Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Israele, l'Olocausto e la guerra all'Iran

Israele, l'Olocausto e la guerra all'Iran

di Scott Ritter - 05/12/2006

 

Riconoscere l’influenza che l'Olocausto tuttora esercita non è cruciale solo per cercare di capire perché Israele non riuscirà mai a tollerare l'esistenza di forze che gli si oppongono; serve anche a comprendere come si possa giungere, da parte israeliana, ad iniziative controproducenti proprio per la prosperità e la sopravvivenza a lungo termine dello stesso Stato ebraico

Per comprendere l’attuale atteggiamento di Israele nei confronti dell’Iran forse bisogna iniziare da Yad Vashem, il più grande museo israeliano sull’Olocausto. È qui che si capisce la ragione alla base della nascita del moderno stato israeliano, che trova il suo fondamento nel genocidio del secolo scorso. Ma anche oggi gli israeliani si trovano a che fare con forze politiche che auspicano la distruzione del popolo ebreo e dello stesso stato d’Israele.

Riconoscere l’influenza che l'Olocausto esercita sulla psicologia di Israele non è cruciale solo per capire perché Israele non tollererà mai l'esistenza di forze che si oppongono alla sua sopravvivenza; serve anche a comprendere come si possa giungere, da parte degli israeliani, ad iniziative controproducenti proprio per la prosperità e la sopravvivenza a lungo termine dello stesso stato ebraico.

A chiunque abbia visitato Israele come ospite ufficiale, come è capitato a me diverse volte, è stata offerta una visita guidata di questa piccola nazione, utile a percepirne l’avvertita vulnerabilità. La psiche di Israele è pervasa da un certo grado di paranoia, non del tutto immotivata. I testimoni degli attacchi suicidi percepiscono sulla propria pelle l’esistenza di organizzazioni che mirano all’annientamento dello stato d’Israele e del suo popolo.

Non dovrebbe sorprendere dunque che i maggiori politici israeliani abbiano scelto Yad Vashem come ispirazione chiave della politica nei confronti delle aspirazioni nucleari iraniane. Nella Giornata della Memoria di quest’anno, due ebrei di origine iraniana hanno esternato alcune importanti osservazioni. Dal museo Yad Vashem, il presidente israeliano Moshe Katsav ha dichiarato: “Mi appello al mondo occidentale affinché non resti in silenzio rispetto alle nazioni che stanno tentando di impadronirsi dell’arma nucleare e che auspicano la distruzione dello stato di Israele”. Nello stesso giorno, all’inaugurazione del Centro Studi iraniani dell’Università di Tel Aviv, il ministro della difesa uscente, Shaul Mofaz, ha sottolineato come l’Iran abbia fondato gruppi di terroristi operanti all’interno dei territori palestinesi, che dall’inizio del 2006 hanno usufruito di quasi 10 milioni di dollari di finanziamenti. Mofaz ha proseguito affermando che la politica israeliana si dovrebbe focalizzare sul destituire l’attuale regime di Teheran.

Esiste un chiaro elemento di ipocrisia nella posizione israeliana. Israele possiede un potenziale nucleare in grado di colpire non solo l’Iran, ma qualsiasi altra nazione del Medio Oriente. La linea adottata da Israele – una nazione nata dall’Olocausto e unica tra i paesi mediorientali a possedere armi atomiche in grado di provocare un potenziale nuovo olocausto – che condanna l’Iran per la sua retorica e ne auspica il crollo del governo, si disperde al di là dei suoi confini e di quelli degli Stati Uniti, e in larga parte spiega perchè i tentativi di legittimare l’offensiva sull’Iran a livello internazionale sono destinati a cadere nel dimenticatoio.

