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Home / Articoli / Ultime notizie dal mondo 15-30 Novembre 2006

Ultime notizie dal mondo 15-30 Novembre 2006

di redazionale - 05/12/2006


 

a) Libano. Situazione estremamente delicata nel paese. Da un lato un governo che teme il confronto elettorale perché minoritario nel paese e che è accusato di prendere decisioni illegittimamente (vedere il perché al 15 e 22 novembre), a fronte di Hezbollah e cristiani del generale Aoun in piazza ad oltranza per le sue dimissioni (30 novembre). Dall’altro chi non vuole una soluzione pacifica, politica/elettorale della crisi, e agisce per un ritorno alla guerra civile. L’assassinio di Gemayel (ricco blocco di notizie su storia, prospettive, dichiarazioni al 22, 23, 24 novembre) va chiaramente in questa direzione. Sulla vicenda Hariri vedere al 15 e 26 novembre. Israele intanto prosegue nelle sue violazioni della sovranità libanese e della risoluzione ONU 1701 (18 novembre), prepara la sua prossima aggressione anche con le nanotecnologie (23 novembre), con l’Italia arruolata nella ricerca, e teme le (contraddittorie) aperture verso Iran e Siria sull’Iraq (15 novembre). E in Palestina? Si muore, tanto per non cambiare. La mattanza israeliana –quand’è che si dirà “genocidio”?– si ferma per ora sui tetti delle case palestinesi (20 novembre) e scatena la rabbia anche delle nonne: la vicenda di Fátima Omar Mahmud Al-Najar nonna «martire» (25 novembre). L’ultimatum di Hamas al 26 novembre.

 

b) Iraq. Nel pantano iracheno Washington non sa più cosa fare. Ormai sta diventando una ovvietà dirlo, ma il tempo passa, le cose non cambiano ed il botto per gli occupanti è incerto nei soli termini del quando e del quanto. L’uscita di Blair è illuminante (19 novembre). Alla Casa Bianca aspettano ora i risultati della Commissione congiunta democratico-repubblicana (26, 30 novembre). Intanto: l’ovest del paese pare militarmente perso per gli occupanti (29 novembre); storie di ordinaria criminalità di contractors (18 novembre); i rapporti tra amministrazione Bush e governo al Maliki (30 novembre), con al Sadr non proprio sullo sfondo (29 novembre). Non vanno meglio, anzi, le cose in Afghanistan per gli occupanti. La Casa Bianca vi ha dedicato il vertice NATO di Riga (raffica di notiziole a USA. 30 novembre e Afghanistan. 29 novembre) per coinvolgere gli alleati/subalterni direttamente sul terreno. Sorprendente dichiarazione di un generale italiano nel paese asiatico occupato (23 novembre). Un economista fa il punto della situazione nel paese (15 novembre), mentre Karzai trema e lancia appelli (19 novembre)

 

c) America Latina. Partiamo dall’Ecuador (27 novembre). Eletto il nuovo presidente, Rafael Correa Delgado. Chi è e cosa può cambiare dopo la sua elezione. In Bolivia passa una riforma agraria (29 novembre). In Colombia connivenze paramilitari e governo Uribe (18 novembre), storie di ordinaria connivenza di poliziotti e militari (18, 24 novembre) e il caso di Trinidad, un capo guerrigliero delle FARC (21 novembre). Il Venezuela in attesa della riconferma di Chávez (15 e 20 novembre). Gli USA sentono che l’aria in America Latina si fa sempre più irrespirabile e riaprono la “scuola dei dittatori e della tortura” (15 novembre).

 

Sparse ma significative:

 

·         Irlanda del Nord. Come sta evolvendo la situazione politica (17 e 30 novembre). Un lealista irrompe in parlamento per uccidere Adams e McGuinness (25, 26, 30) ed il fatto ha ovvie ricadute politiche. Anche in relazione ai temi dibattuti nell’incontro, per certi versi ‘storico’, tra Sinn Féin – DUP (21 novembre).

 

·         Nepal. Dopo l’accordo tra governo e guerriglia (22 novembre), nodi e prospettive.

 

·         Cina. Uno sguardo alle sue proiezioni geopolitiche e geoeconomiche in India e Pakistan (22 novembre).

 

·         Iran. Sul caso AMIA l’Argentina (16 novembre) lavora con gli USA contro Teheran. Sul nucleare iraniano Bush se la prende con la CIA che frena la Casa Bianca (USA / Iran. 21 novembre). Tel Aviv e Washington non desistono dai propositi di bombardare Teheran (22 novembre), che pure offre il suo aiuto in Iraq e dispensa consigli (27 e 30 novembre). Sul nucleare vale la pena dare un’occhiata a USA / India (22 novembre).

 

 

Tra l’altro:

 

Euskal Herria (30 novembre).

Somalia / Etiopia (29, 30 novembre).

Eritrea / USA (16 novembre).

Canada (29 novembre).

Messico (16, 20 novembre).

Unione Europea / USA (30 novembre).

 

 

  • Gran Bretagna. 15 novembre. Blair coinvolge gli «Stati canaglia». Iran e Siria, in prima fila tra i paesi considerati dall’Occidente «sponsor del terrorismo internazionale» e per questo motivo da sottoporre a un isolamento sempre maggiore sullo scacchiere globale, secondo il primo ministro britannico potrebbero presto essere riabilitati. Con Teheran e Damasco sono addirittura possibili forme di collaborazione. Miracoli del pantano iracheno, che per Londra si sta rivelando insostenibile, fonte di un’opposizione crescente all’interno del partito laburista e di perdite tra i soldati al fronte (nelle ultime ore altri quattro caduti a Bassora). «La nostra strategia dovrebbe evolversi per andare incontro all’evoluzione della situazione in Iraq» ha dichiarato due giorni fa il leader del new labour nel corso di un discorso sulla politica estera del Regno Unito tenuto a Londra. Gli stessi concetti Blair li ha ripetuti ieri, in video conferenza con gli Stati Uniti, per una riunione del Gruppo di studio sull’Iraq, l’organismo presieduto dall’ex segretario di stato USA James Baker e incaricato di elaborare una «strategia per la vittoria» da fornire al presidente Bush.

