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Il giramondo dello sviluppo sostenibile

di Cosma Orsi - 12/12/2006

 
La salvaguardia dell'ecosistema e dei beni comuni è la condizione necessaria per evitare la crisi irreversibile della società contemporanea
Un'intervista con lo studioso John McMurtry. Affermato docente e influente opinion maker tra i gruppi di base canadesi e statunitensi, paragona il capitalismo a un virus che distrugge la società. E critica i movimenti sociali, perché presi dalla denuncia degli effetti della globalizzazione e indifferenti alla necessità di elaborare una nuova razionalità economica La concezione utilitaristica dell'agire umano produce l'illusione di una crescita senza limiti e chiude<

John McMurtry ama definirsi un filosofo universalista. Nella più classica tradizione accademica nordamericana, è riuscito a terminare gli studi grazie ad una borsa di studio per meriti sportivi. Studioso eclettico e curioso, ha molto viaggiato, visitando più di ottanta paesi, riversando le sue esperenze di viaggio in numerosi libri e articoli. Con malcelato sarcasmo, afferma che la sua vita accademica è stata dedicata alla critica del sistema economico oggi predominante. Noto in Canada e negli Stati uniti per le sue prese di posizione contro il neoliberismo, è stato spesso considerato dai media come uno degli studiosi più influenti, assieme alla giornalista Naomi Klein, del movimento antiglobalizzaizone in Canada. Nella sua opera più famosa, The Cancer Stage of Capitalism, ha perentoriamente equiparato il capitalismo contemporaneo a un cancro che corrode l'intera struttura sociale. Con tono spesso profetico, auspica non solo un cambiamento radicale dell'attività economica, ma l'emergere di un nuovo paradigma della teoria economica, in cui la salvaguardia dell'ecosistema e del legame sociale sovverta i principi della razionalità economica. Lo abbiamo intervistato nella sua residenza fuori Toronto dove trascorre lunghi periodi in cui scrive le sue opere, per chiedergli cosa ne pensa della globalizzazione, e quali sono le strategie per uscire dal vicolo cieco in cui essa sta gettando l'unamità tutta e l'ecosistema.

In un momento storico nel quale l'accumulazione del capitale si fonda sulla produzione immateriale (processi di apprendimento e cognitive) le due teorie del valore che stanno alla base della teoria economica, e cioè la teoria del valore-lavoro e quella che si basa sull'idea di scarsità e utilità hanno ancora rilevanza?

Nessuna delle due teorie è adeguata a descrivere l´attuale paradigma accumulativo. La teoria del valore-lavoro era progressiva per il suo tempo, in quanto riconosceva i lavoratori salariati come la fonte primaria del valore di scambio, un'implicazione della teoria classica che Marx ha reso a suo tempo «rivoluzionaria». La teoria marginale del valore ha basato la sua spiegazione dell'economia nei termini della volontà (possibilità) di pagare un prezzo. Entrambe le teorie tralasciano valori fondamentali quali l'ecosistema e il lavoro volontario non remunerato (ad esempio il lavoro di cura delle donne all'interno delle mura domestiche), senza i quali nessuna società potrebbe esistere. Nel lungo periodo questa «svista» ha fatto sì che l'atmosfera, l'aria che respiriamo, il ciclo delle stagioni, l'acqua potabile, la riserva planetaria di idrocarburi sono stati sempre più inquinati, destabilizzati e consumati da un sistema economico indifferente ai bisogni del pianeta e dei suoi abitanti. Quello che è allarmante è che i leader politici e i loro analisti economici fanno passare tutto questo per «sviluppo economico». Il valore economico, per come lo intendo io, non crea ne viene né creato dagli input del lavoro, né può essere calcolato attraverso il meccanismo dei prezzi di mercato. Soltanto una regolazione della distribuzione di beni e risorse basata su precisi standard ecologici e sociali potrebbe assicurare una riproduzione naturale del capitale.

Come colmare, dunque, queste vistose mancanze dell'economia sull'ecosistema e sul lavoro non renumerato?

