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I rapporti tra filosofia greca e orientale

di Paolo Vicentini - 13/11/2006

 

 

Agli inizi del XIX secolo, nelle sue Lezioni sul metodo dello studio accademico, Schelling scriveva: «Da Pitagora, e anche più in giù, fino a Platone, la filosofia si è resa conto di essere una pianta esotica sul suolo greco: un sentimento che si espresse già nella tendenza, largamente diffusa, che conduceva verso la madrepatria delle idee, l'Oriente, coloro che erano stati iniziati (o dalle teorie di antichi filosofi o dai misteri) a dottrine più alte».                        .

L'illustre pensatore romantico esagerava certamente 'per eccesso' nella valutazione dei rapporti che la filosofia greca poteva aver intrattenuto con quella orientale, ma altrettanto certo è che negli attuali manuali di storia della filosofia, anche quelli adottati nelle università, l'esagerazione è invece compiuta 'per difetto': non solo si cerca di sminuire qualsiasi ipotesi che relazioni dirette vi possano essere state, ma, quel che è peggio, si cerca in ogni modo di negare che in Oriente vi possa essere stata filosofia.

E' sorprendente che nel ventunesimo secolo si continuino a scrivere testi di storia della filosofia che in realtà concernono solamente la storia della filosofia europea. Ma è ancor più sorprendente, per non dire penoso, che qualora in essi si sia costretti a menzionare, per lo più di sfuggita, possibili correlazioni con filosofie extra-occidentali, vengano riproposti giudizi fondati su presupposti etnocentrici, o più semplicemente razzisti, i quali, se avevano una qualche ragione d'essere nei secoli scorsi come supporto ideologico alla conquista coloniale, oramai non possono che risultare nel migliore dei casi ridicoli.

La maggior parte degli autori di questi volumi, a dire il vero, non si prende nemmeno la briga di giustificare ideologicamente la mancanza di una benché minima menzione di una parte così rilevante del pensiero filosofico umano. Una scelta, questa, che pur non sminuendo la loro supponenza eurocentrica almeno li preserva dagli strafalcioni commessi da quei pochi che, invece, una qualche motivazione tentano per lo meno di darla.[1]

Fra i manuali di quest'ultimi, prendiamone in considerazione alcuni a titolo esemplificativo: Nicola Abbagnano - Giovanni Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino 1986; Renata Ameruso - Silvia Tangherlini - Marcello Vigli, I percorsi del pensiero, Lucarini, Roma 1987; Giovanni Reale - Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, La Scuola, Brescia 1983.

Ebbene, tutti quanti, anche l'ultimo che pure ha la pretesa di fornire una trattazione delle dottrine orientali più estesa che in altri testi, ripropongono nei capitoli dedicati alle possibili relazioni fra pensiero greco e pensiero orientale, le pressoché medesime considerazioni.

Riassuntivamente si possono così schematizzare:

1) Nessun autore classico fa riferimento ad una derivazione della filosofia greca dall'Oriente. I primi a sostenere questa tesi furono, in età ellenistica, alcuni orientali «per ragioni di orgoglio nazionalistico» e se i filosofi greci in epoca cristiana la avallarono «questo non prova nulla, perché oramai, questi filosofi avevano perduto la fiducia nella filosofia classicamente intesa e miravano ad una sorta di autolegittimazione contro i cristiani che presentavano i loro testi come divinamente ispirati».

2) Prima di Alessandro Magno (326 a. C.) non risulta siano giunte in Grecia

le dottrine degli orientali, né che siano stati utilizzati o tradotti loro scritti. In ogni caso gli unici rapporti intrattenuti con l'Oriente erano di ordine commerciale: la limitata conoscenza delle lingue straniere non permetteva ad alcun greco di dialogare con un sapiente indiano o un sacerdote egizio su questioni filosofiche.

3) I popoli orientali con i quali i Greci vennero in contatto possedevano una sapienza di tipo religioso, «intrisa di rappresentazioni fantastiche e mitiche», fondata sulla tradizione, contrariamente alla filosofia greca, frutto di libera ricerca, basata sulla pura razionalità (logos) e quindi in contrasto col sapere sacro tradizionale.

4) Ammessò e non concesso che alcune idee della filosofia greca siano

derivate dalla sapienza orientale, ciò non modifica in nulla l'originalità

speculativa dei greci, i quali avrebbero dato loro uno sviluppo e una sistemazione rigorosamente razionali.

