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Guerra civile in Libano

di Robert Fisk - 25/11/2006


Il fuoco ha bruciato l’altra notte nelle strade della Beirut cristiana. Centinaia di giovani e sporadici gruppi di uomini armati si sono riuniti nei dintorni di Jdeideh, dove Gemayel è stato ucciso. “Non voglio vendetta”, ha dichiarato il padre Amin di fronte all’ospedale dove è stato portato il corpo del figlio. Ma la violenza è palpabile nella città dove quattro tra politici e giornalisti anti-siriani in 21 mesi sono stati assassinati

Guerra civile: queste le parole che dall'altro ieri escono di bocca. L’assassinio di Pierre Gemayel – nel quartiere cristiano di Beirut, in pieno giorno, l’auto su cui viaggiava il ministro dell’industria del governo libanese è stata avvicinata in perfetto stile mafioso da un altro veicolo, da cui un killer gli ha sparato alla nuca – è stato un messaggio per quanti di noi vivono oggi in questa terra disgraziata.

Per giorni abbiamo dibattuto se fosse arrivato il momento di temere un altro omicidio politico volto a condizionare le divisioni settarie, ora che il governo democraticamente eletto del Primo Ministro Fouad Siniora è entrato in crisi. Da giorni, il linguaggio della politica in Libano è diventato incendiario, le minacce dei suoi protagonisti ancor più inquietanti. Sayed Hassan Nasrallah, il leader sciita di Hezbollah, ha definito illegittimo il gabinetto di Siniora. “Il governo di Feltman”, ha tuonato – Jeffrey Feltman è l’ambasciatore Usa in Libano; il druso Walid Jumblatt, il capo dell'opposizione riformista libanese, ha invece denunciato la volontà dell’Iran di assumere il controllo della situazione.

L’assassinio di Pierre Gemayel è stato un avvertimento. Avrebbe potuto toccare a Jumblatt, che più volte mi ha confessato di essere preparato all’idea di essere ammazzato, o allo stesso Siniora, il piccolo economista amico del defunto primo ministro Rafik Hariri.

Ma non è andata così. Gemayel, figlio dell’ex presidente Amin Gemayel e nipote del presidente eletto Bashir Gemayel, assassinato a sua volta nel 1982, non è mai stato una figura particolarmente carismatica; piuttosto, un laborioso ministro cristiano maronita, scapolo, il cui non ricompensato compito è stato quello di favorire il ritorno in patria degli emigrati libanesi, allo scopo avviare la ricostruzione del paese dopo i bombardamenti isreliani.

Il fuoco ha bruciato l’altra notte nelle strade della Beirut cristiana. Centinaia di giovani e sporadici gruppi di uomini armati si sono riuniti nei dintorni di Jdeideh, dove Gemayel è stato ucciso. “Non voglio vendetta”, ha dichiarato il padre Amin di fronte all’ospedale dove è stato portato il corpo del figlio. Ma la violenza è palpabile nella città dove quattro tra politici e giornalisti anti-siriani in 21 mesi sono stati assassinati.

Gemayel era un severo critico della Siria, e per questo il figlio di Hariri Saad – leader della coalizione anti-siriana “14 Marzo”, che controlla il parlamento – ha chiamato in causa Damasco per la sua morte.

Niente in Libano accade per caso: i detective politici, considerato come quasi sicuramente le forze di polizia non assicureranno gli assassini di Gemayel alla giustizia, dovranno guardare oltre i confini del paese per capire perché il fantasma della guerra civile è tornato ad angosciare i libanesi.

Come mai Gemayel muore proprio qualche ora più tardi dell'annuncio siriano del ripristino delle relazioni diplomatiche con l’Iraq dopo un quarto di secolo? Perché Nasrallah minaccia dimostrazioni di piazza a Beirut per colpire il governo dopo che Siniora accetta il tribunale ONU per scovare i sicari di Hariri?

E perché l’ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, John Bolton, piange lacrime di coccodrillo per la democrazia in Libano – a cui sembrava così poco tenere quest’estate quando Israele non risparmiava un colpo – senza menzionare la Siria?

Tutto questo, naturalmente, nello stesso momento in cui migliaia di soldati occidentali presenziano il Libano meridionale sotto la forza ONU – soldati che dovrebbero proteggere Israele (cosa che non potranno fare) e disarmare Hezbollah (cosa che non faranno), e che nel frattempo sono già stati minacciati da al-Qaeda.

Non meraviglia che gli europei, le cui forze armate ONU ora sono bloccate nel sud del paese, siano preoccupati. Non meraviglia che il Foreign Office abbia detto ai cittadini britannici di stare alla larga dal Libano. Non meraviglia che Tony Blair, screditato in Medio Oriente come in Gran Bretagna, abbia invocato – invano – un’inchiesta per l’omicidio di Gemayel.