 

  • Libano. 15 novembre. L’esecutivo?  «Illegittimo». L’art. 5 della Costituzione («tutte le confessioni devono essere rappresentate nel governo», cfr. in merito anche Libano. 22 novembre) rende «nulle e prive di effetto» tutte le sue decisioni. Lo ha detto il presidente della repubblica libanese, Emile Lahoud. La crisi libanese, apertasi sabato con il no del fronte filo-USA, guidato dal premier Fouad Siniora, ad un governo di «unità nazionale» –con un maggior peso degli Hezbollah e degli sciiti in generale e l’ingresso nell’esecutivo del generale maronita Michel Aoun, loro alleato– è proseguita, sabato pomeriggio, con le dimissioni di cinque ministri sciiti e, lunedì, di un altro ministro greco-ortodosso, Yakoub Sarraf,

 

  • Libano. 15 novembre. Sul caso Hariri si gioca sporco. Lunedì a Beirut gli avvocati del generale Jamil Sayyed –uno dei quattro responsabili dei servizi libanesi in carcere da quindici mesi perché sospettati dal giudice Detlev Mehlis, ex inquisitore della commissione di inchiesta ONU, di essere coinvolti nel complotto per uccidere l’ex premier libanese Rafik Hariri, saltato in aria nel febbraio del 2005 sul litorale di Beirut– hanno tenuto una conferenza stampa denunciando la detenzione del loro cliente senza che a suo carico vi sia alcun elemento di prova. Non solo. Gli avvocati (Akram Azoui Malek Sayyed, coadiuvati dai colleghi francesi Antoine Korkmaz, Raphaelle Neron e Jerrod Brawel) hanno poi accusato il giudice Mehlis di aver proposto al generale Sayyed la libertà –attraverso il suo assistente Gerhard Lehman– in cambio del sostegno ad un testimone che avrebbe accusato dell’omicidio il governo di Damasco. Di fronte al rifiuto del generale libanese, Mehlis ne avrebbe ordinato l’arresto. Gli avvocati hanno poi denunciato anche il ruolo, totalmente subalterno ai voleri di Detlev Mehlis, del procuratore generale libanese Elias Eid ridottosi a «semplice esecutore degli ordini della commissione ONU» al punto di aver confermato la detenzione dei quattro alti ufficiali «senza che vi fosse alcuna prova». In altri termini, come ha sostenuto l’avvocato francese Korkmaz, Jamil Sayyed sarebbe in carcere da 14 mesi «senza essere stato arrestato ufficialmente» e in tal modo i suoi avvocati non possono rivolgersi a nessun altra istanza della magistratura per chiederne la liberazione.

 

  • Libano. 15 novembre. La decisione del governo Siniora di accettare la bozza ONU sul tribunale è stata definita «nulla e illegittima» dal presidente Emile Lahoud ed è stata duramente condannata dal generale Michel Aoun, il leader cristiano-maronita, già protagonista della rivolta anti-siriana del 1989. Il governo sta violando la Costituzione e gli stessi accordi di Taif che nel 1989 misero fine a quindici anni di guerra civile. Il premier sunnita Fouad Siniora, forte del sostegno USA e francese, rasentando il golpe bianco, invece di limitarsi al disbrigo delle pratiche correnti ha invece convocato ieri mattina una riunione straordinaria del governo, nonostante l’assenza del presidente e dei ministri sciiti, e ha messo all’ordine del giorno l’approvazione della bozza ONU sul tribunale «libanese-internazionale» che dovrà giudicare eventuali sospettati per l’omicidio dell’ex premier libanese Rafik Hariri, saltato in aria nel febbraio del 2005 sul litorale di Beirut. Con l’accettazione della bozza ONU in poche ore –senza neppure discutere la legittimità, i particolari e il funzionamento del nuovo organismo giudicante– se ne è così andato, per di più ad opera di un governo ormai di minoranza, un altro pezzo di sovranità libanese ed è stata aperta la strada ad un’ulteriore strumentalizzazione da parte degli USA dell’inchiesta e del processo Hariri tendente ad esercitare una sorta di mandato sul Libano e a colpire il regime di Damasco, sulla base di testimoni prezzolati e indizi più che discutibili.

 

  • Palestina. 15 novembre. Non riconosceremo Israele neanche quando nascerà il nuovo governo. Hamas lo ha messo in chiaro ieri. «La nostra posizione non è cambiata. Respingiamo qualsiasi governo che riconosca Israele», ha detto Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas a Gaza. Tuttavia, il numero due dell’ufficio politico del movimento islamico, Musa Abu Marzuk, ha affermato che la sua organizzazione darà carta bianca al presidente Abu Mazen per eventuali negoziati con Israele.

 

  • Israele. 15 novembre. Preoccupazioni per una possibile (piccola) apertura statunitense a Iran e Siria. Le ha esternate al quotidiano di Gerusalemme est Al-Quds, durante la sua visita negli Stati Uniti, il primo ministro israeliano Ehud Olmert. Israele negli ultimi due anni ha ispirato l’unilateralismo alla base della politica estera statunitense e ora teme che un cambio di rotta, anche modesto, di Bush si traduca nel congelamento di un attacco contro l’Iran. Il Jerusalem Post, quotidiano di destra, non ha mancato di sottolineare che il neo capo del Pentagono, Robert Gates, non è fautore di politiche aggressive contro Teheran. Così le dichiarazioni bellicose rilasciate da Olmert, prima della partenza per Washington, non sono tanto rivolte all’Iran, quanto all’amministrazione Bush: se non attaccate voi, lo faremo noi. Questo è il concetto che Olmert è andato a spiegare negli USA.

 

  • Iran. 15 novembre. Per Teheran è un’urgenza nazionale dotarsi della tecnologia nucleare per scopi civili. L’obiettivo, pertanto, è avere 60mila centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, rispetto alle sole 328 usate ora a livello sperimentale. «Vogliamo dotarci di un ciclo completo per la produzione di combustibile nucleare, quindi dobbiamo continuare verso le 60mila centrifughe», ha dichiarato ieri il presidente Mahmoud Ahmedinejad per il quale a marzo il suo paese si sarà dotato completamente della tecnologia nucleare. «Ho molte speranze che entro il corrente anno iraniano (che si conclude il 20 marzo, ndr) la nazione iraniana possa celebrare la piena nuclearizzazione», ha affermato. «Le potenze nucleari, nonostante la loro resistenza iniziale contro il nostro programma, hanno accettato che l’Iran abbia una posizione nel club nucleare, questo significa che abbiamo stabilizzato il nostro status nucleare». Ahmadinejad ha aggiunto che invierà un messaggio agli Stati Uniti «per distinguere chiaramente fra il popolo e il governo americano. Riteniamo che l’amministrazione abbia gravemente danneggiato l’immagine degli americani nel mondo». Teheran ha ignorato una richiesta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sospendere le attività di arricchimento entro il 31 agosto scorso.