Che si può dire di giudizi talmente sbrigativi e superficiali, per di più

esposti in poche pagine, anzi poche righe, senza nessun supporto scientifico, nessuna documentazione di carattere storico e filosofico che li avvalori? Forse, come sopra detto, affermazioni di questa portata avevano ancora senso all'epoca in cui Hegel poteva affermare, del tutto indisturbato e inconfutato: «in Oriente non può aversi conoscenza filosofica... pertanto il pensiero orientale va escluso dalla storia della filosofia» (Introduzione alla storia della filosofia, in Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1930, vol. I, pp. 112-115). Il pregiudizio di Hegel, solo parzialmente giustificato dal fatto che una scienza come l'orientalistica all'epoca muoveva i suoi primi passi, influì pesantemente sulla storiografia filosofica successiva. Oramai, però, l'orientalistica ha fatto passi da gigante, traducendo e pubblicando in edizioni critiche pressoché tutte le opere più importanti del mondo intellettuale indiano e cinese e fornendo intere biblioteche di testi critici riguardo aspetti anche secondari di queste culture. Non è dunque più ammissibile addurre come scusante la difficoltà dello studio delle fonti originali della filosofia orientale. E la pigrizia mentale, com'è ovvio, non è una scusa.

Ciononostante si perpetuano gli stessi triti luoghi comuni, spacciandoli per di più come verità scientifiche e, quel che è peggio, propinandoli a ignari studenti di scuole superiori che, evidentemente, continueranno a loro volta a perpetuarli.

 

Ma vediamo di esaminare analiticamente almeno alcuni di questi pregiudizi. Nella breve sintesi sopra riportata si possono ben distinguere i due ambiti argomentativi principali sui quali essi si fondano; uno storico: non risultano tracce di rapporti fra cultura greca e cultura orientale, se non di natura commerciale, prima dell'epoca di Alessandro Magno (punti 1 e 2); l'altro teorico: in Oriente vi è un sapere mitico e religioso, mentre la filosofia si distacca da esso poiché si fonda sulla razionalità (punti 3 e 4).

Ora, il primo aspetto è facilmente confutabile. Già Michele Losacco, nel 1929, concludeva il paragrafo dedicato a Le origini della speculazione greca e gli influssi orientali della sua Introduzione alla storia della filosofia greca (Laterza, Bari) dicendo: «Nello stato presente degli studi, è impossibile negare ogni rapporto tra gli inizi della speculazione ellenica e la sapienza orientale; è impossibile considerare quella come del tutto separata da questa» (p. 85). Da allora si è giunti a dimostare non solo che è impossibile negare ogni rapporto, ma che è anzi possibile verificare scientificamente la 'consistenza' di queste relazioni, che non si limitavano certo agli aspetti commerciali. Per rimanere nell'ambito degli storici della filosofia, e per citare solo qualche lavoro facilmente reperibile in lingua italiana, basti qui menzionare anzitutto le famose note Sui rapporti tra cultura e speculazione orientale e la filosofia e la scienza greca e Sopra il genio ellenico, curate da Rodolfo Mondolfo ed inserite nella sua edizione italiana aggiornata del primo volume de La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico di Eduard Zeller (La Nuova Italia, Firenze 1932, vol. I, pp. 63-99 e pp. 304-355), che finivano per rovesciare quasi completamente la tesi, sostenuta da quest'ultimo, dell'assoluta originalità della filosofia greca. Si può inoltre consultare con estremo profitto quel piccolo capolavoro di storiografia filosofica, dedicato proprio a questi problemi, che è l'articolo Gli Arii e il linguaggio simbolico del pensiero antico (in «Sophia», luglio-dicembre 1967, pp. 229-300) di Ada Somigliana, in cui l'autrice inserisce pienamente, senza soluzioni di continuità, la filosofia greca nella tradizione spirituale entro la quale essa ha avuto origine: quella indoeuropea. Infine, è disponibile in traduzione italiana il noto volume di Martin West: La filosofia greca arcaica e l'Oriente (tr. it. il Mulino, Bologna 1993); un'opera, uscita in edizione originale nel 1971, che mira proprio a dimostrare, grazie anche alla perizia filologica dell'autore, la presenza di temi sapienziali orientali nella speculazione dei filosofi greci molto prima delle conquiste di Alessandro. E lo fa in modo talmente scrupoloso e accurato, che uno storico della filosofia prima scettico, come Enrico Berti, nello scriverne la prefazione non ha potuto evitare di ammettere che: «indipendentemente da ulteriori possibili approfondimenti, il libro di West rimane un contributo... del tutto convincente anche per quanti, come chi scrive, erano precedentemente convinti dell'assoluta originalità della filosofia greca a causa della sua "forma" razionale» (p. 18).

