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Michael Walzer: «E’ guerra civile: solo il ritiro americano può portare pacificazione»

di Ennio Carretto - 25/11/2006

 
Il disimpegno Usa può indurre gli iracheni a formare un vero governo di coalizione
 
 
WASHINGTON—«Da sei, otto mesi l'Iraq andava verso la guerra civile. Temo che adesso abbia varcato la soglia. La situazione peggiora di giorno in giorno, rischia di esplodere». Al telefono dal suo ufficio all'Università di Princeton, Michael Walzer, uno dei massimi filosofi politici americani, ammonisce che «rimane ben poco tempo per fermare il conflitto fratricida». Nessuno, ammette, al momento dell'invasione dell'Iraq aveva previsto uno sbocco del genere, ma l'escalation delle atrocità è inaccettabile. «Il bagno di sangue iracheno deve cessare al più presto. Assieme alle crisi libanese e palestinese è il più grave fattore d'instabilità in Medio Oriente».
Che cosa è cambiato in Iraq negli ultimi mesi?
«La natura del conflitto. Inizialmente, era una guerra tra la jihad islamica e le truppe americane, o tra il terrorismo e la democrazia come ama dire il presidente Bush. Poi è diventata una guerra tra gli insorti, in prevalenza saddamisti, e le forze di occupazione. Ma oggi è una guerra civile, sunniti contro sciiti, che semina stragi tra i civili innocenti».
Le truppe americane non possono fermarla?
«Le truppe americane e britanniche premono fortemente sull'esercito e sulla polizia iracheni perché non si comportino in maniera settaria e arginino il conflitto. Ma soprattutto nel caso della polizia, hanno avuto finora un successo limitato: al suo interno, vi sono elementi che fomentano la violenza. Le nostre forze spesso non possono intervenire in prima persona perché verrebbero coinvolte nella guerra».
Esiste una soluzione?
«Forse l'unica soluzione possibile è stabilire un calendario per il nostro graduale ritiro. Se il conflitto fosse ancora tra la jihad e noi, sarebbe un errore, significherebbe concedere la vittoria ai terroristi. Ma siccomenon lo è più, sarebbe un modo per costringere gli iracheni a cercare di formare un autentico governo di coalizione. Quello attuale non lo è di certo».
Non significherebbe abbandonare l'Iraq al caos?
«Il rischio ci sarebbe, ma proprio la prospettiva del caos farebbe cambiare posizione a molta gente. L'Iraq sta per sfaldarsi e i leader sarebbero costretti ad assumersi le proprie responsabilità. Naturalmente noi e i Paesi del Medio Oriente e del Golfo persico dovremmo aiutarli promuovendo una conferenza di riconciliazione nazionale e una serie di conferenze regionali».
Non sarebbe una corsa contro il tempo?
«Siamo già in corsa contro il tempo, basta guardare quello che succede in Libano e in Palestina, oltre che in Iraq. La regione è una polveriera, l'amministrazione Bush ne ha trascurato i problemi troppo a lungo. Gli iracheni devono cominciare a dialogare realmente tra di loro, e l'America deve cominciare a dialogare anche con i nemici veri o presunti come la Siria e l'Iran».
Ha ragione chi sostiene che sunniti e sciiti combattono una guerra di religione che può estendersi ad altri Paesi?
«Secondo me è un'interpretazione semplicistica. La situazione è resa più complessa dai fattori locali. In Libano c'è una alleanza cristiano-sunnita contro gli sciiti. In Siria, un Paese in prevalenza sunnita, è al potere la fazione alawita. In Iraq ci sono i curdi, che presentano un potenziale problema per la Turchia, dove questa etnia reclama l'indipendenza».
Quindi?
«Quindi ci vogliono negoziati bilaterali oltre che multilaterali. Per questo parlo di una serie di conferenze».
Ennio Caretto