 

  • Afghanistan. 15 novembre. «Diciamo le cose come stanno: il paese è in mano ai signori della guerra e alle mafie», dice a il Manifesto A. Wasi, economista e già caporedattore di un settimanale indipendente, Rozgaran, che lo scorso maggio ha chiuso per mancanza di fondi (la comunità internazionale finanzia con generosità le iniziative della società civile, ne fa un segno di successo della transizione democratica, ma il piccolo settimanale non ha trovato sostegno): «Ci chiedevano di cambiare tono e non criticare il governo Karzai, e questo non lo abbiamo accettato». Il presidente Karzai «ha promesso molte cose ma ha mantenuto poco», dice Wasi. «La sicurezza è peggiorata per diversi motivi, interni ed esterni. E il primo sono i warlord (i signori della guerra, ndr)». «Karzai ha trovato un compromesso con loro, ciascuno ha avuto il suo feudo o la sua posizione di governo da cui continua a esercitare il suo potere personale proprio come faceva prima». Cita poi la coltivazione del papavero da oppio, che costituisce una parte cospicua del reddito nazionale ancorché illegale e alimenta trafficanti e mafiosi. Parla quindi della corruzione dilagante e della povertà: «Il governo Karzai ha avuto l’aiuto finanziario internazionale ma non ha saputo cambiare la vita degli afghani, chi può emigra a lavorare in Iran o in Pakistan». E dei bombardamenti indiscriminati delle forze occidentali, che uccidono tanti innocenti: «Dicono che è per errore, ma la popolazione afghana è sempre più ostile, soprattutto agli americani».


  • Afghanistan. 15 novembre. «Nel 2001 gli afghani avevano molte aspettative, ma cinque anni dopo cosa vedono? Il parlamento è pieno di criminali di guerra e trafficanti d’oppio e la corruzione non è mai stata tanto diffusa: dall’ufficio della presidenza alla carica più bassa, ogni pubblico ufficiale crede proprio diritto intascare». Lo dice, a il Manifesto, A. Wasi, economista, già caporedattore di un settimanale indipendente, Rozgaran. «Mentre la ricostruzione non decolla, nelle campagne mancano i sistemi di irrigazione, la gente non trova lavoro, gran parte della capitale non ha neppure l’energia elettrica». A Kabul solo gli ospedali e alcuni edifici pubblici hanno energia 24 ore al giorno. Alcuni quartieri chic la ricevono alcune ore nel pomeriggio, gli altri a volte: la città vive con i generatori (chi può permettersi il gasolio) o con le lampade a petrolio. Per non parlare delle zone di casupole arrampicate sulle colline che punteggiano la città, mattoni di terra e vicoli ripidi che diventano torrentelli fangosi quando piove (niente fognature, acqua corrente solo nelle zone più basse). E dire che Kabul sarebbe la vetrina di un «caso di successo» di costruzione della democrazia.

 

  • USA. 15 novembre. «Gli USA riprendono l’addestramento di eserciti latini» e riaprono la «scuola per dittatori». Ne ha dato notizia nei giorni scorsi UsaToday, il quotidiano a più alta tiratura degli States, che ha aperto la prima pagina con l’ordine esecutivo di Bush per riprendere l’addestramento di forze militari di 11 paesi in Sudamerica e nei Caraibi. La decisione, prosegue UsaToday, scaturisce dalla serie di elezioni che hanno visto diversi paesi svoltare, con elezioni democratiche, a sinistra (citati oltre alla bestia nera Venezuela, la Bolivia di Morales e –goccia che ha fatto traboccare il vaso– il ritorno di Daniel Ortega in Nicaragua). Si tratta, a ben vedere, della più esplicita ammissione di una politica di destabilizzazione sistematica dell’emisfero, sempre –è ovvio– in nome dell’esportazione di una democrazia più imperialmente corretta. Dal 2002 l’addestramento di eserciti, polizie e forze paramilitari sudamericane era stato sospeso non per atto umanitario ma a causa del rifiuto dei governi latinoamericani di esentare soldati e «consulenti» nordamericani dall’eventuale denuncia per crimini di guerra presso le corti internazionali. Una specie di amnistia plenaria e preventiva che ogni amministrazione richiede e che la dice lunga sulle loro buone ragioni (e notevole coda di paglia) per mettere le mani avanti. I rapporti militari fra i due continenti hanno segnato i capitoli più torbidi e tragici nei rapporti degli USA con il proprio «cortile di casa» producendo tra l’altro la famigerata School of the Americas, l’università della tortura presso la base di Fort Benning in Georgia, dove generazioni di ufficiali centro e sudamericani sono state istruite sulle arti oscure dell’interrogazione «persuasiva» e su tecniche anti-insurrezionali applicate nella lotta a movimenti armati di liberazione, dai tupamaros ai sandinisti. Le squadre della morte diplomate a Fort Benning si sono macchiate di crimini in decine di paesi dell’emisfero.

 

  • Venezuela. 15 novembre. «Cresce l’ingerenza USA» nel paese in vista delle presidenziali del 3 dicembre. Lo ha detto a Parigi, in conferenza stampa, l’avvocato Eva Golinger, statunitense di origine venezuelana, autrice di due libri sui rapporti tra Washington e Caracas. Secondo la Golinger «gli Stati Uniti stanno attaccando su tre fronti: il finanziamento della campagna del candidato dell’opposizione Manuel Rosales, il terrorismo diplomatico o l’utilizzo di strutture multilaterali per aggredire il Venezuela e la guerra psicologica» con cui tenta di dipingere Chávez come «un dittatore legato al terrorismo».

 

  • Francia. 16 novembre. Il primo ministro francese Dominique de Villepin contro la politica monetaria comune dell’Unione Europea. In un’intervista di cinque giorni fa, non lesina accuse alla Banca Centrale Europea, la cui politica è sotto accusa per non favorire i tassi di scambio e i tassi d’interesse, e quindi le esportazioni, come Parigi vorrebbe. De Villepin vuole un euro debole che favorisca le esportazioni  e la competitività della “zona euro”, lasciando intendere per alcuni di volere l’istituzione finanziaria europea sottoposta direttamente al potere politico. Da sempre ossessionato dalle idee scioviniste della propria Grandeur perduta, svariate personalità e forze politiche francesi hanno visto l’idea di un’Europa unita come una strategia ed un mezzo per rafforzare e rilanciare la potenza francese nel mondo. Vista la connotazione che sempre più l’Europa va assumendo l’idea di una marcia indietro sta diventando vieppiù un’indicibile tentazione.