. Il secondo aspetto è certamente più pernicioso e difficile da eliminare, benché non per questo meno confutabile. Difatti, se molti studiosi sono stati e sono disposti ad ammettere l'esistenza di influenze delle culture e religioni orientali, e non solo orientali, sulla cultura greca e quindi sulla nascita della filosofia in Occidente, ben pochi riescono ad abbandonare la convinzione che, nonostante queste analogie di "contenuto", la "forma" del pensiero filosofico greco, cioè la razionalità, sia assolutamente originale.

Questo pregiudizio ha radici molto lontane nel tempo, risalendo esso all'epoca romantica, quando in Europa si assistette ad una vera e propria moda dell'Oriente, tanto che non pochi ne videro la culla di ogni sapere e di ogni civiltà. La tesi dell'origine orientale della filosofia fu sostenuta ad esempio dall'abate Simon Foucher (1755), da Schelling (1803), da Victor Cousin (1829) e da August Gladisch (1841). Ad essa, com’è noto, si contrappose quella del cosiddetto «miracolo greco», cioè dell'assoluta originalità del genio filosofico ellenico, che ebbe in Hegel (1805) e Zeller (1855) due dei più noti esponenti. In particolare quest'ultimo sottopose ad una severa critica i lavori di Gladisch, condizionando la storiografia filosofica fino ai nostri giorni. Pur riconoscendo l'evidenza incontestabile degli influssi che fin dalle sue origini e nel corso della sua storia il mondo greco aveva subito dai popoli che l'avevano formato e con cui era entrata in contatto, Hegel e Zeller sottolineavano come la filosofia antica, non tanto per i suoi contenuti, che potevano essere anche di origine mitica e religiosa, ma per la sua forma razionale, fosse una specifica creazione ellenica. Quel che però è più interessante notare, è che anche autori che sostenevano la tesi degli influssi orientali, come Gladisch, erano convinti dell'innata superiorità del genio greco, ed evoluzionisticamente vedevano nella sistematizzazione filosofica da esso operata il coronamento degli sforzi intellettuali dei popoli precedenti. A dimostrazione della perniciosità di questo pregiudizio, va poi ricordato che la recente opera del sopracitato West (1971), filologo classico eccellente ma non altrettanto eccellente filosofo, non ha modificato per nulla tale tesi. Per molti, vale ancora la boutade di Martin Heidegger: «Wer Philosophie sagt, spricht griechisch».

A confutarla sono però sufficienti due ordini di considerazioni, opposte eppure complementari. In primo luogo, si può affermare con tutta sicurezza che il pensiero orientale non è mai stato solo religioso e mitologico; in secondo luogo, la storiografia ha oramai chiarito definitivamente che nell'ambito della cultura greca non vi è mai stata netta linea di demarcazione fra l'origine del sapere filosofico ed il sapere religioso che lo aveva preceduto.

Per quanto riguarda il primo genere di considerazioni, sono ancora valide le osservazioni che al riguardo faceva il grande indologo Helmuth von Glasenapp nel capitolo Filosofia dell'India e filosofia dell'Occidente della sua celebre opera Filosofia dell'India (tr. it. S.E.I., Torino 1988), la cui prima edizione uscì nel 1949: «Si è spesso affermato che la filosofia indiana non meritava d'esser messa alla pari con quella occidentale, dato che s'innalzava solo raramente "alla formulazione scientifica dei concetti", oppure che "in essa era scarsamente sviluppata l'esigenza di garantire la conoscenza mediante la dimostrazione": ciò è indubbiamente inesatto e si fonda solo sull'ignoranza. Basterebbe la lettura delle opere esistenti in traduzione tedesca, come i commenti ai Vedanta-sûtrâ di Shankara e Râmânuja o quelli ai trattati sânkhya di Vâcaspatimishra e di Vijñânabhikshu, nonché la Nyâya-siddhânta-muktâvalî di Vishvanâtha Pañcânana, per convincere facilmente chiunque dell'infondatezza di tale opinione. Il giudizio si fonda su una falsa generalizzazione: nei riguardi della filosofia europea esso potrebbe venir pronunciato con ugual diritto da un indiano che avesse letto soltanto le massime e le poesie dei presocratici e i trattati dei filosofi cristiani. E' altrettanto arduo stabilire una differenza qualitativa tra filosofia indiana e occidentale, sostenendo che la prima è una speculazione religiosa e mistica e la seconda è il risultato d'una ricerca scientifica libera da presupposizione. Se si parte da un punto di vista positivistico, secondo il quale l'oggetto della filosofia sarebbe formato soltanto dalla scienza dei principi gnoseologici mentre tutto il resto esulerebbe dal suo campo, allora si dovrebbe eliminare come non appartenente alla filosofia la più gran parte di ciò che i pensatori dell'Occidente hanno professato riguardo a questo mondo e all'aldilà. Il concetto di filosofia, in tale caso, viene ad assumere un significato che non corrisponde più, in nessun modo, a quello che è stato legato a questo nome, fin dall'antichità» (p. 22).