La realtà dell’Olocausto (da una prospettiva storica) e il concetto di Olocausto (rispetto al futuro di Israele) dominano la concezione di sicurezza nazionale dello stato d’Israele. Sarebbe improprio ridurre le emozioni e le credenze di più di cinque milioni di persone a un livello individuale – specialmente quando in ballo c’è la sicurezza della nazione israeliana, e di riflesso Iraq e Iran. Tuttavia, esiste un uomo che nell'ultimo decennio del secolo scorso ha incarnato la questione, ed è arduo affrontare certi argomenti senza citarlo. Quest'uomo è Amos Gilad.

Incontrando Amos Gilad, è curioso pensare che questioni così delicate possano essere trattate da una persona così. È difficile associare l’uomo di media altezza, dai pochi capelli bianchi, grassottello e con la pelle cadaverica – a tradire una vita intera passata all’interno di uffici stracolmi di carte – con il responsabile delle attività di spionaggio a servizio del governo israeliano. Ma appena costui prende la parola, dispiegando tutta la propria arguzia agli ascoltatori, l'aspetto fisico passa in secondo piano, le qualità diventano lampanti. Che ci si trovi d’accordo o meno, non v'è dubbio sul fatto che, con la sua voce pacata e l’argomentare diretto, Amos Gilad ispiri fiducia.

Amos Gilad ha trascorso una vita al servizio della Forza di Difesa israliana, come ufficiale all'interno dell'Aman – o intelligence militare. Nato nel 1954 da padre immigrato a Israele nel 1939 dalla Cecoslovacchia e madre sopravvissuta all’Olocausto, Amos Gilad cresce con la tragedia della persecuzione e del genocidio ebraico cucita addosso. La storia di Amos Gilad ci dice del saggio scritto su Auschwitz, a seguito di ricerche così dettagliate che permettono al giovane Amos di ovviare alle imperfezioni insite nei racconti dei sopravvissuti ai campi di concentramento. Studente diligente, prima del diploma superiore si iscrive all’Officer's Candidate Academic Studies Program, dove consegue una specializzazione in Scienze sociali all'Università di Haifa, prima di dare inizio alla propria carriera.

Grazie a una notevole istruzione e alla fine intelligenza, l'assegnazione di Gilad all'intelligence militare fu un passaggio naturale. Entrò a far parte dell'apparato militare in seguito alla guerra dello Yom Kippur del 1973; trovò un'intelligence scossa dalla vergogna per le tante analisi errate. Come quelle di Eli Za’ira, il capo dei servizi israeliani in quel periodo, che “considerava” improbabile un attacco egiziano a Israele, ignorando le ragionevoli previsioni che da più parti erano per tempo state avanzate. Come conseguenza della “Konseptia” [espressione con cui si indica l’impostazione sballata della condotta di Eli Za’ira, NdT], vennero istituiti controlli analitici e previsioni di bilancio all'interno del sistema di intelligence militare, con l’obiettivo di garantire che non si ripetessero infortuni di tale portata.

L’opera di riassetto diede i suoi frutti. Nel 1978, come ufficiale junior, Amos Gilad si guadagnò le luci della ribalta predicendo un attacco terroristico dell'OLP sulle coste israeliane. Nel 1982, ormai un ufficiale maggiore, rimase coinvolto nell'invasione israeliana del Libano. Assegnato al gruppo di ricerca di Aman, Gilad si mostrò molto critico verso lo stretto legame tra il suo paese e la Falange Cristiano-Libanese. Gilad anticipò che la decisione israeliana di permettere l’entrata della milizia falangista all’interno dei campi profughi di Sabra e Shatila, avrebbe provocato un massacro. Nella notte del 16 settembre 1982, Amos Gilad raggiunse l’unità di prima linea vicino a Beirut, e immediatamente iniziò a lanciare l'allarme alle più alte autorità militari israeliane sull’imminente massacro. I suoi avvertimenti vennero ignorati perché gli analisti credevano che Gilad stesse ascoltando i propri sentimenti piuttosto che svolgere il proprio dovere.

