Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Continente Nero: tubo di scappamento del post-colonialismo dal "volto umano"

Continente Nero: tubo di scappamento del post-colonialismo dal "volto umano"

di G. A. - 05/12/2006

 


In Africa non può aver luogo storia vera e propria. Sono accidentalità, sorprese, che si susseguono. Non vi è un fine, uno stato, a cui si possa mirare: non vi è una soggettività, ma solo una serie di soggetti che si distruggono. Finora non è stata prestata che poca attenzione al peculiare carattere di questo modo dell’autocoscienza, in cui qui si manifesta lo spirito.
Hegel, 1830 (1)

Oggi a scrivere sull’Africa si corrono due “rischi”; e fra questi il secondo è l’unico ambìto da certa gente. Nel primo caso abbiamo un volume dotto, basato su documenti inediti oppure pochissimo noti alla cerchia ristretta di accademici. Viene fuori un’opera in genere sulle 500 o più pagine fitte dove sono contenute chiaramente le dimostrazioni storiche e politiche tratte dalla disamina del parco fonti. Un lavoro eccellente che il grande pubblico non vede nemmeno nelle librerie, in quanto gli editori sanno che derive di tal fatta non rientrano nelle simpatie di televisionari et similia.
Le cose cambiano quando l’autore che si dedica all’Africa magari è un noto personaggio dello spettacolo; o l’affascinante “parlamentaressa” protagonista di cronache mondane; e financo quello che ha fatto il ’68, ed oggi in cambio del servizio reso ha ricevuto uno scranno alle Camere, oppure la conduzione di spazzatura televisiva. La pubblicazione, perciò, si aggira su un numero largamente inferiore di pagine, con caratteri molto grandi, interlinea non di meno, nonché ricchissima di foto a colori tipo album per asili-nido. I contenuti a questo punto non contano, basandosi essi su frasi fatte, luoghi comuni e banalità. Si leggono ricette per salvare l’Africa assieme a descrizioni di pietanze locali o allo sdegno su Miss Mondo non benvenuta in Nigeria, ed ogni tanto qualche lacrima di Chanel sparsa qua e là sui bambini morti d’inedia. Si prende il cellulare (ma quello senza sbarre), chiamando l’amica/o tardona/e che ha una rubrica in tele o radio o in quotidiano venduto (nel senso di vendite), e si raccomanda con calore la presentazione del mucchio-fogli. Il successo è assicurato al punto che con le mie stesse orecchie, mesi fa, ho ascoltato un comico recensire un libro sull’islàm – precisiamo: per comico intendo uno che lo fa proprio di mestiere e non un uomo politico o un presentatore. Tant’è.
Ai primi dello scorso ottobre, però, è apparso un agile libro di Marco Cochi che già a principiare dal titolo ricorda la nota riflessione di Hegel: L’Ultimo Mondo. L’Africa fra guerre tribali e saccheggio energetico (Kappa, Roma 2006, euro 14,50), con presentazione di Aldo Di Lello (capo del servizio cultura del “Secolo d’Italia”); prefazione di Germano Dottori (cultore di Studi Strategici alla Luiss-Guido Carli di Roma) e appendice di Matteo Guidoni, studente universitario che presta opera di volontariato in Malawi. In otto capitoli l’opera di Cochi affronta con puntuale esaustività e ricca bibliografia ogni aspetto dell’Africa odierna. Dall’Aids al conflitto nel Dârfûr; dal fondamentalismo islamico alle fragili paci; dal petrolio sino alla penetrazione cinese che ha il pregio pragmatico di non mettersi maschere pietistiche nel far man bassa nel Continente.
Cochi è giornalista professionista. Oltre a vantare ruoli di prestigio nella stampa italiana – alla direzione esteri de “Il Giornale d’Italia” (2), il quotidiano che inventò la Terza Pagina (3) – è attualmente coordinatore di redazione del quadrimestrale “Imperi”, uno dei tre periodici italiani di geopolitica (gli altri due sono “Eurasia” e “Limes”); nonché componente di cattedra a Teoria e metodi della pianificazione sociale presso la Libera Università ‘San Pio V’ di Roma. Esperto di cooperazione internazionale e sicurezza e già allievo del grande africanista Gianluigi Rossi, Cochi è riuscito in sole 180 pagine a darci uno splendido affresco di storia contemporanea africana.
Solo pochi giorni dopo l’uscita del libro di Cochi, Giorgio Barba Naveretti in un articolo su un quotidiano milanese (4) si poneva domande sul fallimento delle politiche d’aiuto ai Paesi poveri: “Se la prima grande tragedia dell’umanità è che milioni di persone sul pianeta muoiono ancora di fame, la seconda è che continuano a morire nonostante i governi occidentali abbiano speso miliardi di dollari in aiuti negli ultimi cinquant’anni”.