Poco resta da aggiungere a quanto così ben sintetizzato da von Glasenapp. Saremmo noi forse disposti ad eliminare dalla storia della filosofia, ad esempio, tutta la parte riguardante il periodo medievale, in quanto non "puramente razionale"?

Certo, generalmente parlando la filosofia orientale ha anche - ma non solo - una finalità pratica di tipo soteriologico: la liberazione dalla sofferenza, dal ciclo della nascita e della morte, dal divenire del molteplice ecc. Ma non aveva forse la filosofia greca gli stessi intenti pratici e terapeutici? E non mantenne forse questo carattere nel periodo ellenistico e romano? Pierre Hadot, illustre storico della filosofia antica, ha dedicato un intero volume, Esercizi spirituali e filosofia antica (tr. it. Einaudi, Torino 1988), ad illustrare questa precisa continuità. Egli scrive: «Diversamente da quanto accade troppo spesso [v. ad es. sopra il punto 1], non si deve dunque immaginare che la filosofia si sia radicalmente trasformata nell'epoca ellenistica... Già in Socrate e nei suoi discepoli la filosofia è un modo di vivere, una tecnica della vita interiore. La filosofia non ha cambiato la propria essenza, nel corso della sua storia nel mondo antico. In genere gli storici della filosofia prestano un'attenzione abbastanza scarsa al fatto che la filosofia antica sia anzitutto una maniera di vivere. Considerano la filosofia soprattutto come un discorso filosofico. Come spiegare l'origine di tale pregiudizio?» (p. 160). Del resto, proprio Giovanni Reale, fermo sostenitore della «filosofia come creazione del genio ellenico», in una delle ultime edizioni della sua Storia della filosofia antica (vol. I. Dalle origini a Socrate, Vita e Pensiero, Milano 1984, 4a ed.), ha ammesso che «la theoria greca non è solo una dottrina di carattere intellettuale e astratto, ma è altresì, sempre, una dottrina di vita, o, per dirla in altra maniera, è una dottrina che postula strutturalmente un inveramento esistenziale, e, di norma, ad esso si accompagna» (p. 478). Quest'inveramento esistenziale, continua più oltre Reale, è volto al perseguimento della felicità (eudaimonia), ottenuta per lo più, come in Platone ed Aristotele, mediante l'assimilazione al Divino (pp. 482-483). Dovremmo allora eliminare anche Platone e Aristotele dalla storia della filosofia? Ed in nome di quale sua angusta concezione?

Se non bastasse, che il pensiero orientale non abbia solo un valore religioso, ma profondamente filosofico, è testimoniato dal fatto che la "filosofia comparata", come disciplina specifica, ha superato di gran lunga gli ottant'anni, risalendo la sua fondazione al 1911, data di pubblicazione del saggio di Paul Masson-Oursel, Objet et méthode de la philosophie comparée (in «Revue de Métaphysique et de Morale», XIX, 1911, pp. 540-548); mentre nel mondo anglosassone la "comparative philosophy" fu inaugurata nel 1939 dalla "East West Philosophers Conference", tenutasi presso l'Università delle Hawaii ad Honolulu, e dal 1950 la stessa università pubblica la rivista "Philosophy East & West", ricchissima di studi di alto valore scientifico e punto di riferimento a livello mondiale per chi sia interessato a questi temi.