 

  • Eritrea / USA. 16 novembre. L’Eritrea accusa Washington di «contribuire» all’instabilità del Corno d’Africa e particolarmente della Somalia. Isaias Afeworki, presidente eritreo, al vertice del Mercato Comune dell’Africa Australe e dell’est (Comesa) in corso in questi giorni a Gibuti, accusa l’Etiopia, principale alleato di Washington nella regione, di essersi trasformata in un «suo strumento e burattino» per il ruolo che gioca in questa crisi. Il governo di Addis Abeba «contribuisce all’instabilità in Somalia e gli Stati Uniti contribuiscono all’instabilità di tutto il Corno d’Africa. Le interferenze estere sono la minaccia più importante che pende sulla Somalia». Etiopia ed Eritrea mantengono relazioni estremamente tese dopo la guerra di frontiera (1998-2000). L’ONU accusa l’Eritrea di aver dispiegato 2mila uomini con le Corti, accusa che Asmara respinge. L’Etiopia, dal canto suo, riconosce di aver inviato in Somalia solo «istruttori militari» (anche se giornalisti e osservatori dichiarano di aver visto un vero e proprio contingente militare) per sostenere il debole governo di transizione installato dal marzo 2004 nella città di Baidoa ed incapace di esercitare alcun ruolo al di fuori della cintura urbana. Per Washington, gli islamisti somali hanno dato rifugio a numerosi membri di al Qaeda coinvolti negli attentati alle ambasciate USA in Kenia e Tanzania nel 1998. «Se ci sono prove della presenza di terroristi in Somalia perché non le esibisce?», chiede Afeworki alla Casa Bianca ed avverte che utilizzare «l’ombrello della lotta contro il terrorismo complica tutto».

 

  • Russia / USA. 16 novembre. Quale scambio di favori si nasconde dietro l’assenso di Washington all’ingresso di Mosca nel WTO? A riguardo non sarebbe stato male ascoltare la conversazione tra Bush e Putin a Mosca prima del vertice della Cooperazione Asia-Pacifico. Anche così, in una colazione informale a base di caviale, vengono prese decisioni che riguardano milioni di altre anonime persone. Secondo analisti, in cambio dell’assenso all’entrata di Mosca nel WTO, definendone inoltre i dettagli tecnici, Washington incasserebbe non tanto una irrealistica cessazione dei rapporti, ma quantomeno la mediazione della Federazione Russa con Teheran. Mosca è pienamente coinvolta nella disputa sul nucleare iraniano. È con l’aiuto russo che Teheran sta costruendo il reattore nucleare di Bushehr, ed è la Russia stessa, assieme alla Cina, che con la minaccia del veto al Consiglio di Sicurezza ONU allontana lo spettro di sanzioni e persino di un intervento militare della “comunità internazionale” contro l’Iran. Gli “scambi bilaterali” tra USA e Russia non si dovrebbero fermare qui: si dice che Washington condannerà l’occupazione della città dell’Abkhazia di Kodori Gorge, mentre Mosca condannerà i piani nucleari di Pyongyang. Nessuno, intanto, ha condannato (come se questo potesse servire a qualcosa) il massacro israeliano di diciotto palestinesi in gran parte donne e bambini. Sembra comunque funzionare la strategia di Mosca di “rompere le uova” nel paniere mediorientale agli USA, e di contrattare questa maggiore influenza con rilevanti concessioni da parte di Washington. Sulla questione iraniana, comunque, bisogna comunque fare i conti con Teheran stessa, la cui politica non sembra proprio eterodiretta da nessuno.

 

  • Azerbaigian / Unione Europea. 16 novembre. Il presidente della Commissione Europea Barroso ha firmato nove giorni fa un accordo con il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliev, volto a stabilire un partenariato per l’energia. L’attuazione dell’intesa, ha spiegato la Commissione, permetterà di migliorare l’integrazione dell’ex repubblica sovietica nel mercato dell’energia e di rafforzare la sicurezza energetica dell’Unione Europea grazie agli approvigionamenti in provenienza dal bacino del Mar Caspio. Le forniture europee di petrolio dall’Azerbaigian sono ancora molto limitate e non superano l’1% degli acquisti europei. «Relazioni strette con l’Azerbaigian, come fornitore-chiave di energia e paese importante di transito verso l’UE contribuiranno a rafforzare la nostra sicurezza energetica», ha dichiarato il commissario UE all’energia Andris Piebalgs.

 

  • Azerbaigian / Unione Europea. 16 novembre. Al memorandum sull’energia tra Baku e Bruxelles, concepita per aumentare il numero di fornitori di idrocarburi dell’Unione Europea, ha fatto seguito un accordo economico. Analisti rilevano che Baku, con la firma di tale accordo, ha raggiunto l’obiettivo di non pregiudicare le proprie relazioni con la Russia garantendosi allo stesso tempo buoni rapporti anche con l’UE. Un risultato ottenuto avvalendosi principalmente delle sue risorse energetiche. Attualmente Baku trasporta gas e petrolio in Europa attraverso la Russia e la Georgia. Il tutto in linea con le strategie energetiche/geopolitiche di Washington. Se è vero che Aliyev ha auspicato la costruzione di un gasdotto che passi attraverso l’Ucraina e la Polonia, il presidente azero ha voluto però precisare che il suo paese non si vede come una possibile alternativa a Mosca e che l’accordo non mette in contrapposizione gli interessi dei due paesi. Nonostante le aperture in campo energetico, difficilmente Baku si porrà in disaccordo con le politiche energetiche avallate da Mosca, che gli ha dato una grossa mano nello sventare una “rivoluzione colorata” supportata da Washington nel suo paese, e che può risultare determinante nella risoluzione dell’ancora insoluto conflitto nel Nagorno Karabah, enclave armena nello Stato azero. Per la stessa ragione, durante gli incontri con i vertici europei, Aliyev non ha infatti parlato dell’eventuale transito delle risorse energetiche del suo paese attraverso la Turchia. La Russia resta quindi il punto di passaggio fondamentale per rifornire gli Stati europei.

 

  • Cina. 16 novembre. Pechino aumenta i rapporti di cooperazione e fornitura militare con Mosca. La sua strategia geopolitica comprende il rafforzamento della presa su Xinjiang, Tibet e Mongolia interna. Con i suoi vicini, la Cina ha adottato il metodo di trovare accordi per comporre vertenze sulle frontiere e di stringere rapporti commerciali e d’interazione economica per attenuare potenziali minacce alla “sicurezza”. Il boom economico cinese spinge inoltre alla ricerca a tutto campo di materie prime ed energia. Già su questo versante emergono disaccordi tra Tokyo e Pechino sullo sfruttamento delle risorse energetiche collocate a ridosso delle proprie acque territoriali. Anche le vicende nella penisola coreana andranno in futuro inquadrate come lotta per l’influenza tra Tokyo e Pechino.

 

  • USA / Asia orientale. 16 novembre. George Bush si recherà la prossima settimana in Vietnam in occasione dell’APEC (Asia Pacific Economic Cooperation), la principale organizzazione per la cooperazione economica dell’area dell’Asia e del Pacifico. La visita comprenderà anche incontri bilaterali e multilaterali con diversi capi di Stato, inclusi quelli di Cina, Russia, Australia, Corea del sud, Giappone, Vietnam, Indonesia e Singapore. Secondo l’agenzia di analisi geopolitica Stratfor, l’Asia sta assumento sempre più centralità nello scenario geopolitica attuale. Bush arriva in un continente dove emerge pian piano la polarizzazione tra Cina e Giappone (quest’ultimo paese sostenuto da Washington). Dopo che Pyongyang ha testato con successo armi nucleari, il nuovo primo ministro Shinzo Abe non esclude, adducendo necessità di autodifesa, di costruire un proprio arsenale nucleare: verrebbe in questo modo violato un tabù che vige in Giappone da oltre sessant’anni, nel paese che per primo sperimentò le conseguenze di queste armi distruttive. Nelle mire di Tokyo anche il controllo di tutta l’area marina compresa tra il mare della Cina del sud e lo stretto di Malacca, via di passaggio fondamentale tra Medio Oriente ed Oceano Indiano per il trasporto delle risorse energetiche: da qui l’intento di formulare accordi di “sicurezza” con Singapore, India e soprattutto Taiwan,  te l’accento posto sulla potenza navale, compresa la dotazione di portaerei.