Tuttavia, ipocrisia non è la parola giusta, anche se la storia recente lo suggerirebbe. Quando il 12 luglio scorso Hezbollah ha rapito due soldati israeliani e ne ha uccisi altri tre, Israele ha bombardato il Libano per 34 giorni, massacrando più di mille civili e causando danni per miliardi di dollari. Bolton e i suoi collaboratori della diplomazia non mossero un dito. George Bush voleva che Israele distruggesse Hezbollah – obiettivo totalmente mancato – come avvertimento per il suo ultimo bersaglio mediorientale, l’Iran, il principale sostenitore del movimento armato sciita. Ma che mirabili intenzioni a favore della democrazia in Libano! Anche Blair, ultimamente così ansioso, nulla fece per favorire un immediato cessate il fuoco.

Successivamente alla guerra e al fallimento degli obiettivi di Israele, Sayed Nasrallah ha iniziato a proclamare la propria “vittoria divina” e la sconfitta di Sinora. Hezbollah è a sua volta vicino alla Siria; nessuno si è sorpreso che il governo libanese anti-siriano sia caduto sotto il giogo del prelato sciita – le cui recenti gigantografie in lungo e in largo per il Libano sgombrano il campo da dubbi sulle sue smanie di venerazione.

Una quindicina di giorni fa, i sei ministri sciiti del gabinetto Sinora si sono ritirati, lasciando la più vasta componente religiosa del Libano senza rappresentanza. Lunedì, il governo libanese, Gemayel incluso, ha approvato il piano ONU per un tribunale che faccia giustizia dell'assassinio di Hariri – in cui come noto molti libanesi, e non solo, vedono la mano siriana. Tuttavia, consolidata l’assenza dei rappresentanti sciiti, la decisione rischia di essere affetta da un deficit di legittimità. E Nasrallah non ha perso tempo per chiamare la gente in strada.

Se egli è una creatura di Siria e Iran – aspetto di cui i libanesi continuano a discutere nonostante le smentite del leader sciita – non avrebbe potuto esserci modo migliore di attaccare l’anti-siriano governo libanese. “Non abbiamo fiducia in questo governo perché lo riteniamo al servizio dell’amministrazione statunitense”, ha ribadito Nasrallah. “… l’ordine che ha ricevuto è stato quello di far sì che la politica Usa nella regione non cambiasse. Gli americani hanno detto: ‘Siamo con voi. Non mollate!’”. Nasrallah ha anche redarguito coloro che l’hanno accusato di voler ideologicamente fomentare la crisi tra musulmani sciiti e musulmani sunniti, sebbene molti sanno che all’origine dei sanguinosi scontri settari tra le due comunità ci sia l'esasperazione di motivazioni prettamente religiose.

E gli Stati Uniti? Davvero sostengono Sinora, il cui esecutivo potrebbe ora doversi congedare definitivamente? Alle Nazioni Unite, qualche giorno fa, Bolton l’ha sostenuto, al contempo evitando a fatica di citare il nome della Siria. Ciò, quasi sicuramente, significa che Washington ha realizzato di aver bisogno anche di Damasco – come di Teheran – per uscire in un qualche modo dal pantano iracheno.

Accanto alla catastrofe americana in Mesopotamia, la democrazia del Libano e del governo Sinora purtroppo valgono poco – e Siria e Iran lo sanno bene. Fra l'altro Damasco, l’altro giorno, ha ripreso le relazioni con il governo iracheno sostenuto dagli Usa.

Ieri, 22 novembre, il Paese dei cedri ha celebrato – mai espressione è sembrata più fuori posto – il suo 63esimo anno di indipendenza dalla Francia, le cui truppe stanno oggi pattugliando il Libano meridionale. Il governo Siniora esiste ancora. Con la morte di Gemayel, comunque, basterebbe la perdita di altri due ministri per delegittimare il suo esecutivo monco della componente sciita, e dire addio alla democrazia in Libano.

Magari i libanesi sono oggi troppo maturi per un’altra guerra civile. Ma i loro ministri sanno di doversi guardare dal guidare per le strade di Beirut nei prossimi giorni. L’ennesimo tragico agguato al finestrino delle loro auto potrebbe essere dietro l’angolo.

Robert Fisk vive a Beirut da trent'anni. Scrive per 'The Independent' e collabora con il sito Counterpunch. Corrispondente dalla capitale libanese per il quotidiano britannico, è uno dei più autorevoli esperti di questioni mediorientali. Ha intervistato tre volte Osama bin Laden.

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Fonte: The Independent
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media