Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La nuova offensiva dei media per la guerra in Iraq

La nuova offensiva dei media per la guerra in Iraq

di Norman Solomon - 07/12/2006

 

Molti giornalisti continuano a sostenere che l’idea del ritiro non sia una possibilità reale e che i democratici Usa, ora in maggioranza al Congresso, non oseranno o non dovrebbero osare troppo se tengono al bene della loro nazione. In ciò risiede la fuorviante idea implicita secondo cui la reale legittimità per la guerra in Iraq l'assicuri il Presidente e non il Congresso

L’establishment dei media Usa sta lanciando una nuova poderosa offensiva contro la possibilità di un ritiro delle truppe americane dall’Iraq.

In un recente attacco mediatico, i soliti agguerriti esponenti di destra del settore come Fox News o il Wall Street Journal (nella sua pagina degli editoriali) sono tuttavia rimasti in secondo piano. Il colpo principale è stato infatti sferrato dai piani più alti: la prima pagina del New York Times.

La situazione attuale è amaramente esplicativa per chiunque si sia mai chiesto perché la guerra in Vietnam durò così a lungo nonostante i sondaggi mostrassero come la maggioranza degli americani fosse contraria. Ora, nella lunga veglia dalle elezioni di mid-term, ampiamente considerate una manifestazione di dissenso alla guerra in Iraq, ci troviamo negli Usa con le più potenti istituzioni mediatiche unite contro il ritiro delle truppe dal pantano dei due fiumi.

Con il titolo “Ritirarsi dall’Iraq ora? Gli esperti consigliano di attendere”, il 15 novembre scorso la prima pagina del primo quotidiano Usa dava grande spazio ad una “analisi militare” di Michael Gordon. L’articolo riportava che, mentre alcuni democratici del Congresso affermano che il ritiro delle truppe “dovrebbe iniziare fra 4 o 6 mesi”, “un numero consistente di ufficiali, esperti ed ex-generali, inclusi alcuni fra i più aspri critici dell’amministrazione Bush nelle questioni irachene, si stanno opponendo a questa soluzione”.

Alcune ore più tardi, nel programma di Anderson Cooper sulla CNN, Gordon è apparso completamente trasformato in un impassibile esperto, e ha sostenuto che il ritiro in questo momento sarebbe un’ipotesi “semplicemente non realistica”. Proprio come fosse un portavoce del Pentagono, Gordon ha proseguito sostenendo chiaramente la sua ferma opposizione al ritiro delle truppe.

Se un reporter di guerra del New York Times fosse apparso in televisione a difendere il ritiro delle truppe in maniera tanto inequivocabile quanto Gordon nella sua apparizione televisiva del 15 novembre sulla CNN, sarebbe stato immediatamente richiamato dai suoi superiori, e probabilmente sollevato dall’incarico. Invece, i servizi che fanno proprie e promuovono le regole fondamentali della sicurezza nazionale del paese vengono incoraggiati.

Ecco come e perché la prima pagina del Times ha dato grande spazio al lavoro di Judith Miller durante l’invasione irachena. E ancora ecco come e perché il giornale è ora così compiacente verso il lavoro di Michael Gordon.

A questo punto, titoli come “i critici dell’amministrazione Bush rincarano la dose sulle questioni irachene” sono quasi privi di significato. La maggior parte dei “critici” citati dai media sono in realtà contrari a un minore coinvolgimento degli Stati Uniti nella carneficina irachena, e alcuni di loro sostengono addirittura un incremento del numero delle truppe per l’occupazione del paese.

Negli ultimi giorni, i servizi giornalistici sull’Iraq hanno fatto venire in mente i loro predecessori sul Vietnam. Il costante adeguamento alle politiche interne della Casa Bianca ha trasformato diversi e autorevoli giornalisti in co-produttori di una pervasiva sceneggiata che insista più che mai sulla necessità dell’impegno di guerra per gli Usa.

Dalla caduta di Saddam Hussein si ripetono storie e telecronache che servono su un piatto d’argento il paragone col Vietnam; tuttavia, raramente si è fatta luce sulle problematiche comuni ai media Usa rispetto alle due guerre.