Sul problema degli avanzi del ricco Epulone, Cochi nel libro afferma che negli anni Cinquanta l’Africa contava nel commercio mondiale per un misero 3%, e nei Novanta ha visto calare al 2 la sua quota nel mercato della globalizzazione e addirittura all’1,2 ai nostri giorni: “Intanto il debito estero del continente è arrivato alla cifra di 220 miliardi di dollari, falcidiando con le sue rate e i suoi interessi ogni possibilità di sviluppo e l’insieme dei servizi sociali”. Ma non solo questo. L’Autore, a dimostrazione delle sopraddette briciole fatte passare alla stregua di laute mance al portinaio, dice che gli aiuti allo sviluppo da parte dei donatori occidentali, in questi anni si sono dimezzati. Nel 1970 i Paesi ricchi si erano impegnati a destinare agli aiuti lo 0,70% dei propri Pil, e trascorsi ben trentacinque anni nessuno dei G-8 ha ancora raggiunto tale quota... a parte – aggiungiamo noi – le campagne elettorali che riempiono le piazze con cantanti che promettono al mondo l’annullamento del debito di coloro che non possono acquistare i loro album. Non per nulla, Bono cantante di punta degli U2 – paladino dei movimenti no global – scrive una prefazione piena di elogi a un volume del liberista statunitense di Harvard, Jeffrey Sachs, l’uomo che a partire dagli anni Ottanta ha predicato i benefici dell’integrazione economica internazionale e delle riforme radicali verso il mercato a decine di Paesi dell’ultimo mondo, o in via di transizione dal sistema sovietico. Ed il libro è pubblicato, nella massima coerenza, dalla casa editrice di Berlusconi (5).
Cochi, però, va oltre e con concretezza centra l’argomento: “Troppo spesso gli aiuti finiscono per rimpinguare i conti esteri di classi politiche corrotte.
Contemporaneamente, concentrando risorse nello stato, rendono più appetibile la carriera all’interno della pubblica amministrazione che nel settore privato. Di tutto l’Africa ha bisogno, fuorché di nuovi e più robusti incentivi al parassitismo”. Pare quasi leggere una cronaca di alcuni “africani” welfare states occidentali, costruiti sul consenso di coloro che non importa siano in esubero, quanto che votino.
Nel libro si dimostra il fallimento della politica degli aiuti all’Africa, al punto che oltre una decina di Stati ricevono con le donazioni la metà delle loro rendite nazionali. E non possiamo dimenticare, sottolinea Cochi, che fra il 1960 ed il 2005 il mondo ricco ha stanziato 450 miliardi di dollari (al netto dell’inflazione) a vantaggio degli Stati subsahariani. Nell’ultimo quarto del sec. XX, però, il Pil africano pro capite è sceso in media ad un tasso dello 0,56% annuo, quando ad esempio il Pil nell’Asia meridionale, nello stesso periodo, è cresciuto con un 2,94% l’anno. E non è tutto. Gli investimenti privati nell’Africa subsahariana sono i più bassi fra tutti i Paesi in via di sviluppo, e gli investimenti esteri rappresentano meno dell’1% in tutto il Continente.
Un discorso importante meritano le multinazionali le quali hanno lanciato, a parere di Cochi e di chi scrive, una nuova corsa per sfruttare le risorse presenti nel Continente, soprattutto petrolio, diamanti e minerali per l’alta tecnologia. Esse alimentano la corruzione e favoriscono l’instabilità politica.
Riguardo, poi, all’illusione-proposta strumentale che gli interventi di aiuto raggiungano i singoli individui fingendo che le istituzioni locali preposte al governo non esistano, si giunge all’ipocrisia dando ad intendere di poter fare a meno della collaborazione delle autorità locali, in grande parte “fruitrici” dei milioni di dollari destinati teoricamente ai poveri. Pensatore di quest’idea peregrina è – figuriamoci! – un ex economista della Banca Mondiale, ed oggi professore all’Università di New York, lo statunitense Willaim Easterley (6).
Gli aiuti non fanno parte, come si fa credere erroneamente, di uno schema col quale il capitalismo e l’imperialismo cerchino il perdono nei confronti dei secolari crimini ai danni dei popoli africani, o di rimediare ai danni fatti dalla “cosiddetta civiltà occidentale che nella realtà ha compiuto i più efferati delitti e massacri in ogni epoca e luogo”, come riportato da un recente numero di “Critica Sociale”, giornale socialista fondato da Filippo Turati (7).
La concezione del bianco buono, ex cattivo, è cavalcata dalle “sinistre” eternamente istituzionali, orfane del comunismo sovietico. Dopo il fallimento di Mosca d’insediarsi nel Continente ed il successivo crollo, i piccì della Nato cambiatisi di nome, ma con gli stessi giocatori e opportune campagne acquisti, hanno indirizzato le politiche estere verso i Paesi di Terzo, Quarto e Quinto Mondo in maniera similare agli esecutivi di “destra” cui succedono e viceversa.
