002 ad oggi. Nel quadriennio seguito agli accordi di pace del 1995, la Bosnia aveva incassato 4 miliardi, pur avendo una popolazione che è un decimo di quella afgana. Senza considerare che l'Afghanistan è stato in guerra per 27 anni, e la sua situazione è veramente disperata.

Se si fanno i conti tra spesa militare e budget totale per lo sviluppo, il divario è impressionante: a fronte di una spesa per il contingente militare americano che si aggira sul miliardo di dollari al mese, ad esempio, Usaid (l'Agenzia di aiuto pubblico), che nel 2002/2003 aveva speso circa un miliardo di dollari, nel 2004 ha aumentato la quota a 1.133 milioni, diventati 1.568 nel 2005 ma solo 617 nel 2006 e 800 come previsione di spesa per il 2007. Se dunque il Dipartimento di stato ha speso 58 miliardi tra il settembre 2001 e l'aprile 2006, solo 3,5 (la cifra comunque più alta tra i donatori) sono stati incanalati a sostegno dello sviluppo.
A fronte di circa 66 dollari annui in aiuti pro-capite all'Afghanistan - secondo i conti del Senslis institute (Afghanistan five years later: the return of the Taliban/2006) - gli Stati Uniti spendono per propri i soldati circa 12 miliardi l'anno e la Nato-Isaf ne sborsa circa 3: un totale, negli ultimi cinque anni, di circa 82,5 miliardi, nove volte di più di quanto viene speso per finanziare lo sviluppo (7,3 miliardi tra il 2002 e il 2006). Per l'Afghanistan sono stati stanziati molti meno soldi - in rapporto alla popolazione - che per altre grandi crisi: 66 dollari per abitante contro 219 per la Palestina, 249 per la Bosnia e 256 per Timor Est. Nel 2005, con uno sforzo eccezionale, si è saliti a 182 dollari. Ancora troppo poco, e forse troppo tardi visto che la dimensione della povertà in Afghanistan è una delle più gravi del mondo. L'aspettativa di vita è di 44,5 anni, la mortalità infantile tra le più alte, il 60% dei bambini è cronicamente malnutrito. Meno di un terzo della popolazione ha l'acqua potabile e gli analfabeti sono il 70%. In più si muore anche di violenza. Quotidiana. Capillare. Strutturale. E coltivare l'oppio appare l'unico modo per sfuggire alla morsa della fame.

Inoltre, le cifre allocate sono molto inferiori alle promesse così che i conti tendono sempre a ridimensionarsi: nel 2004 la seconda Conferenza internazionale sull'Afghanistan a Berlino (dopo quella di Tokyo del 2002) si impegnò per 8,3 miliardi e quella del 2006 a Londra per altri 10,5. Singolare notare che in quell'occasione l'impegno maggiore è stato assunto dall'Aga Khan (un miliardo). Quello europeo conterebbe per il 30% (a Londra l'Italia si è esposta per 56 milioni!). Ammesso che arrivino tutti, come vengono spesi?

Oltre al problema endemico delle promesse non mantenute, c'è quello della corruzione e del «saccheggio in corso, soprattutto da parte delle compagnie private», come ha denunciato Jean Mazurelle, direttore della World Bank a Kabul. Eppure la coalizione internazionale arrivò a Kabul con un discreto credito da spendere. Ma «per gli afgani la finestra si sta chiudendo: c'è un'enorme crescita della frustrazione. Dopo tutte le promesse della comunità internazionale, la loro vita non è veramente cambiata di molto», dice una ricerca pubblicata in settembre del Feinstein international center della Tufts University («The humanitarian agenda 2015: principles, politics and perceptions»). Eppure l'unica cosa che non manca sono le promesse. L'iniziativa detta «Afghanistan compact», lanciata a Londra nel gennaio 2006, prevede che, entro la fine del 2010, «l'elettricità raggiungerà almeno il 65% delle famiglie e il 90% degli uffici nelle aree urbane e il 25% nelle aree rurali, il 50% degli abitanti di Kabul e il 30% nelle maggiori aree urbane avranno accesso alla rete idrica, i municipi avranno la capacità di gestire lo sviluppo urbano, assicurando che i servizi siano effettivamente garantiti efficientemente e in modo trasparente». Il paradosso è che si menzionano anche le «energie rinnovabili», come nei migliori dossier politicamente corretti.


* Lettera22
** Docente di peacekeeping all'Università di York