Sia nel 1968 sia nel 2006 la maggior parte degli organi informativi di Washington si sono dati un gran da fare per dipingere il ritiro delle truppe americane come impraticabile e distante dalla realtà.

Contrariamente al mito sulla copertura mediatica nella guerra del Vietnam, la stampa americana ne contemplò seriamente un ritiro. Con un ritardo di troppi anni, però; questo contribuì alla perdita di nuove vite – complessivamente decine di migliaia di americani e un milione di vietnamiti.

Un sondaggio del Boston Globe condotto nel febbraio del 1968 rivelò che negli Stati Uniti su 39 quotidiani nessuno aveva pubblicato articoli a favore del ritiro dal Vietnam. Oggi, nonostante il sentimento nazionale generale avverso alla guerra e le recenti elezioni, il ritiro dall’Iraq sembra ancora un’ipotesi piuttosto fragile fra le moderne élite dei media.

Le ordinarie sviste dei mezzi d’informazione sono parte di una tattica che mira a rimandare la questione. Riferimenti cauti e un atteggiamento severo verso il governo di Baghdad (similarmente a quanto avveniva rispetto al governo di Saigon), indicano che si cerca di evitare, anziché rianimare, il dibattito.

Molti giornalisti continuano a sostenere che l’idea del ritiro non sia una possibilità reale e che i democratici ora in maggioranza al Congresso, ci dicono, non oseranno o non dovrebbero osare spingersi troppo oltre se tengono al bene della nazione. In ciò risiede la fuorviante idea implicita secondo cui la reale legittimità per la guerra in Iraq debba assicurarla il Presidente e non il Congresso.

Quando prendo in considerazione tale presunzione penso al quarantaduenne di “Face the Nation”, il programma della CBS. L’anfitrione del programma nel 1964 era il famoso giornalista Peter Lisagor, il quale disse ad un ospite: ”Senatore, la Costituzione conferisce al Presidente degli Stati Uniti la responsabilità esclusiva nella conduzione della politica estera”. “Non potrebbe essere più falso”, rispose il senatore Morse con la sua voce roca. “Non potrebbe esserci una tesi più erronea di questa dal punto di vista legale. Si tratta della promulgazione di un’antica credenza. Un vero controsenso”. Lisagor era quasi sul punto di deriderlo quando si sentì chiedere: “E allora di chi sarebbe la competenza, senatore?” Morse non perse un colpo: “Appartiene agli americani”, ribattè di getto. “I fatti di politica estera devono essere dati in mano al popolo”.

Il giornalista rilanciò: ”Vede, senatore, il popolo americano di fatto non può formulare e mettere in atto la politica estera”. Indignata la risposta di Morse: ”Perché dice ciò? Io ho piena fiducia nella capacità degli americani di rilasciare una propria autorevole opinione se solo verranno informati. La mia vera accusa contro il governo, se ancora non è chiaro, è che non stiamo informando la nostra gente”.

Morse, senatore senior dell’Oregon, era un esperto sia di diritto costituzionale statunitense sia di diritto internazionale; mentre respingeva vigorosamente la tesi secondo cui la politica estera appartiene esclusivamente al Presidente, Morse parlava in termini risoluti della guerra in Vietnam. A un’udienza del "Senate Foreign Relations Committee", il 27 febbraio del 1968, Morse dichiarò: “Non intendo macchiarmi le mani del sangue di questa guerra”.

E, profeticamente, aggiunse: “Ritengo un giorno saremo colpevoli di essere diventati la più grande minaccia alla pace nel mondo. È un’orribile prospettiva, e noi americani preferiamo non affrontarla”.



L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq, le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy.
È inoltre autore dell'introduzione a Censura 2006 – Le 25 notizie più censurate.

Sull'Iraq vedi Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (Prefazione del premio Pulitzer Seymour Hersh – Prefazione all'edizione italiana di Gino Strada), di Scott Ritter.





Fonte: Common Dreams
Traduzione a cura di Anna Lucca per Nuovi Mondi Media