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Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale

di Lanfranco Nosi - 13/12/2006

Fonte: profed

 

ANALISI, CRITICHE E PROSPETTIVE DELLA TEORIA DI S. P. HUNTINGTON

 

 

     PREMESSA

Quale sarà il futuro geopolitico del pianeta? E’ una domanda a cui molti studiosi e osservatori, in particolar modo “occidentali”, dalla fine della Guerra fredda, hanno tentato di rispondere, ed in modi molto diversi: la scomparsa del “nemico principale” del cosiddetto “Mondo libero” ha rimesso in discussione quella forma particolare di “ordine mondiale” fondato sulla contrapposizione delle due superpotenze (e nei fatti anche lo schema interpretativo degli avvenimenti nel mondo fondato sulla stessa divisione), e ha portato inevitabilmente a formulare ipotesi su un “nuovo ordine mondiale”.

Tra queste, una particolare attenzione, sia in positivo che in negativo, è stata data a quella proposta da S.P. Huntington, esposta in una prima forma nell’articolo “The Clash of Civilizations?” apparso su “Foreign Affairs” dell’estate del 1993, ed ampliata ed aggiornata con l’uscita del libro “The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order” nel 1996: un lavoro con notevoli ambizioni, visto che, a detta dello stesso autore, l’intenzione è quella di

 

“…presentare un modello interpretativo dello scenario politico mondiale che risulti valido per gli studiosi ed utile per i politici.”[1]

 

Un’intenzione piuttosto diffusa nella politologia statunitense, ed in particolar modo presso quegli autori che nel tempo si sono occupati del complesso tema dello “sviluppo politico”, tra i quali va annoverato lo stesso Huntington.

Ma qual è la tesi di fondo di tale lavoro? E’ lo stesso autore che ce la indica esplicitamente, e cioè che

 

“… la cultura e le identità culturali – che a livello più ampio corrispondono a quelle delle rispettive civiltà – siano alla base dei processi di coesione, disintegrazione e conflittualità che caratterizzano il mondo post-Guerra fredda”[2]

 

In realtà, come è evidente sia dal titolo dell’articolo del 1993 sia da quello del libro, una particolare rilevanza è assunta dagli aspetti conflittuali del rapporto tra identità culturali, e specificatamente dei rapporti tra “civiltà”, in quanto (e questo costituiva la tesi centrale dell’articolo)

 

“…l’elemento centrale e più pericoloso dello scenario politico internazionale che va delineandosi oggi è il crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà.”[3]

 

Questo è quindi l’aspetto forse più importante da affrontare, dato che è soprattutto in relazione a tale punto che Huntington propone le sue soluzioni: le prime tre parti del libro sono infatti leggibili come una (notevole) parte introduttiva alle parti conclusive, che affrontano compiutamente il tema dello scontro delle civiltà e il “futuro delle civiltà”, e quest’ultimo è a sua volta comprensibile solo tenendo conto della centralità dell’elemento conflittuale.

 Per rendere meglio l’importanza di quest’ultima relazione, è opportuno citare la frase conclusiva del libro di Huntington, che risulta essere particolarmente significativa:

 

“Nell’epoca che ci apprestiamo a vivere, gli scontri di civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la miglior protezione dal pericolo di una guerra mondiale.”[4]

 

Tenendo quindi conto di tali osservazioni, è necessario vedere come si configura la dimensione dello “scontro” e del conflitto nella prospettiva di H, anche e soprattutto per cercare di valutare se il modello da lui proposto in che misura possa essere un utile strumento di interpretazione della realtà odierna.


 

PARTE 1 – RICOGNIZIONE: IL MODELLO DELLE CIVILTA’ DI HUNTINGTON -

 

Prima di affrontare nello specifico il tema dello scontro, è necessario cercare di comprendere quali siano gli elementi essenziali del modello che ci propone Huntington: un modello che, a detta dello stesso autore, permetterebbe di superare i problemi posti da altre teorie sui possibili “scenari” post- Guerra fredda, ed in particolare

 

“Un simile approccio non sacrifica il realismo alla norma come fanno i modelli del mondo unico o dei due mondi, né sacrifica la norma al realismo, come fanno i modelli statalista e del caos. Esso offre una cornice concettualmente semplice per comprendere il mondo…contempla ed elabora elementi propri di altri modelli ed è maggiormente compatibile con essi di quanto lo siano gli uni con gli altri.”[5]

 

