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Ankara non vale una messa

di Neri Santorini - 30/11/2006

 

Battuta d'arresto per i negoziati sull'ingresso della Turchia nell'Unione Europea a causa di Cipro. Tanto che l'11 dicembre i 25 capi di stato e di governo decideranno di congelarli. Per ora lo stop riguarda solo i capitoli commerciali, ha suggerito oggi la Commissione Ue,visto che Ankara continua a violare con Cipro i principi elementari di libero scambio. Ma il Consiglio Europeo potrebbe andare oltre e "punire" Ankara anche sul piano politico, fermando tutto il processo negoziale. Proprio adesso che Papa Ratzinger, tra mille difficoltà, compie un faticoso gesto di distensione con la sua visita in Turchia. "La Chiesa non fa politica", ha detto il Papa al premier turco Erdogan, che si è degnato di riceverlo in aeroporto per pochi minuti solo quando ha capito che gli islamici nelle piazze turche non sono poi tanti. E' vero che il Vaticano non prende decisioni a Bruxelles. Ma proprio la Chiesa di Ratzinger ha insistito molto, e invano, affinché la Costituzione europea sottolineasse le radici cristiane d'Europa.

Come la mettiamo con 70 milioni di turchi di fede islamica che bussano alle porte dell'Unione? Per l'Europa laica il problema non è questo: sono i principi e i metodi della democrazia, il rispetto dei diritti umani, la tutela delle minoranze (i tanto dimenticati curdi e perfino i cristiani); insomma gli standard occidentali della convivenza civile. E poi c'è un problema politico grande come un'isola, quella di Cipro, dove sorge ancora l'ultimo muro d'Europa. Divide il sud, la parte maggiore entrata nell'Ue nel 2004, dalla striscia settentrionale, occupata dalla Turchia nel 1974 per fondarvi la Repubblica turca di Cipro, stato satellite di Ankara e solo da lei riconosciuto.

Se Cipro era e resta lo scoglio più visibile sulla rotta della Turchia verso Occidente, è vero anche che la questione turca è molto più complessa e spinosa. Divide i 25 governi membri dell'Ue da quando il negoziato di adesione di Ankara all'Unione è cominciato formalmente, nell'ottobre dello scorso anno. Negoziato a cui gli europei assegnano tempi biblici per la politica: almeno dieci o quindici anni. Quanto basta perché tocchi ad altri la scelta difficile: sì o no alla Turchia in Europa? E in quale Europa? Domande che sembrano ruotare intorno a una crisi d'identità.

Una Unione ridotta a un libero mercato con un club di Stati che litigano per trarne qualche piccolo vantaggio ad uso interno? O un'Unione quasi federale, capace di decidere qualcosa e di realizzare una politica estera e di difesa comune? Un'Europa come quella di oggi, paralizzata dalle sue dimensioni e dalla burocrazia che ha reso i cittadini estranei al progetto comune. Tanto che francesi e olandesi hanno bocciato la nuova Costituzione con un referendum. Allargata da 15 a 25 in pochi anni, l'Ue non ha adeguato le sue istituzioni al quasi raddoppio del numero degli stati membri (diventano 27 dal primo gennaio con l'ingresso di Bulgaria e Romania).

Per molti il male dell'Unione è proprio in questo precipitoso allargamento. Tanto che alcuni "padri fondatori", come Valery Giscard d'Estaing o Helmut Schmidt,chiamati da Carlo Azeglio Ciampi a Firenze al capezzale dell'Europa, non hanno parlato d'altro. L'ansia di includere gli stati orientali appena liberati dalla caduta dell'impero sovietico era comprensibile alla luce di mezzo secolo di guerra fredda. Li abbiamo "salvati" da un potenziale risveglio imperiale di Mosca. E zar Putin non fa nulla per smentire questa tesi, anzi. Nella rincorsa alla Turchia, aleggia l'incubo di un altro conflitto: quello tra Islam e Cristianesimo, quello "scontro di civiltà" che gli integralisti di entrambe le parti alimentano con insistenza.

Una Turchia che chiede di entrare in Europa è la grande occasione per creare un ponte tra i due mondi. E anche solo il prolungarsi del negoziato dovrebbe favorire la crescita di una Turchia democratica, laica e "occidentale" che divenga un esempio e un polo d'attrazione per tutto il mondo arabo e islamico. L'idea appare convincente, piace in Europa ai liberali, ai radicali e ai socialisti e anche ai più scettici,come le forze politiche di ispirazione cristiana. Ma in fondo è semplicistica,figlia della nuova ossessione per il presunto nemico islamico e terrorista che minaccia l'Occidente. Proprio Helmut Shmidt, ex cancelliere socialdemocratico e laico, invita a non precipitare. Primo perché un altro allargamento sarebbe catastrofico per la già agonizzante Unione. Già i nuovi membri orientali, quelli della "Nuova Europa" tanto cara all'ex ministro della difesa Usa Donald Rumsfeld, si comportano da alleati dell'America, quasi come una quinta colonna americana per frenare l'autonomia europea.

Secondo motivo: la Turchia non è questo ponte ideale col mondo islamico che si immagina, anche se è il primo e più influente Paese che abbia realizzato, col suo fondatore Kemal Ataturk, la separazione tra stato e religione. Bisogna pensare alla storia, finita solo con la prima guerra mondiale, e all'eredità di cattivi ricordi e antichi rancori, spiega Shmidt, che l'impero turco ottomano ha lasciato in tutti i paesi arabi che ha dominato per secoli. E ricordare anche che la Turchia oggi è alleata di Israele anche in termini militari. E, ancora, che Ankara è prima di tutto l'alleato più orientale della Nato, quello a cui Washington tiene maggiormente proprio per la sua collocazione geografica. Infine non dimentichiamo ancora i Curdi,25 milioni di persone che si sono visti negare uno stato e sono stati oppressi in Turchia, Iraq e Iran. I loro diritti, nell'ottica europea, non si possono cancellare ancora una volta in nome di una ragion di stato, per quanto strategica ed europea essa sia.

E se abbiamo bisogno di riannodare un dialogo vero con l'immenso mondo islamico - conclude Shmidt ricordando che i turchi sono 70 milioni ma i musulmani nel mondo sono un miliardo e duecento milioni - guardiamo con attenzione ad altri luoghi chiave perché l'Islam non ha un solo centro come il Cattolicesmo. Per esempio Baghdad?