L'economia è, o meglio dovrebbe essere, quella scienza che si occupa di non sprecare le risorse necessarie per la riproduzione della specie umana e dell'ambiente naturale che lo circonda. Oggi, invece, la cultura economica dominante sostiene che i fattori rilevanti sono i costi che deve affrontare il capitale e il margine di profitto che le imprese devono produrre, mentre i costi sociali ed ecologici vengono regolarmente esternalizzati. Questo modo di ragionare ha però creato le basi per gli effetti indesiderati cui facevo cenno nella precedente risposta. Detto questo, la risposta alla sua domanda è relativamente semplice: si deve ripensare l'attività economica a partire dai bisogni degli esseri umani e dell'ecosistema. Dovrebbe dunque favorire la produzione di tutti quei beni e servizi che permettono la riproduzione della specie umana in armonia con l'ambiente che la circonda.
Sfortunatamente, al momento nessun modello economico è in grado di prendere seriamente in considerazione la cornice teorica cui ho accennato. Invece di limitarsi a criticare l'attuale modo di organizzare la vita economica, credo sia giunto il momento di sviluppare un nuovo paradigma, problema al quale ho dedicato gli ultimi anni di ricerca, culminati in quelli che ho recentemente definito come «teoremi primari della ragione economica».

Un nuovo paradigma o un punto di vista critico sul presente?

Un nuovo paradigma. Sebbene molti movimenti radicali di protesta percepiscano la necessità per un cambio di paradigma, sono tuttavia imbrigliati in una logica matematico-formalistica che conserva come una reliquia valori inaccettabili per la gran parte degli esseri umani. Inoltre, una gran numero di ambientalisti (per la maggior parte appartenenti alla «scuola americana») sono totalmente imbevuti dalla logica di mercato che non riescono a vedere più in là delle imprese for-profit come cornice della loro riflessione sul sistema economico. Ci offrono soltanto modelli di innovazione eco-tecnologica, senza proporre alcun cambiamento strutturale nella razionalità economica. Sono così propensi a venerare il mercato che rifiutano ogni cambiamento strutturale delle regole.

Cosa andrebbe dunque fatto?

Si dovrebbe instaurare un regime vincolante tra i paesi aderenti al Wto (l'Organizzazione mondiale del commercio) che sia fondato sulla riduzione pianificata dell'utilizzo degli idrocarburi come condizione sine qua non per avviare scambi commerciali ed esportazioni. Pur essendo questa una necessità imprescindibile nessuno fa menzione a questa proposta, né a livello politico, né accademico.

Lo studioso Norman Geras nel suo «The Contract of Mutual Indifference» (Verso 1998) ha sostenuto che viviamo in un contesto sociale caratterizzato da un «Contratto di Reciproca Indifferenza» dove l'Homo Oeconomicus regna sovrano. E' d'accordo con questa affermazione?

E' difficile considerare «uomo economico» chi è alla guida di un sistema che si basa sullo spreco. Questa versione dell'Homo Oeconomicus è assurda, e il suo istinto di massimizzare il proprio tornaconto personale è da considerarsi psicopatico. L'unico possibile legame sociale che prevede è quello rappresentato da contratti privati che avvantaggiano solo uno dei contraenti. Il problema però è la sintassi con la quale è costruito questo pensiero. Come sostengono alcuni studiosi francesi, penso al movimento antiutilitarista del Mauss, l'economia è diventata una disciplina autistica, che finisce con il disseminare la cultura della globalizzazione facendola passare per un imperativo universale.

Ma questo corso economico gode di consenso. Non crede?