In altri termini, Huntington sostiene che il suo modello comprende, e al contempo supera le altre teorie (e di conseguenza dovrebbe essere il modello al quale obbligatoriamente o quasi riferirsi), in quanto riuscirebbe ad includere e spiegare tutte le tendenze considerate rilevanti nella definizione di uno “scenario mondiale”, ed in particolare:

-          l’esistenza di un “impulso all’integrazione” presente nel mondo (variamente definito come globalizzazione, mondializzazione, et cetera), come sostengono al fondo tutte le teorie che “predicano” l’avvento di un mondo “unico”, che nel modello delle civiltà diventa il processo innescante “resistenza ai distinguo culturali e a una maggiore presa di coscienza della propria civiltà di appartenenza”[6].

-          Che comunque si può rilevare una specie di “divisione in due parti” dello scenario mondiale, come sostengono le teorie “dei due mondi”, ed in particolare la teoria che vede come cleavage fondamentale il confronto tra Nord e Sud del mondo, ma che la “linea di demarcazione” essenziale si colloca tra il cosiddetto “Occidente”, la civiltà dominante, e gli altri, i “non occidentali”.

-          La persistenza degli stati nazionali come attori rilevanti della politica internazionale, come sostengono le teorie stataliste, ma con la fondamentale considerazione che la dinamica delle relazioni tra questi sarà sempre più determinata “da fattori inerenti alla loro cultura e civiltà di appartenenza”.

-          La “caoticità”[7] della situazione mondiale, una situazione in cui, però, sono più pericolosi i conflitti tra stati o gruppi appartenenti a civiltà diverse, effettuando in tal modo una individuazione dei conflitti rilevanti.

In questi quattro punti si concentra nei fatti la “visione del mondo” secondo Huntington, ma è evidente che occorrono altre precisazioni.

 Risulta necessario capire come il politologo americano imposta il discorso su alcuni elementi fondamentali nell’economia del modello. Innanzitutto, problema delle identità collettive e del processo di identificazione: a questo proposito, risultano significativi alcuni passi del primo capitolo del libro:

 

“Popoli e nazioni tentano di rispondere alla più basilare delle domande che un essere umano possa porsi: chi siamo? E lo fanno..facendo riferimento alle cose che per lui hanno maggiore significato. L’uomo si definisce in termini di progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni. Si identifica con gruppi culturali: tribù, gruppi etnici, comunità religiose, nazioni e, al livello più ampio, civiltà.”[8]

 

Già questo passo potrebbe porre problemi notevoli, in quanto, a parte il fatto che rimane scarso, anche nel resto del libro, l’approfondimento delle relazioni esistenti tra questi diversi tipi di identificazione, in quanto non è riducibile solo ad una questione di livello, ma entrano in gioco anche altri fattori, l’elenco dei possibili gruppi culturali risulta essere troppo limitato: perché, ad esempio, escludere a priori quella forma di cultura che è l’ideologia politica?  E le distinzioni di genere e di orientamenti sessuali, che costituiscono importanti fattori di orientamento culturale, soprattutto nel “mondo occidentale”? Quella che Huntington propone è una concezione di identità in definitiva troppo legata all’”ethnos”, e forse “ritagliata” troppo su misura alle esigenze dell’obiettivo dello studio.

Un altro aspetto interessante consiste in quello che può essere considerato un elemento basilare per comprendere la dinamica dello “scontro”: Huntington dice esplicitamente che

 

“sappiamo chi siamo solo quando sappiamo chi non siamo e spesso solo quando sappiamo contro chi siamo.[9]

 

E’ più evidente la limitatezza della dinamica di identificazione qui proposta: se è vero che il processo di identificazione si struttura anche attraverso questo momento di confronto/scontro con l’Altro-da-se, e quindi è possibile individuare una dimensione polemica dell’identità, è altresì vero che non è accettabile limitare il processo soltanto a tale aspetto o farne, come di fatto Huntington propone, l’elemento principale.