 

  • Messico. 16 novembre. 14 morti in scontri per la terra fra indios filo-PRI e indios filo-EZLN.
    Dello scontro, avvenuto lunedì scorso fra due comunità dei Montes Azules nella Selva lacandona, parlano oggi due organismi vicini agli zapatisti, il centro di diritti umani Fray Bartolomé de las Casas e l’organizzazione Madera del Pueblo. Il tentativo di «sloggiare con la forza tzeltzales e choles», simpatizzanti dell’EZLN, è avvenuto in una zona, 400 km a nord della capitale Tuxtla Gutierrez, ed è stato respinto con «bastoni, machete, pietre e armi da fuoco». Gli aggressori, indigeni lacandones legati al PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale), hanno sferrato l’attacco armato contro gli abitanti della comunità Velasco Suarez, in maggioranza indios chol e tzeltal, che appartengono a un’organizzazione –Xi Nich, le formiche– vicina agli zapatisti e avevano occupato i terreni cinque mesi fa. I lacandones, pur essendo poche centinaia, grazie a vari decreti presidenziali si considerano proprietari dell’intera Selva Lacandona, una regione grande il doppio della Val d’Aosta e con una forte presenza zapatista. Delle 14 vittime dell’aggressione –6 donne, 6 uomini, un bambino e un neonato– 10 erano abitanti di Velasco Suarez e 4 lacandones.

 

  • Argentina / Iran. 16 novembre. Caso AMIA, una sentenza contaminata. Buenos Aires accusa Teheran di aver voluto l’attentato contro un centro israeliano nel 1994. Ma un funzionario argentino, Luis D’Elia, denuncia la «contaminazione» del caso attraverso le pressioni di Stati Uniti ed Israele e per questo si dimette. Il sottosegretario delle Terre per l’Habitat Sociale, Luis D’Elia, ha rinunciato all’incarico dopo essere stato criticato dal presidente argentino, Néstor Kirchner, per aver rilasciato dichiarazioni in cui rimarcava la «contaminazione» da parte degli Stati Uniti e Israele nel processo sull’attentato (85 morti e decine di feriti) contro l’Associazione Mutuale Israelita Argentina (AMIA), avvenuto nel luglio 1994. Secondo D’Elia, l’atto del giudice Rodolfo Canicoba Corral «è contaminato da circostanze estranee alla ricerca della verità» e si rilanciano accuse che si sono mostrate infondate. D’Elia, lunedì, si era recato all’ambasciata iraniana per esprimere il suo rifiuto alla nuova ordinanza della giustizia argentina per la cattura di quasi una decina di ex funzionari iraniani, incluso l’ex presidente Ali Aknar Hashemi Rafsanjani. La posizione del funzionario dimissionario non è unica e nemmeno isolata nel paese.

 

  • Argentina / Iran / USA. 16 novembre. Sul caso AMIA, Washington avverte: collaboreremo con l’Interpol per la cattura dei funzionari iraniani, tra i quali l’ex presidente Rafsanjani. In un comunicato il Dipartimento di Stato statunitense parla di «un maggior impegno», maggiore di quello assunto sinora dagli Stati Uniti, per la cattura di responsabili contro i quali non esiste alcuna prova. L’accusa poggia sul fatto che ad indicare l’Iran e certe personalità in particolare fu, pochissime ore dopo l’attentato, Tel Aviv. Senza addurre alcuna prova. Sulla questione si gioca anche una partita nei rapporti USA e Argentina. La Casa Bianca ritiene infatti che «la collaborazione tra Stati Uniti e Argentina sul tema Iran permetterà a Néstor Kirchner di differenziarsi da Hugo Chávez» e questa sollecitudine nella cattura degli iraniani potrebbe avere buone ripercussioni per l’amministrazione statunitense. Nell’esecutivo argentino la “rinuncia” del sottosegretario D’Elia (richiesta da Washington e informalmente sollecitata da Kirchner allo stesso D’Elia per le sue dichiarazioni) significa che viene estromessa una delle figure più fortemente sintonizzate con le direttrici politiche in atto in Venezuela e Bolivia. Intanto il procuratore federale argentino, Alberto Nisman, ha detto che gli iraniani ricercati devono presentarsi per dimostrare «che le accuse sono equivocate»; funzionari del governo iraniano hanno replicato definendo uno «strano meccanismo giuridico quello di sollecitare una cattura senza prove e chiedere ai sospettati che loro stessi le presentino».

 

  • Irlanda del Nord. 17 novembre. Londra lega appoggio alla Polizia e ripristino delle istituzioni. Sinn Féin non dovrà esprimere il suo appoggio alle forze di polizia prima della formazione dell’esecutivo. Il governo britannico, in linea con l’Accordo di St. Andrews ufficializzato il 13 ottobre scorso tra gli esecutivi britannico ed irlandese e accettato tre giorni prima dai partiti nordirlandesi, ha varato una legislazione necessaria alla relativa applicazione. Una decisione che il Sinn Féin qualifica come molto positiva. La questione si porrà, quindi, solo dopo che i repubblicani avranno preso possesso dei loro incarichi ministeriali il prossimo 26 marzo.

 

  • Irlanda del Nord. 17 novembre. Elezioni generali il prossimo 7 marzo. Il governo britannico ha annunciato che l’attuale Assemblea nordirlandese sarà dissolta a gennaio per permettere la convocazione delle elezioni per il 7 marzo. Queste serviranno non solo per eleggere nuovi rappresentanti alla camera legislativa, ma anche per un pronunciamento sul recente Accordo di St. Andrews. Il governo irlandese sta discutendo la possibilità di un referendum al riguardo nella Repubblica irlandese. La formazione di un nuovo esecutivo nordirlandese si prevede, quindi, abbia luogo il prossimo 26 marzo.