L’ufficiale d'inchiesta sul ruolo della Forza della Difesa Israeliana (IDF) di Sabra e Shatila rivelò che il comportamento del maggiore Gilad era stato qualcosa di più di una reazione emotiva: l'uomo aveva udito una conversazione tra ufficiali israeliani che rivelava l’incombente massacro. La tragedia di Sabra e Shatila segnò Amos Gilad. Inoltre, l'episodio gli fece apprezzare la validità del proprio pensiero analitico, e l’esigenza di dover andar a fondo nelle proprie convinzioni. Gilad ricoprì diversi incarichi all'interno dell'Aman, fino a quando, ormai colonnello, divenne la figura chiave nelle trattative con l'Iraq – durante l’escalation delle tensioni a causa delle mire irachene al nucleare, successivamente alla dichiarazione di Saddam di "incendiare la metà di Israele" attraverso armi chimiche, all'invasione irachena del Kuwait, e alla conseguente concentrazione delle truppe Usa in Arabia Saudita. Come capo delle trattative con l’Iraq, Amos Gilad monitorò costantemente lo sviluppo militare iracheno; riportò le sue scoperte al direttore militare dell'intelligence e, più frquentemente, al ministro della Difesa e al Primo ministro.

Nel periodo dell'invasione militare del Kuwait, gli Stati Uniti, attraverso il Dipartimento della Difesa, mantennero un programma di condivisione d’intelligence con l'IDF, che operava con il nome in codice di Ice Castel (castello di ghiaccio). Se il programma di condivisione d’intelligence tra gli Stati Uniti e Israele affonda le sue radice nel 1973, nel periodo turbolento della guerra Yom Kippur, i dettagli del programma Ice Castel furono definiti durante la crisi della primavera del 1990, quando l'intelligence israliana rilevò una ripresa del nucleare in Iraq che spinse i politici israeliani a ipotizzare pubblicamente un eventuale attacco al reattore nucleare di Osirak, alle porte di Baghdad.

Dal parte sua, l’Iraq mise in chiaro che a ogni attacco da parte di Israele sarebbe seguita una risposta irachena comprendente l’impiego di armi chimiche – che, secondo quanto affermava Saddam Hussein, avrebbero “incendiato metà Israele”. Il programma Ice Castle ruotava intorno alla proccupazione che Israele aveva sull'effettiva possibilità che l'Iraq potesse lanciare un simile attacco; vennero forniti a Israele (attraverso ufficiali israeliani inviati a Washington, D.C) i dati dell'intelligence americana, più specificamente fotografie via satellite della zona occidentale irachena, per riuscire ad individuare ogni attività sospetta. In particolare, gli israeliani si alllarmarono riguardo ai missili iracheni SCUD dotati di testate ad armi chimiche – che, se lanciati dall'Iraq occidentale, avrebbero potuto colpire Israele. Nell’estate del 1990, periodo di massima tensione tra Israele e l'Iraq, la collaborazione Ice Castle rilevò un incremento dell’attività relativa ai missili balistici nell'Iraq occidentale – inclusa la costruzione di lanciamissili posizionati in direzione di Israele – e un cospicuo numero di basi per i lanciamissili mobili SCUD.

La teoria divenne presto realtà quando, dopo l’invasione del Kuwait, i militari iracheni dispiegarono circa un dozzina di missili SCUD con testate ad armi chimiche nei deserti occidentali dell'Iraq. Anche se le forze americane in Medio Oriente vantavano già una discreta presenza, Israele pressò gli Stati Uniti per ottenere ulteriori informazioni riguardanti la minaccia dei missili iracheni. Ad ogni modo, la priorità degli Stati Uniti passò dall'occuparsi di difendere Israele dalla minaccia irachena a un obiettivo ben più importante: l'istituzione di una coalizione multinazionale comprendente alleati arabi – che non avrebbe difeso soltanto i campi petroliferi dell’Arabia Saudita orientale dall’espansionismo iracheno, ma avrebbe anche liberato il Kuwait. I problemi di Israele non erano più quelli degli Stati Uniti, il linguaggio figurato dell’Ice Castel iniziò ad essere utilizzato dai progettisti militari (incluso il sottoscritto) – mentre gli ufficiali inviati in America da Israele sedevano nelle sale riunioni senza più notizie.