In secondo luogo, è importante evidenziare come si configura concetto di “civiltà” : nella prospettiva di Huntington

 

“La civiltà di appartenenza è il livello di identificazione più ampio al quale si aderisce strettamente.[10]

 

per aggiungere, immediatamente dopo, che

 

“Le civiltà rappresentano il più ampio “noi” di cui ci sentiamo culturalmente parte integrante in contrapposizione a tutti gli altri “loro”.” [11]

 

E’ nei fatti la logica conclusione del modello del processo di identificazione adottato da Huntington. Ma una prospettiva del genere conduce inevitabilmente a considerare problematicamente quelli che lo steso Huntington definisce gli“elementi oggettivi comuni” di una civiltà, e cioè “la lingua, la storia, la religione, i costumi e le istituzioni”, mentre diventa inevitabilmente preponderante il peso del “processo soggettivo di autoidentificazione dei popoli”. Anche quello che dovrebbe essere, nelle intenzioni di Huntington, l’elemento “oggettivo” più determinante nella definizione di una civiltà, e cioè la religione, più che la presunta “oggettività” dell’elemento, diventa fondamentale l’identificazione in questa dei popoli (o meglio, delle persone): la “rinascita” religiosa che avviene in tutti gli angoli del globo, seppur in forme e dimensioni diverse, avviene spesso in quanto c’è il bisogno di trovare qualcosa su cui appoggiare la propria identità, di fronte al processo di disgregazione della stessa prodotta dalla modernizzazione socio-economica, indipendentemente dalla “oggettività” o meno di quel “qualcosa”, e spesso tale rinascita si appoggia sulla opposizione a qualcosa o a qualcuno, senza contare che molteplici sono gli “attori sociali” che sfruttano tale bisogno in modi diversi e a fini diversi.Un aspetto che è messo in evidenza dallo stesso Huntington quando, affrontando gli effetti della modernizzazione nelle società “non occidentali”, dice:

 

“…man mano che i tradizionali legami e rapporti sociali vengono a lacerarsi, la modernizzazione genera sentimenti di alienazione e anomia che scatenano crisi di identità alle quali la religione offre una risposta.”[12]

 

Ma se il processo soggettivo di identificazione diventa così fondamentale, è inevitabile che il concetto di “civiltà” venga a perdere molta della sua “forza”: le “civiltà” delineate da Huntington vengono a perdere quel carattere “oggettivamente” omogeneo[13] che lo stesso autore implicitamente gli attribuisce.

Il problema della “oggettività” delle civiltà riemerge, seppur in modo diverso, in quello che dovrebbe essere uno dei punti più delicati dell’analisi, cioè l’individuazione delle “civiltà” esistenti nel mondo.

Huntington in un primo momento, sulla scia delle più diffuse teorie sulle civiltà, accetta l’individuazione di cinque civiltà ancora esistenti: la sinica, l’indù, l’occidentale, la giapponese e l’islamica; non considera rilevanti, almeno in una prospettiva di breve periodo, l’America Latina e l’Africa, l’una perché comunque legata “a filo doppio” con la civiltà occidentale, l’altra perché ancora incapace di individuare una identità comune e di trovare uno “stato guida”, oltre ad essere fortemente influenzata dalla passata esperienza coloniale.

E’ evidente come gli “elementi oggettivi comuni” evidenziati da Huntington contribuiscono alla definizione delle “civiltà” solo parzialmente: la varietà delle lingue, ma anche delle istituzioni e dei costumi all’interno dei “contenitori” delineati non può non porre qualche dubbio sulla reale esistenza di tali macroaggregati. Forse è per questo che Huntington preferisce “mettere sullo sfondo” alcuni elementi e valorizzarne altri, in particolare, come si è detto precedentemente, la religione.

Da questo punto di vista, è comprensibile (relativamente) il fatto che Huntington inizialmente non menziona affatto l’esistenza di una “civiltà ortodossa”, che invece utilizzerà abbondantemente per spiegare il ruolo della Russia nel nuovo “sistema multipolare”, per spiegare la dinamica del conflitto nella penisola balcanica e per spiegare la maggior parte delle tensioni esistenti in buona parte dell’Europa orientale: in questo caso Huntington usa l’elemento religioso per definire una civiltà. Ma, per quanto il ragionamento dietro tale distinzione possa essere corretto (e si potrebbero avanzare alcune questioni anche su questo), perché non applicare lo stesso schema distinguendo un Occidente protestante da un Occidente cattolico? Eppure di elementi per portare avanti un discorso del genere ce ne sono (il trentennale conflitto tra cattolici e protestanti nell’Ulster, che ha radici che affondano nella storia dell’isola, potrebbe essere tranquillamente portato come prova a sostegno), e sono facilmente rintracciabili nella storia europea.

Al di là delle possibili critiche, rimane invariata la rilevanza degli aspetti sin qui delineati nello schema di Huntington e nelle dinamiche dello scontro che andiamo ora ad esaminare.