Ma sarebbe candido pensare che i partiti che fingevano di essere all’opposizione ieri, ai nostri giorni possano vantare piattaforme comuni verso l’Africa. Nulla è altro che rafforzare la rispettiva posizione di apripista al liber(al)ismo statunitense, chi al servizio del partito repubblicano (elefanti ed elefantini) e chi del partito democratico (asini ed asinelli) affinché – attraverso pratiche governative e donatori – le regole del Fondo monetario internazionale (Imf), della Banca Mondiale (Ibrd-Wb) e dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), rendano l’Africa il mercato ideale di prodotti di consumo (nelle grandi città) e di armi (nelle periferie e campagne) portate direttamente in dono dal “mondo libero”. Una volta si diceva “burro e cannoni”, oggi “telefonino e mitragliette”. Solo i religiosi, i singoli volontari, ed organizzazioni del tipo Alisei, Médecins Sans Frontières, Emergency fondata dall’italiano Gino Strada, ecc., possono dirsi immuni dal professionismo dell’umanizzazione sotto vuoto, imbottigliato direttamente nella city delle capitali finanziarie. D’altronde sta venendo anche meno la cosiddetta fiducia a scatola chiusa verso le ong, all’indomani di recenti rivelazioni: “Le Ong vengono spesso coinvolte in scandali e sono accusate di scarsa trasparenza. E vengono anche accusate di criticare eccessivamente gli altri, mentre non riescono a mettere ordine in casa propria. ‘Le Ong sono trasparenti come dicono di essere?’, chiede Nicole Elouga, un avvocato di Yaounde. ‘Molte vengono spesso imputate per corruzione’” (8).
Clamore e ignominia hanno provocato gli abusi sessuali nei confronti di bambine compiuti da ong e soldati ONU: “La sezione britannica di ‘Save the children’, accusa ong, Caschi blu in missione di pace e uomini di affari locali di pretendere dai minori rapporti sessuali in cambio di cibo e denaro, anche solo per una birra, un film o un giro in auto. [...] Lo scandalo in Liberia va a sommarsi alle reiterate violenze perpetrate sotto lo scudo delle missioni di pace nei paesi vittime delle guerre civili. Tra i casi più recenti: Congo, Bosnia, Sierra Leone, Rwanda e Kosovo, che hanno sollevato ondate di indignazione a livello internazionale, dando finalmente il via alla discussione interna alle Nazioni Unite sulle violenze sessuali ‘ordinarie’ compiute dai peacekeepers. Nel marzo 2005 un rapporto dell’ambasciatore della Giordania all'Onu, il Principe al-Hussein denuncia: ‘La realtà della prostituzione e degli abusi sessuali nei contesti di peacekeepers è specialmente inquietante e sconcertante perché le Nazioni Unite hanno avuto il mandato di entrare a far parte di una società devastata dalla guerra per aiutarla e non per abusare della fiducia riposta dalle popolazioni locali’” (9). Ultimamente la critica alle ong è svolta anche dall’autore italiano Giordano Sivini, che denuncia il bisogno del loro gradimento da parte dei governanti africani interessati (10).
Come si vede la barzelletta del chiedere perdono e dare riparazioni non torna, come volevasi dimostrare. Per quanto concerne, invece, il sistema dei donatori, Luigi Gianturco scrive che “da una parte si dice che i paesi debbono scrivere i loro piani, dall’altra li si dà indicazione su come scriverli. Molti paesi africani si adattano: sembrano accettare il nuovo paradigma dello sviluppo nei suoi aspetti retorici, ma non lo condividono dal punto di vista pratico. Riportiamo la tagliente ma efficace definizione di un esperto che definisce come ‘vetriloquio’ il contesto, putroppo molto diffuso, in cui i donatori fanno capire quali politiche preferiscano e i governi dei paesi poveri ripetono a distanza quello che i primi vogliono sentirli dire per avere più aiuti. Siamo in un mondo d’ipocriti?” (11).
Pensare che l’Africa possa svilupparsi attraverso strade adiacenti al retaggio dei propri usi e tradizioni, resta l’unica speranza affinché il Continente rinizi finalmente a fare storia come fino ai secc. XVI-XVII. Ma se l’Occidente cercherà – col pretesto di considerarsi educatore naturale di selvaggi – a voler portare “regole democratiche di governo” a propri immagine, somiglianza e bombardieri, continueremo ad assistere alla tragica rappresentazione ricattatoria del “forte consenso a trasferire risorse verso i Paesi poveri, in cui i Governi del G8, Gran Bretagna in testa, rock star, Nazioni Unite e miliardari come Bill Gates sono coalizzati a definire grandi piani d’intervento” (12). Ah! meno male che ci ancora brave persone così disinteressate... In definitiva ha ragione Cochi ad asserire che “i fatti dimostrano che meno le grandi potenze intervengono nel continente, meno le fazioni locali possono cercare aiuto dall’esterno, meno danni ci saranno e, forse, maggiori saranno le probabilità che i compromessi e la pace prendano il posto delle devastanti guerre civili che dopo il collasso dell’Unione Sovietica hanno avuto un’accelerata diffusione”.

