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Gates: la nuova strategia Usa in politica estera

di Antonella Vicini - 09/12/2006

 


Chi sosteneva che la vittoria dei democratici alle elezioni di medio termine negli Stati Uniti significasse un cambio di rotta per quel che riguarda la politica estera americana ha avuto ragione. Una ragione dal valore probabilmente, anzi, sicuramente formale, ma comunque visibile. Il primo segnale della volontà di mostrare una nuova via, dopo le dimissioni di Donald Rumsfeld da capo della Difesa e quelle di John Bolton come ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, è stata l’audizione che Robert Gates (nella foto), fresco di nomina al Pentagono, ha tenuto martedì sera (ora italiana) al Senato.
Ammissioni di fallimento e di difficoltà che hanno accordato all’ex direttore della Cia il placet bipartisan per la sua prossima investitura alla Difesa. Il sì dell’aula è atteso nelle prossime ore, e visto il risultato ottenuto l’altro ieri è pressoché scontato. Il discorso di Gates ha infatti soddisfatto sia democratici, sia repubblicani propria per quella ventata di manifesta e apparente novità che ha apportato, almeno a parole, ad un ruolo che è stato per anni caratterizzato dalla sicurezza di Rummy, difficilmente scalfita, anche di fronte ai disastri e alle perdite subite in Iraq e in Afghanistan. Esplicito l’intento di Gates.
“Il presidente mi ha chiesto di affrontare la situazione con uno sguardo nuovo ed è quello che intendo fare. Lavorando in costante contatto con la Casa Bianca e con il Parlamento”.
Esplicita anche la nuova strategia dell’Amministrazione, da un lato costretta a confrontarsi con la maggioranza democratica, e per questo ad abbassare il tiro, dall’altro consapevole della disfatta subita, non solo sui fronti di guerra, ma anche su quello politico, nazionale ed internazionale, e per questo cosciente della necessità di apportare delle modifiche alle proprie metodologie.
Per questo il passaggio dall’unilateralismo senza possibilità di appello all’apertura, moderata, è una tappa pressoché obbligata.
Le affermazioni di Gates vanno infatti in questa direzione: possibilità di dialogare con quei Paesi che finora sono stati invece nel mirino della Casa Bianca, cioè Siria e Iran. Questo non significa eliminare i due Stati dalla lista degli avamposti della tirannia, o primigeni ‘stati canaglia’, ma ammettere che senza la collaborazione delle, forse, uniche nazione dell’area fuori dall’asse di potere statunitense sarà difficile cavar ragno dal buco nel Vicino Oriente.
A ispirare le linee strategiche del new deal americano, l’Iraq Study Group, di James Baker, il cui principio basilare si fonda proprio sul concetto che “la politica estera è destinata al fallimento se non si regge su un vasto consenso”, interno e internazionale. E dialogo con Damasco e Teheran è, infatti, proprio quello che richiedono da tempo sia all’interno degli Stati Uniti, sia in Europa, “per evitare il rischio di una terribile conflagrazione regionale”. Per questo motivo il neo capo del Pentagono ha sottolineato la necessità di evitare un’altra disastrosa avventura militare.
“Tutti i Paesi circostanti - ha dichiarato Gates - hanno un interesse oggettivo a stabilizzare l’Iraq”. Ma primi fra tutti sono gli Stati Uniti ad averne bisogno e urgenza. Questo significherà che i soldati americani resteranno a Baghdad ancora a lungo, ma con “con forze progressivamente ridotte” e, successivamente, con funzioni di “supporto logistico” all'esercito e alla polizia nazionali. Per tutto il 2007, comunque, la situazione resterà immutata. I prossimi passi nella direzione indicata da Gates potrebbero partire dai primi mesi del 2008. Tutto per il momento, però, rimane in linea teorica, e dipenderà, ovviamente, dalle condizioni su terreno. Un approccio meno granitico, dunque, più incline all’analisi, debitore forse dell’esperienza di capo dei servizi Usa del 63nne segretario alla Difesa, che si ritrova anche nell’orientamento palesato nei riguardi della questione israelo- palestinese. Posto che gli Usa sono e resteranno filoisraeliani e filosionisti, Gates ha fatto capire che Washington deve recuperare un ruolo di arbiter della questione, senza apparire più così marcatamente schierato. Si tratta di un gioco della tre carte, è evidente, così come è chiaro che nella sostanza la politica statunitense sia figlia di una matrice imperialista irrinunciabile. La differenza è quindi solo nella forma. Ma è sempre una differenza.