  • Irlanda del Nord. 17 novembre. Soddisfazione da parte del Sinn Féin. Il presidente del Sinn Féin, Gerry Adams, ha spiegato che le 48 ore di negoziazioni a Londra sono state positive, giacché i repubblicani sono riusciti a mantenere il governo britannico su posizioni di rispetto dell’Accordo del Venerdì Santo (1998). «Sono stati fatti progressi nella direzione corretta», ha dichiarato il dirigente repubblicano, che ha sottolineato che, con la volontà politica, il processo avanzerà più rapidamente. Adams ha quindi aggiunto che ora Londra e DUP (Democratic Unionist Party) devono trovare una soluzione ai loro disaccordi.

  • Gran Bretagna. 17 novembre. Blair intende portare a 28 giorni la carcerazione preventiva. Il governo presenterà una nuova proposta di Legge Antiterrorista prima di Natale, secondo quanto dichiarato oggi dallo stesso Blair. Il suo intendimento è di arrivare a quello che ha definito «limite massimo» di 90 giorni, lasso di tempo respinto un anno fa dal Parlamento.

     
  • Ucraina / Polonia. 17 novembre. Un oleodotto unirà Danzica a Odessa. Ucraina e Polonia hanno raggiunto un accordo, mercoledì a Kiev, per la realizzazione di un oleodotto che unirà il porto polacco di Danziza con quello ucraino di Odessa. Con quest’opera si intende ridurre la dipendenza energetica dei loro paesi dalla Russia di Putin. In futuro, parte del petrolio arriverà dal Mar Caspio attraverso Azerbaijan, Georgia e Mar Nero. Per completare la linea i due paesi dovranno collegare gli oleodotti che già uniscono Danzica a Plock in Polonia e Odessa a Brody in Ucraina.

 

  • Somalia. 17 novembre. Le Corti islamiche proibiscono il «khat» e scoppiano disordini a Mogadiscio. Le milizie delle Corti Islamiche sono intervenute ieri per disperdere una manifestazione di protesta organizzata da alcuni commercianti di «khat», l’erba con effetto euforizzante che viene masticata dagli uomini e che gli islamisti avevano decretato «illegale» lo scorso mese. Il bilancio è di almeno un morto ed un numero imprecisato di feriti.

 

  • Israele. 18 novembre. Continuano le violazioni di Israele della sovranità del Libano e della risoluzione ONU 1701. La denuncia è del portavoce dell’Unifil, Milos Strugar. Soltanto ieri sono state quattordici le violazioni dello spazio aereo, undici delle quali nel settore dove sono dispiegati i francesi. Il generale francese, Alain Pellegrini, ha inoltrato energiche proteste al governo israeliano. Poco più di una settimana fa, il sorvolo minaccioso di aerei con la stella di Davide sulle posizioni francesi non era degenerato per «due secondi» in uno scontro, come aveva dichiarato la ministra francese della Difesa, Michelle Alliot-Marie.

 

  • Iraq. 18 novembre. Bassora, rapiti 5 contractors: quattro statunitensi (uno dei quali ferito gravemente) ed uno austriaco (poi ucciso in uno scontro con truppe britanniche che cercavano di liberarlo). Riesplode negli Stati Uniti il caso delle «agenzie di sicurezza». Il rapimento è avvenuto su una strada considerata «sicura» perché «altamente controllata», sicché questa azione degli «insurgent» risulta particolarmente beffarda, che serve a portare dal Kuwait i rifornimenti necessari alle truppe USA in Iraq. I cinque rapiti appartenevano alla scorta di un convoglio.

 

  • Iraq. 18 novembre. Nessuno sa quanti siano i contractors (si parla genericamente di migliaia); si sa che costoro –in genere ex militari– svolgono compiti «sottratti» ai militari e che li svolgono con paghe che arrivano fino a 500 dollari al giorno, tanto che ci sono racconti di frequenti conflitti fra loro e i soldati «veri» che mal sopportano quei loro stipendi di favola e la loro «irresponsabilità», intesa come il non dover rispondere delle loro azioni (e infatti risultano utilizzati con profitto negli interrogatori). Il loro comportamento, spesso, si traduce in comportamenti delinquenziali che qualche volta vengono perfino alla luce. L’ultimo episodio riguarda una compagnia chiamata Triple Canopy, fondata da un gruppo di ex membri della Delta Force. L’episodio avviene l’8 giugno scorso. Ne parlano due dipendenti della Triple Canopy, un po’ perché indignati e un po’ perché sono stati licenziati. Quel giorno l’ex marine Shane Schmidt e l’ex ranger Charles Sheppard hanno il compito di scortare all’aeroporto di Baghdad un personaggio della Kbr, una sussidiaria della famigerata Halliburton, diretto negli Stati Uniti, e lo fanno agli ordini di un loro superiore il cui nome per ora rimane segreto. Al momento di mettersi in marcia per l’aeroporto il loro superiore dice: «Oggi ho proprio voglia di ammazzare qualcuno». Sembra che stia scherzando, ma a un certo punto imbraccia il suo M4 e si mette a sparare contro un camion che passa nei pressi. Non si sa se colpisca qualcuno ma si sa che subito dopo, rivolto ai suoi dipendenti l’uomo dell’Oklahoma dice: «Non è successo nulla, chiaro?». Dopo un po’, estrae la sua pistola, la punta contro un taxi ed esplode setto-otto colpi. Anche in questo caso non si sa che danno abbia fatto perché il veicolo su cui lui e i due dipendenti si trovano sfreccia via.
    Quattro giorni dopo, Schmidt e Sheppard denunciano l’episodio alla dirigenza della Triple Canomy e quella risponde licenziandoli. Loro si rivolgono al tribunale della contea di Fairfax, in Virginia, dove la Triple Canopy ha la sua sede, e questa è la ragione per cui la storia è venuta fuori. La Triple Canopy chiede di archiviare tutto, ma l’unico favore che ottiene dal giudice è la convocazione del processo in un tempo molto lungo: la prossima estate.

 

  • Colombia. 18 novembre. Alto funzionario di polizia sotto processo per aver aiutato le AUC. La Procura Generale di Colombia accusa l’ex direttore del Dipartimento Amministrativo di Sicurezza (DAS), Jorge Noguera, di aver fornito informazioni riservate a membri del gruppo paramilitare di estrema destra Autodefensas Unidas de Colombia (AUC).

 

  • Colombia. 18 novembre. Nel computer di un capo delle Autodefensas nomi di senatori e tangenti.
    Paramilitari e politici decidevano come spartirsi soldi pubblici o chi uccidere a colpi di pistola o motosega. I legami tra Alvaro Uribe, la sua maggioranza e il suo governo con i paramilitari hanno un riscontro in più dopo il sequestro del computer di uno dei dirigenti delle Autodefensas, Rodrigo Escobar Pupo, più conosciuto come Jorge 40. Sotto i riflettori, per ora, c’è il Sucre, una regione atlantica dominata dai paramilitari e dai caudillos politici locali. Secondo le indagini, a legarli non era soltanto la comune simpatia per Uribe: paramilitari e politici decidevano come spartirsi i soldi dello stato centrale (esigendo tangenti che arrivavano fino al 70%), chi far lavorare e chi no, chi far fuori a colpi di pistola o motosega. Per ora sono stati tre i senatori dei partiti “U” e “Colombia democratica” (movimenti creati in appoggio ad Uribe) a finire in carcere per ordine della Corte suprema. A complicare la situazione di Uribe è arrivata un’enigmatica dichiarazione dei capi paramilitari, come Jorge 40 e l’italo-colombiano Salvatore Mancuso, formalmente rinchiusi in una tenuta della regione di Antioquia (trasformata in un lussuoso club ricreativo): «Siamo disposti a dire tutta la verità sui nostri legami con la classe politica». Parole che sono apparse una minaccia soprattutto verso Uribe, nel caso non mantenesse tutti gli impegni presi.