 

 

PARTE II- LO SCONTRO DELLE CIVILTA’

 

Abbiamo visto quali sono alcuni dei principali punti che caratterizzano il “modello delle civiltà” di Huntington. A questo punto è necessario affrontare come si configura, nei fatti, lo “scontro delle civiltà”, e su quali linee si sviluppa. E’ un tema fondamentale per poter poi capire le conclusioni a cui lo stesso arriva, e da un’altra parte per porre alcune osservazioni allo schema proposto.

     A. I due livelli dello “scontro” e la dinamica delle crisi

In primo luogo è fondamentale considerare che lo “scontro” si articola essenzialmente su due livelli, nel senso che Huntington delimita un livello “regionale”, e un livello più generale, un livello che potremmo definire “globale. Al primo livello si verificano quelli che Huntington definisce “conflitti di faglia”, cioè quei conflitti

 

“…tra stati limitrofi appartenenti a civiltà diverse, tra gruppi di civiltà diverse che vivono all’interno di una stessa nazione, e tra gruppi che…tentano di costruire nuovi stati dalle macerie di quelli vecchi.”[14]

 

Al secondo livello, i conflitti si svolgono tra gli “stati guida” delle diverse civiltà: conflitti che però, secondo Huntington, difficilmente possono sboccare in uno scontro militare diretto, se non in determinate circostanze.

Nell’economia dello schema di Huntington, è evidente l’importanza dei conflitti di faglia, ed è quindi utile affrontare l’argomento definendone almeno le caratteristiche principali. Innanzitutto, si è già detto che tali conflitti si sviluppano essenzialmente a livello regionale, o addirittura subnazionale: sono quindi conflitti particolaristici, in quanto solitamente non implicano questioni rilevanti per altre parti non coinvolte direttamente nel conflitto.

In secondo luogo, ma non meno importante, tali conflitti avvengono tra stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà, e tendono ad essere molto violenti e sanguinosi. Inoltre, e questo è un dato fondamentale, i conflitti di questo genere tendono a prolungarsi nel tempo e sono difficilmente risolvibili attraverso canali diplomatici: spesso è possibile solo “congelarli” temporaneamente, e anche tale periodo di calma è destinato a finire in breve tempo. Huntington, per rendere meglio il concetto, definisce le guerre di faglia come “guerre a singhiozzo”[15].

Ma tali caratteristiche, ci dice Huntington, sono comuni a tutti i conflitti locali, di qualsiasi genere: la differenza qualitativa tra le guerre di faglia in senso proprio e i conflitti locali consiste essenzialmente, nella prospettiva di Huntington , in due aspetti. La prima fondamentale differenza, secondo Huntington, è individuabile nel fatto che tali conflitti scoppiano “quasi sempre tra popoli di religione diversa” [16]: un punto che, secondo Huntington, viene sottovalutato dalla maggior parte degli analisti, mentre, nella prospettiva del nostro

 

“Interi millenni di storia umana dimostrano come la religione non sia affatto una “piccola differenza”, ma probabilmente l’elemento distintivo più profondo che possa esistere tra i popoli. La frequenza, intensità e violenza delle guerre di faglia sono fortemente alimentate dalla fede in un dio diverso.”[17]

 

Il secondo aspetto differenziante possiamo comprenderlo solo considerando il fondamentale rapporto tra i due livelli.

Essenzialmente, il problema consiste nella dinamica dei conflitti di faglia, in quanto un conflitto di faglia, nella prospettiva di Huntington, produce solitamente quella che è definita una “chiamata a raccolta” dei paesi delle civiltà di riferimento dei gruppi coinvolti nel conflitto. Per riprendere le parole di Huntington,

 

“Quando coinvolgono gruppi appartenenti a civiltà diverse, i conflitti locali tendono ad espandersi e a crescere d’intensità. Ciascuna parte tenta di conquistarsi il sostegno di paesi e gruppi appartenenti alla propria civiltà….A causa di questa “sindrome dei paesi fratelli”, i conflitti di faglia presentano un rischio di escalation molto maggiore rispetto ad un conflitto tra paesi appartenenti a una stessa civiltà….[18]

 

In tal modo, il conflitto di faglia diventa un conflitto complesso: Huntington quindi individua diversi livelli di coinvolgimento degli attori nel conflitto. In questa prospettiva, distingue tre livelli secondo i quali si posizionano gli attori rilevanti: al primo livello, come è ovvio, si collocano gli attori direttamente coinvolti nel conflitto, i “contendenti veri e propri”, insieme ad una categoria altrettanto fondamentale di attori, e cioè le diaspore dei partecipanti di primo livello[19]; gli attori di secondo livello sono invece quelli più legati agli attori principali, e che quindi appoggiano più direttamente gli attori del primo livello.