Note

(1) Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I vol., Introduzione Speciale, II, 3, a, 207 (La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 241-242).
(2) Fortemente caldeggiato dal pisano Sidney Sonnino, futuro Presidente del Consiglio (1906, 1909-10) e ministro degli Esteri (1914-19), ed espressione del liberalismo monarchico del primo Novecento, “Il Giornale d’Italia” uscì con il primo numero la sera del 16 novembre 1901.
(3) Dal 9 dicembre del 1901, data della rappresentazione a Roma della Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio, con interprete la diva dell’epoca, Eleonora Duse. A quello evento, ritenuto non meno importante di un comizio di Giolitti a suoi elettori di provincia, il direttore del neonato “Il Giornale d’Italia”, Alberto Bergamini, decise di dedicare una pagina intera del quotidiano, collocata dopo quelle canoniche che riportavano le notizie politiche e di cronaca: la terza, appunto. Quella intuizione giornalistica fu un successo, che contribuì al lancio di detto foglio, divenuto dopo poco tempo uno dei principali antagonisti del “Corriere della sera”, e che condusse alla graduale ma rapida istituzione della terza pagina nella generalità dei quotidiani del nostro Paese.
(4) Giorgio Barba Navaretti, Il paradosso degli aiuti, “Il Sole-24 Ore”, 29 ottobre 2006, Domenicale, p. 43.
(5) Jeffrey D. Sachs, La fine della povertà, Mondadori, Milano 2005.
(6) Willaim Easterley, The White Man’s Burden. Why the west’s efforts to aid the rest have done so much ill and so little good, Oxford, Oxford University Press 2006.
(7) “Critica Sociale”, N. 3-4/2002, p. 12.
(8) Cfr. http://www.ipsnotizie.it/nota.php?idnews=697
(9) Cfr. http://unimondo.oneworld.net/article/view/132498/1/; v. pure: http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/1842512.stm; http://uk.oneworld.net/external/?url=http%3A%2F%2Fwww.crin.org%2Fresources%2Finfodetail.asp%3Fid%3D8184; http://www.crin.org/resources/infodetail.asp?id=10778; http://www.crin.org/resources/infodetail.asp?id=8201
(10) Giordano Sivini, La resistenza di vinti. Percorsi nell’Africa contadina, Feltrinelli, Milano 2006.
(11) Luigi Gianturco, Et dona ferentes: il paradigma degli aiuti tra maschera e volto, in “Limes”, N. 3/2006, L’Africa a colori, pp. 79-80.
(12) Navaretti, cit.