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Ci sarà la guerra civile in Libano?

di Nada Doumit - 07/12/2006





Oggi, i politici libanesi si trovano a scegliere tra due alternative molto semplici: o discutono, oggi, della situazione politica mirando ad una soluzione consensuale che eviti lo scoppio di una guerra civile, o ne discuteranno dopo aver fatto una guerra non dichiarata. I problemi strategici nazionali del Libano sono già stati dibattuti due volte da quattordici leader politici rappresentanti della stragrande maggioranza delle fazioni politico-religiose libanesi. Questi dialoghi non hanno consentito di arrivare ad un'intesa sull'avvenire del paese del Cedro. Conseguenza di questi fallimenti: una situazione politica più tesa che mai, che rischia di costare cara. E per molti analisti, gli ingredienti di una nuova guerra civile in Libano ci sono ormai tutti.

In effetti gli omicidi a ripetizione che prendono di mira importanti personalità politiche e mediatiche, dall'assassinio dell'ex primo ministro Rafiq Hariri nel febbraio dell'anno scorso, fino all'attentato in cui è morto il ministro dell'Industria Pierre Gemayel, il 21 del corrente mese, spingono le varie fazioni libanesi verso lo scontro.

Ciò nonostante, non sembra ancora arrivato il momento di una guerra civile. I ricordi del periodo 1975-1990 turbano ancora oggi una società libanese che continua, per il momento, a rifiutare, in un modo inconsueto, di passare allo scontro violento. Ma si deve anche confessare che questi omicidi logorano rapidamente la reticenza alla violenza, ed installano una dinamica di scontro, essendo la società libanese molto politicizzata.

I politici libanesi, siano essi cristiani o musulmani, sunniti o sciiti, non troverebbero oggi beneficio alcuno in una guerra civile. In maggioranza sono degli anziani capi di guerra che hanno lottato durante la guerra civile: i leader cristiani maroniti, il generale Michel Aoun ed il suo ex-nemico Samir Giagia, capo delle Milizie Libanesi, il capo druso Walid Giumblatt ed il presidente sciita dell'Assemblea nationale, Nabih Berri. tutti sono d'accordo per considerare catastrofico ogni atto di violenza interna. Amin Gemayel, ex-presidente della Repubblica e padre del ministro recentemente assassinato, ha lanciato un appello alla memoria ed al rifiuto di ogni atto di vendetta. Lo Hezbollah, l'unico corpo armato non-governativo, ha insistito, tramite il suo segretario generale Hasan Nasrallah, affinché qualsiasi azione mirante a rovesciare il governo attuale - come ad esempio le manifestazioni - sia pacifica e non metta in pericolo la pace pubblica.

Un altro ingrediente - chiave di una potenziale guerra civile è il fattore religioso: questo non è abbastanza determinante da poter motivare violenze su vasta scala. Certo, la società libanese è molto polarizzata a livello religioso, ma le divisioni politiche attuali fra i "prosiriani" e gli "antisiriani" non si sovrappongono a palesi fratture religiose.
Questa autonomia delle divisioni politiche rispetto alle fratture religiose tradizionali indebolisce la dinamica religiosa tesa ad un potenziale conflitto. Da una parte, la maggioranza degli "antisiriani" al potere è formata inanzitutto dal blocco sunnita diretto da Saad Hariri, il figlio di Rafiq Hariri, dal suo alleato druso Giumblatt e dal loro alleato cristiano commune, Samir Giagia. Dall'altra parte, i "prosiriani" sono sotto la direzione dello Hezbollah, alleato del movimento sciita Amal; il capo cristiano Michel Aoun ed altri rappresentano i Drusi ed i Cristiani minoritari. Di fronte a questa situazione, una divisione "tradizionale" fra cristiani e musulmani non è probabile in un futuro vicino.

Dall'altra parte, l'esplosione di un conflitto fra sunniti e sciiti sembrà più probabile, sotto l'influenza crescente esercitata dal conflitto in Iraq sul Medio-Oriente. Ma la guerra in Iraq non è abbastanza "vicina" per essere in grado di esportare la propria dinamica nell'ambito libanese né per coinvolgere tutte le fazioni libanesi in un qualsiasi conflitto.

Ciò detto, gli omicidi nominali e le ingerenze degli attori regionali spingono la società libanese ad esprimere le idee politiche in maniera violenta. Ma le correnti politiche tali il prosirianismo ed il suo contrario, l'antisirianismo, non sono affatto delle ideologie che possano motivare cittadini libanesi a impugnar le armi ed a combattersi a vicenda.

L'ingrediente essenziale per il verificarsi di una guerra civile nel Libano rimangono le armi. Finora, solo lo Hezbollah possiede un arsenale ed un'organizzazione militare. E' anche l'unica organizzazione politica ad avere un'ideologia abbastanza poderosa per mantenere - anzi sviluppare - un armamento di qualche conto, col sostegno popolare degli Sciiti. Ma ha anche spesso ripetuto, lo Hezbollah, che le sue armi non sono mai state utilizzate se non contro Israele. E nel peggiore degli scenari, occorrebbe per di più trovare un altro protagonista che sia pronto a fare la guerra allo Hezbollah e che sia armato e dotato di un'ideologia poderosa, avversa a quella dello stesso Hezbollah.

Sin dall'Ottocento, le guerre in Libano si sono concluse grazie ad accordi supervisionati da potenze straniere. I negoziati che hanno gettato le fondamenta dell'odierno sistema politico libanese, e che hanno messo fine alla guerra civile, nel 1990, si sono sviluppati dopo quindici anni di conflitto, dopo 150 000 morti e 300 000 feriti. Furono patrocinati dalla Siria, e si svolsero, con benedizione franco-americana, in Arabia Saudita. Questo nuovo sistema politico è giunto al termine col ritiro siriano dal Libano, nel mese di aprile dell'anno scorso (2005). Da allora, hanno avuto luogo vari dibattiti per riflettere sull'avvenire del Libano ed evitare una nuova guerra civile. Ma queste discussioni sono fallite.

Questo dialogo ha avuto, se mai, il merito di non essere stato padroneggiato da paesi stranieri: ciò spiega perchè la guerra non sia ancora una realtà.

Ma caso mai questi negoziati fallissero… ce ne sarebbero altri, senza dubbio. Ma soltanto dopo una nuova guerra civile.


di Nada Doumit
da Le Monde
tradotto da Marcel Chorbonnier per Tlaxcala, rete di traduttori per la diversità linguistica