 

  • Colombia. 18 novembre. Sotto inchiesta anche l’ex console colombiano a Milano. Rafael Noguera, estromesso pochi mesi fa dalla carica di console a Milano, è accusato di aver pianificato omicidi degli oppositori insieme con i capi paramilitari (quando dirigeva la polizia segreta Das) e di organizzare le fodi elettorali che, sempre con l’aiuto sanguinario dei paras, furono decisive per l’elezione di Uribe nel 2002.

 

  • Colombia. 18 novembre. Diciotto popoli nativi colombiani rischiano di scomparire, decimati dall’azione congiunta fra bande armate e imprese multinazionali. È l’allarme lanciato dall’ONU e da una missione internazionale convocata dall’Onic (Organizzazione delle nazionalità indigene colombiane). Cinque le regioni visitate, considerate ad altissimo rischio, Arauca, Cesar, Cauca, Cordoba e San Jose del Guaviare. La Commissione dei giuristi internazionali, una delle voci mondiali ritenute più autorevoli in materia, nel suo ultimo documento spiega come la politica del governo colombiano negli ultimi tre anni abbia contribuito allo smantellamento dello stato di diritto ed al consolidamento dell’impunità. La legislazione vigente legalizza l’impunità e l’enormità dei crimini di guerra e di lesa umanità commessi in Colombia. Basti pensare che, dal 2002 al 2006, i paramilitari filo-governativi (estrema destra) hanno compiuto 3000 attentati, tutti impuniti. Anche la contestata legge di «giustizia e pace», che prevede smobilitazione e reinserimento dei gruppi armati illegali, si è rivelata una farsa della quale ci si rende conto visitando le zone in cui questi gruppi operano tuttora. La proposta di smobilitazione, che pretende di equiparare i paramilitari alle guerriglie di opposizione, è stata perciò rifiutata dalle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) e dall’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), che combattono contro il governo per ragioni ben diverse dal 1964.


  • Colombia. 18 novembre. Aumenta la connivenza tra militari, paramilitari, addestratori stranieri e imprese multinazionali. Le imprese che hanno sostenuto l’apartheid in Sudafrica, sfruttandone le risorse, sono le stesse entrate recentemente in Colombia e coinvolte nello sfruttamento dell’oro e della diffusione della palma africana. La palma servirà a produrre biodisel e sarà estesa a sei milioni di ettari, mentre nelle miniere sono già passati i nuovi codici e regolamenti scritti dagli avvocati delle multinazionali. Su questi due temi le comunità afrocolombiane, contadine e le organizzazioni sindacali che si sono opposte, sono state vittime di omicidi selettivi. Le imprese AngloGold, Glencore e Miller, nelle regioni di Cordoba e Urabà addestrano e organizzano i paramilitari per garantire i loro interessi economici. Nella zona del Cesar, i gruppi paramilitari prima si chiamavano Auc, adesso Aguilas Negras, e i capi storici come Mancuso o Jorge 40 continuano a dettare condizioni al governo. Capi che hanno accumulato immense fortune, sufficienti a sfamare milioni di colombiani impoveriti da decenni di conflitto, e che il governo si è guardato bene dal sequestrare. Anche il discorso della lotta al narcotraffico è pura immaginazione.

 

  • Colombia. 18 novembre. I paramilitari controllano poi anche le trasferencias (trasferimenti) dei fondi dello Stato per la salute e l’educazione. Di fatto gestiscono l’Ars (amministratori di regime sussidiato), l’Eps (imprese promotrici della salute) e l’Ips (istituzioni prestatori dei servizi). Questo è stato uno dei motivi per i quali sono state trucidate alcune delle donne indigene Wayùu che hanno tentato di mettere in piedi un loro servizio sanitario. Anche il diritto internazionale sembra interessare poco o nulla al governo Uribe. Le misure cautelari concesse dalla corte interamericana come nel caso del popolo Kuankuamo, non sono servite per fermare l’orrore dei massacri e gli omicidi selezionati compiuti contro questo popolo che, negli ultimi sei anni, ha perso oltre 250 dei suoi figli.

 

  • Gran Bretagna / Iraq. 19 novembre. «La guerra (irachena, ndr) è stata un disastro». La dichiarazione è sorprendente se a dirla è il primo ministro britannico. Blair si lascia scappare un’affermazione destinata a sollevare polemiche nel campo imperialista nel corso di un’intervista sul canale in lingua inglese dell’emittente araba Al Jazeera. Il primo ministro britannico Tony Blair, rispondendo a un’osservazione dell’anchorman David Frost che definiva «disastrosa, a partire dall’invasione del 2003» la situazione nel paese, effetto principale della guerra, ha confermato «Sì, è così», per poi aggiustare il tiro, «ma non per qualche problema nella pianificazione, ma perché c’è stata una strategia deliberata: da una parte Al Qaeda con i ribelli sunniti, dall’altra le milizie sciite sostenute dall’Iran». Ore dopo la dichiarazione e le prime polemiche sia in patria che sui media internazionali, una portavoce di Downing Street ha dichiarato alla BBC che le opinioni di Blair erano state male interpretate e che il dirigente britannico si era limitato a riconoscere la domanda di Frost. Della serie: quando la toppa è peggiore del buco...

 

  • Gran Bretagna / Iraq. 19 novembre. Blair apre, sull’Iraq, a Iran e Siria. Il primo ministro britannico chiede ai due paesi un coinvolgimento per una via d’uscita da quello che è sempre più un pantano. Lo fa cercando di smussare i toni che da anni vedono Iran e Siria come «Stati canaglia» in cima ad una lista nera voluta proprio Da Bush e Blair. Con toni e contenuti inusitati Blair dice: «Dobbiamo procedere insieme (ai due paesi, ndr), tanto noi come gli americani. E dire loro che non gli siamo contro, perché crediamo che sono loro, il popolo, a dover decidere chi governa l’Iran e chi governa la Siria». Ovviamente, ha aggiunto Blair, questa mano tesa ha senso se entrambi i paesi abbandoneranno le loro attuali posizioni. Cioè si accodino ai desiderata imperiali. Ma la richiesta, tutt’altro che di circostanza, è un ulteriore indizio di come “Iraq” cominci sempre più ad essere letto “Vietnam”. Londra ha circa 7.200 effettivi nel sud dell’Iraq, principalmente dentro e alla periferia di Bassora.