E' vero. La maggior parte di coloro che abitano nell'emisfero ricco del pianeta ritiene che l'economia sia regolata da principi razionali quali l'accumulazione del capitale ottenuta attraverso competizione leale, efficienza e assenza di spreco. In un contesto sociale dove il calcolo economico è confinato allo scambio tra coloro che possiedono sufficienti diritti sui titoli di proprietà, l'«ottimo sociale» è dato dalla mano invisibile del mercato. Ma questa è soltanto un'illusione. Tutti noi sappiamo quanto la mano invisibile sia cieca di fonte ai requisiti di giustizia sociale e ecologica. Non è difficile capire che tutto ciò porta a un inevitabile collasso sociale ed ecologico.
Il reddito di esistenza, unitamente alla riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario sono misure spesso citate per fronteggiare l'avanzare della povertà e dell'esclusione sociale a livello gloable, ma anche locale. A suo parere queste proposte sono in grado di riconnettere l'economia ai bisogni individuali in modo radicale?
Proposte «liberatorie», ma isolate. Credo soprattutto che la logica economica oggi dominante non verrebbe minimamente alterata. In termini di pure forze produttive, chi ci dice che i lavoratori, una volta svincolati dal bisogno di procurarsi la sussistenza giornaliera, continuerebbero a lavorare? Senza la minaccia dell'indigenza e della fame, chi farebbe i lavori più umili e faticosi? E ancora: coloro che sono pagati lo stesso salario per una prestazione lavorativa ridotta come potrebbero mantenere il lavoro quando la competizione internazionale spinge le loro imprese fuori dal mercato?
Queste proposte di riforma sono indubbiamente lodevoli, ma non credo siano queste le risposte più adatte a risolvere i problemi che il capitalismo contemporaneo ci pone. Prima di entrare in crisi, il welfare state era riuscito a garantire gli stessi benefici di un reddito di cittadinanza e della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, ma il nuovo corso economico rappresentato dalla globalizzazione ha reso vani questi benefici trasformandoli in mera utopia. Si guardi all'Unione Europea. Negli ultimi 25 anni è stata all'avanguardia nel coniugare un regime di scambi economici internazionali con programmi sociali collettivamente finanziati. Ora è in balia di uno stile americano di tagli alla spesa pubblica che i governi democraticamente eletti propinano ogni momento. L'idolatria del mercato deve essere affrontata ad un livello ben più profondo.

In molti hanno tentato di dare una definizione di globalizzazione. Quale è la sua?

Non amo dare definizioni, soprattutto quando non vi è sufficiente spazio per l'argomentazione. Ciò che si può fare invece è indicare quali siano i suoi tratti salienti e come sia diversa dalle precedenti fasi economiche. La svolta secolare è stata l'istituzione di un modello di capitalismo globale concepito come una legge naturale e regolato da trattati internazionali. Il propellente di questo meccanismo era rappresentato dall'afflusso di fondi da parte degli investitori che ricercavano solamente la massimizzazione dei profitti rifiutando qualsivoglia interferenza da parte dello stato. In questa cornice, gli stati-nazione dovevano solo agevolare la competizione.

Come spiega il fenomeno del fondamentalismo religioso in questo modello di capitalismo?

Lo scopo religioso del sistema globalizzato delle multinazionali è l'adorazione della mano invisibile del mercato, vista come l'unica garanzia per mantenere un ordine sociale in cui regni la libertà umana. Nessuno si può permettere alcuna opposizione. Nessuno può criticare senza essere scomunicato dai media. E' in questa chiave che si deve intendere la campagna evangelica contro tutti i paesi non-capitalisti. Essi vengono dipinti come demoniaci. Neppure i filosofi e i commedianti sono più in grado di rappresentare la logica perversa del nuovo ordine mondiale, soprattutto dopo il disastro dell'11 settembre, che ha trasformato ogni opposizione in terrorismo.

In molte occasioni lei ha parlato della distruzione dei beni comuni da parte di poteri militari o finanziari. Ci può spiegare cosa intende con questa affermazione?

Per beni comuni io non mi riferisco soltanto alle risorse naturali, ma a tutto ciò che contribuisce a caratterizzare la società contemporanea come ad esempio il sistema di leggi, l'acqua potabile, il cibo, l'energia, la sanità pubblica, l'educazione, la cultura, i parchi, le città. E la lista potrebbe continuare all'infinito. In questa accezione essi possono essere definiti come «ogni costrutto sociale che garantisce l'accesso ai beni necessari a condurre una esistenza dignitosa». Con l'avanzare del capitalismo questa tipologia di beni sono stati saccheggiati attraverso veri e propri espropri che hanno permesso al capitale di accedere alle risorse naturali patrimonio dell'umanità intera.
Originariamente, le risorse naturali espropriate erano le terre su cui pascolavano le pecore, dalle quali i contadini potevano ricavare il loro sostentamento. Oggi sono principalmente il petrolio e tutte quelle risorse da cui si estrae energia. Essendo queste risorse sempre più scarse, il loro valore finanziario è notevolmente accresciuto. Il concetto di bene comune riconosce la preminenza della società sulla ragione economica. Un modello redistributivo confacente alla nozione di bene comune dovrebbe garantire l'accesso alle risorse comuni unitamente al loro mantenimento. Questa dimensione sociale è andata persa. Il bene comune è la sintassi universalmente condivisa e i simboli che costituiscono la mappa del significato umano. Il suo opposto è il privilegio di classe.