I leader politici e militari israeliani si irritarono sempre più per questa mancanza di attenzione verso ciò che loro consideravano una seria minaccia alla sicurezza del loro paese. Venne ipotizzato da molti un attacco preventivo israeliano in Iraq, ma gli Stati Uniti fecero pressione perchè nulla potesse nuocere alla coalizione dei paesi arabi riunita in Arabia Saudita per attaccare l'Iraq. Il 13 gennaio 1991, una delegazione americana guidata dall’aggiunto segretario di Stato Lawrence Eagleburger assicurò addirittura che, dopo il secondo giorno di azione militare contro l'Iraq, nessun missile iracheno avrebbe sfiorato il suolo israeliano.

Il disinteresse degli Usa ebbe conseguenze politiche quando, nel gennaio 1991, l’Iraq lanciò missili SCUD dalla parte occidentale del paese contro città israeliane, a cui seguì l'avvio dell’azione militare della coalizione guidata dagli Stati Uniti per la liberazione del Kuwait. All'alba del 17 gennaio, il porto marittimo di Haifa fu attaccato, in rapida successione, da tre missili iracheni SCUD. Due missili colpirono il mare appena fuori la città vera e propria, esplodendo al contatto con l'acqua. Il terzo missile colpì un centro commerciale in costruzione, vicino al check point all'entrata nord di Haifa. Fortunatamente, il centro commerciale era vuoto, la maggior parte delle persone aveva lasciato i propri appartamenti per nascondersi nei rifugi, e non ci furono vittime.

Poco dopo l'attacco aereo ad Haifa, cinque missili SCUD raggiunsero Tel Aviv. Il primo missile esplose in aria sopra il quartiere di Afeka, seminando detriti nel raggio della sua traiettoria. Il secondo colpì una fattoria a Azur, distruggendo l'edificio. Il terzo missile esplose a Ezra, un quartiere di Tel Aviv, distruggendo completamente settantasei appartamenti e danneggiandone altri mille. Fu questo missile che causò la maggior parte dei danni e tutte le vittime di questa prima ondata di attacchi – una settantina di persone rimasero feite, alcune gravemente. Degli altri due missili caduti su Tel Aviv quel mattino, uno si schiantò in un frutteto a Rishon Letzion, e l’altro esplose in aria, sopra Ganei Tikva.

Il danno era ormai fatto. Per la prima volta dalla sua nascita, nel 1948, la terra di Israele era stata colpita da un pesante bombardamento, da un attacco deliberato da parte di forze militari arabe. Dopo il rifiuto da parte americana della tattica di un attacco preventivo, e di fronte allo spettro di dozzine di israeliani feriti e trasportati all’ospedale dopo le ferite riportate dai detriti delle loro case distrutte, in Israele gli occhi di tutti puntarono agli apparati militari, e a una rapida ed efficace rappresaglia.

 

Brano tratto da "Target Iran: The Truth About the White House's Plans for Regime Change" (Nation Books, 2006).
Scott Ritter è stato ispettore Onu per gli armamenti in Iraq tra il 1991 e il 1998. Prima di lavorare per le Nazioni Unite è stato ufficiale dei marines e consigliere del generale Schwarzkopf nella prima guerra del Golfo. Attualmente è opinionista di
FoxNews. Ritter è autore di Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (prefazione di Seymour Hersh, prefazione all'edizione italiana di Gino Strada).

Fonte: AlterNet
Traduzione a cura di Simona Casadei per Nuovi Mondi Media