Per tornare poi al secondo genere di considerazioni, sopra solo accennato, si è oramai fatta strada una ricostruzione delle origini della filosofia greca che pone estrema attenzione ai suoi legami di continuità con la tradizione religiosa arcaica dell'Ellade. Si pensi solo, per non citare che due nomi, ai lavori di Francis M. Cornford: From Religion to Philosophy. A Study in the Origin of Western Speculation (Arnold, London 1912), e Principium Sapientiae. The Origins of Greek Philosophical Thought (Cambridge University Press, Cambridge 1952); e di Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci (tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1961). Scriveva Cornford già nel 1912: «Vi è una reale continuità fra la più antica speculazione razionale e la rappresentazione religiosa che giace dietro essa; e ciò non è solo materia di analogie superficiali, come l'equivalenza allegorica degli elementi con gli dei della fede popolare. La filosofia ereditò dalla religione alcune grandi concezioni - per esempio, le idee di "Dio", "Anima", "Destino", "Legge" - le quali continuarono a definire gli orientamenti del pensiero razionale e a determinare le sue principali direzioni. La religione si esprime in simboli poetici ed in termini di personaggi mitici; la filosofia preferisce il linguaggio della nuda astrazione, e parla di sostanza, causa, materia, e così via. Ma la differenza esteriore maschera solo una interna e sostanziale affinità fra questi due successivi prodotti della medesima consapevolezza. I modi di pensiero che cercano una definizione chiara ed una esplicita enunciazione nella filosofia, erano già impliciti nelle intuizioni non argomentate della mitologia" (From Religion to Philosophy, cit., Prefazione, p. V).

Una correlazione, questa fra tradizione filosofica e religiosa, talmente evidente da far azzardare ad un grande storico italiano della filosofia greca, Giorgio Colli, l'ipotesi che la filosofia di Platone ed Aristotele non fosse altro che «un tentativo di divulgazione letteraria dei misteri eleusini, in cui l'accusa di empietà veniva prevenuta con l'evitare qualsiasi riferimento ai contenuti mitici dell'iniziazione» (La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, Introduzione, p. 29).

 

Giunti alla fine del nostro discorso, vorremmo fosse chiaro che non si intendeva e non interessava qui dimostrare la priorità, qualitativa o anche solo cronologica, della filosofia orientale su quella occidentale, o viceversa. Anche perché riteniamo i termini stessi di "filosofia orientale" o "pensiero orientale", così come di "filosofia occidentale" e "pensiero occidentale", talmente vaghi da essere in realtà dei contenitori senza contenuto, ovvero dei contenitori dai contenuti più disparati, come è ovvio che sia dopo millenni di storia umana d'Oriente e d'Occidente.

Ci interessava, invece, ribadire che a Oriente come a Occidente e a Settentrione come a Meridione si è data filosofia, vera filosofia, perché laddove vi è intelligenza vi è filosofia, vi è ricerca della conoscenza. E ci interessava ribadirlo, oltre che per una esigenza di verità, anche per una necessità etica.

E' inutile imprecare contro fenomeni come il razzismo e l'etnocentrismo se poi nelle scuole non si insegna a conoscere realmente, se non ad apprezzare, culture e visioni del mondo diverse dalle nostre eppure pari alle nostre per dignità e profondità. E' inutile parlare di dialogo interreligioso e interculturale, di rispetto dei diritti dei popoli oppressi, se poi si continuano a misconoscere e svalutare dal punto di vista intellettuale persino culture millenarie come quelle indiana e cinese, per non menzionare che queste, seguendo in ciò una logica che, consciamente o inconsciamente, fa ancora dell'Europa la culla della civiltà, di ogni civiltà.

 



[1] E' doveroso segnalare, con una nota di merito, gli unici due manuali che fanno eccezione rispetto a questo giudizio. Ernesto Balducci, nella sua Storia del pensiero umano (Cremonese, Firenze 1986), adottando una prospettiva deliberatamente interculturale, ha inserito, unico fra tutti, ampi stralci di storia delle filosofie extra-europee, accanto a quelle europee. Mentre Paolo Rossi e Carlo Augusto Viano, curatori della Storia della filosofia (Laterza, Bari 1993), pur non giungendo a tanto, hanno però almeno ricordato che: «Il predominio di schemi dossografici ci ha privato di notizie precise sulla cultura greca proprio in un punto delicato della connessione tra Grecia e Oriente; su questo vuoto si sono gettate le mitologie storiografiche costruite sul 'miracolo greco' e sull'originalità dello spirito ellenico» (vol. I, pp. 10-11).