 

  • Afghanistan. 19 novembre. Karzai vede traballare il suo potere e avverte: la nostra instabilità è una minaccia per tutti. Il primo ministro afgano, Hamid Karzai, si è rivolto ai paesi vicini per invitarli a partecipare agli sforzi di ricostruzione del paese, prevedendo in caso contrario effetti catastrofici per l’intera area. «La sicurezza della regione e del mondo in generale non sono salvaguardate», ha detto Karzai a un vertice in India.

 

  • Cecenia. 19 novembre. La guerriglia indipendentista cecena fa esplodere due pozzi di petrolio vicino Grozny. Un terzo non è saltato per il mancato funzionamento dell’esplosivo. Lo riferisce l’agenzia Interfax che riporta una dichiarazione del comando d’occupazione russo nel territorio.

 

  • Corea del sud. 19 novembre. Bush non riesce a coinvolgere Seul nelle perquisizioni dei navigli della Corea del Nord. Il tentativo (per ora) fallito di Bush, che si trova ad Hanoi per il vertice dell’APEC (Foro di Cooperazione Economica Asia-Pacifico), è avvenuto in uno dei tanti incontri bilaterali avuti per esercitare pressioni sui partecipanti al vertice contro Pyongyang. Il presidente sudcoreano, Roh Moo-Hyun, non ha dato a Bush le garanzie richieste per l’adempimento delle sanzioni imposte alla Corea del Nord dopo il test nucleare che questo paese ha effettuato ad ottobre. Roh ha voluto sfumare il rifiuto sostenendo che Seul «appoggia i princìpi e gli obiettivi» della risoluzione 1718 dell’ONU che contiene le sanzioni contro la Corea del Nord. Ha garantito quindi la collaborazione per intercettare qualunque materiale atomico che entri o esca dalla penisola ed evitare la proliferazione nucleare. Purtuttavia Seul partecipa solo come osservatore nel piano statunitense, conosciuto come Iniziativa di Sicurezza contro la Proliferazione (PSI), giacché, nonostante le differenze che le separano da Pyongyang, non dimentica che la Corea del Nord è un paese «fratello».

 

  • USA / Corea del Nord / Cina. 19 novembre. Gli USA premono ed offrono accordi commerciali in cambio di sanzioni contro la Corea del Nord. Secondo non pochi osservatori si tratta di un primo passo per installarsi in modo molto più significativo ed esteso nel sudest asiatico con un occhio al contenimento della Cina nell’area. Al vertice dell’Apec (il cartello di cooperazione Asia-Pacifico) in corso in Vietnam il presidente degli Stati uniti George Bush ha chiesto l’appoggio dei paesi asiatici per la piena applicazione delle sanzioni comminate dall’ONU alla Corea del Nord dopo il suo test nucleare. Washington ha promesso la ripresa dei negoziati commerciali con molti degli stessi paesi, congelati dopo il fallimento del vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio lo scorso luglio.

 

  • Lettonia. 20 novembre. Il prossimo 28 novembre si terrà a Riga l’annuale vertice NATO di due giorni. Scopo principale del vertice sarà quello di rafforzare e rendere più efficiente l’Alleanza Atlantica piuttosto che espanderla. Si discuterà anche dell’entrata nella NATO di Albania, Macedonia e Croazia, che tuttavia potranno entrare solo a partire dall’anno prossimo, dal momento che attualmente mancano sia le capacità effettive per poter far parte dell’alleanza, sia la volontà di ampi settori dell’opinione pubblica che vi si oppongono. Ancora più lontano nel tempo appare l’entrata nella NATO per Ucraina e Georgia.

 

  • Siria. 20 novembre. Damasco offre il proprio aiuto a Washington per risolvere la crisi irachena. Secondo Ayman Abd an-Nur, esponente di spicco dell’ala riformatrice del Baath, il partito al potere, «la Siria chiede prima di tutto la restituzione del Golan (occupato da Israele nel 1967, ndr) quindi la definizione del calendario del ritiro anglo-americano dall’Iraq. Ad ogni garanzia offerta dagli Stati Uniti alla Siria, seguirà una presa d’impegno da parte di Damasco ad aiutare Washington a risolvere le crisi in Iraq, Palestina e Libano».

 

  • Palestina. 20 novembre. La Resistenza sale sui tetti. Uno «scudo umano» di centinaia di palestinesi impedisce un attacco israeliano, tra questi dirigenti come il vice presidente del parlamento palestinese. Decine di uomini armati si sono quindi appostati su balconi e terrazze di case vicine. È accaduto presso le case delle famiglie Baroud e Rayan, a Gaza, nel campo dei rifugiati di Jabalia, dopo che l’esercito israeliano aveva telefonato ai suoi occupanti avvertendo che di lì a quindici-trenta minuti le rispettive case sarebbero state bombardate. A ricevere le telefonate un membro dei Comitati di Resistenza Popolare e di Hamas. L’SOS, raccolto immediatamente da moschee locali, televisioni e radio, ha mobilitato centinaia di persone e Tel Aviv, con il massacro di Beit Hanun ancora recente, ha ritenuto più opportuno sospendere l’attacco. Gaza ha celebrato nella notte «la vittoria palestinese e la sconfitta degli de los F-16». Negli ultimi mesi, la Forza Aerea d’Israele ha intensificato la distruzione delle abitazioni dei miliziani palestinesi. A tale scopo avvisano per telefono i residenti dando 15-30 minuti per abbandonare l’edificio. Il primo ministro palestinese, Ismael Haniyeh, ha espresso il suo sostegno all’iniziativa e ha dichiarato: «Siamo orgogliosi di questa presa di posizione nazionale. È il primo passo per la protezione dei nostri focolari, dei nostri figli». Ha aggiunto quindi che si tratta di un valido messaggio di protesta indirizzato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove gli USA hanno posto il veto, venerdì, ad una risoluzione che condannava le azioni militari isareliane a Gaza. «Queste persone sono intervenute per proteggere le proprie case dopo che il Consiglio di Sicurezza ha fallito nel bloccare le aggressioni israeliane e nel fermare i missili degli aerei di guerra sulle nostre case», ha proseguito Haniyeh. L’esercito israeliano ha confermato di aver sospeso il bombardamento notturno per la grande quantità di gente concentrata. Responsabili militari hanno ammesso di non avere risposta per questo tipo di strategia della resistenza palestinese.

 

  • USA. 20 novembre. Una vittoria militare piena in Iraq? È impossibile. Un’affermazione che non sorprenderebbe se ad esternarla in una int