Al terzo livello si collocano quegli stati che, pur avendo legami culturali con le parti belligeranti, rimangono esterni al conflitto (pur intervenendo, in diversa misura, indirettamente nel conflitto stesso): è importante notare che spesso a questo livello si collocano gli stati guida delle civiltà, nel modello delineato.

Il ruolo fondamentale degli attori del secondo e terzo livello è esemplificato bene da Huntington:

 

“….i governi di secondo e terzo livello hanno interesse a contenere lo scontro e a non farvisi coinvolgere direttamente. Perciò, pur sostenendo i protagonisti di primo livello, essi tentano di frenarli e indurli a moderare i loro obiettivi. Essi inoltre tentano di negoziare con le controparti di secondo e terzo livello e impedire così l’escalation di un conflitto locale in una guerra generale che coinvolga gli stati guida.”[20]

 

Ed effettivamente questa è una delle condizioni che Huntington pone come potenzialmente capaci di provocare uno scontro militare tra stati guida.

A questo punto diviene necessario affrontare la dinamica dei rapporti tra civiltà a livello globale, cioè a livello degli stati guida delle civiltà.

Huntington ci dice che in  generale i rapporti tra le civiltà potranno configurarsi essenzialmente o come una “pace fredda” o come una “guerra fredda”[21], ed evidenzia quali possono essere i motivi alla base dei conflitti (aperti o più “nascosti”) a livello globale, che poi, come afferma lo stesso Huntington, “sono quelli classici della politica internazionale”[22]:

·         La capacità di influenzare la determinazione degli sviluppi su scala planetaria e “delle iniziative delle organizzazioni internazionali di livello mondiale”[23]

·         Il potere militare

·         Il potere ed il benessere economico

·         I tentativi di proteggere popoli appartenenti alla stessa civiltà, “di discriminare popoli di diversa civiltà o di espellere dal proprio territorio popoli di altre civiltà”[24]

·         I tentativi di imporre o promuovere i propri valori ed istituzioni a popoli appartenenti ad altre civiltà

·         Questioni territoriali

Il fatto veramente nuovo, nello schema che ci viene proposto, è che le differenze culturali aumentano la conflittualità causata dai fattori sopra elencati, e che, sulla base degli stessi fattori culturali, gli stati guida “tentano di chiamare a raccolta tutti i membri della propria civiltà”: si ripete, quindi, quel meccanismo di “appello ai paesi fratelli” già considerato precedentemente, questa volta però stimolato dagli stessi stati guida.

In realtà, la dinamica complessiva dei conflitti sembra non mutare molto rispetto alla dinamica dei conflitti pre o durante la Guerra Fredda: se ai motivi “di civiltà” come li intende Huntington sostituiamo i motivi ideologici, lo schema proposto continuerebbe, nelle sue linee essenziali, a reggere.

Huntington ci dice che l’elemento di novità principale consiste nel fatto che la civiltà di appartenenza determina in modo decisivo le alleanze e gli schieramenti degli attori in gioco: parafrasando Huntington, uno stato o un gruppo “scende in campo” sempre a fianco di stati o gruppi appartenenti alla medesima civiltà. A sostegno di tale ipotesi, Huntington porta una notevole quantità di dati ed informazioni, che però, nei fatti, lasciano qualche perplessità.

Fondamentalmente, i casi portati sembrano più dimostrare che, se effettivamente a livello locale le differenze etnoculturali e di civiltà, se adeguatamente sfruttate da alcuni attori, giocano un ruolo cruciale nell’attivazione dei conflitti (ma sempre in connessione con altri fattori molto meno “culturali”e più legati ad interessi specifici) e nella persistenza di tali conflitti, oltre che nel determinarne l’intensità, l’intervento degli attori dei livelli “superiori” difficilmente può essere attribuibile principalmente a fattori culturali, e tantomeno il loro posizionamento all’interno del conflitto: sembrano più decisive motivazioni legate al mantenimento o all’espansione della  potenza e del ruolo geopolitico di tali attori, che sfruttano abilmente la “carta” del dato culturale a seconda della convenienza del momento.

Se insieme a questo consideriamo poi il fatto che la presenza di tali attori contribuisce molto alla crescita di intensità del conflitto locale, tanto da poter sfuggire al controllo degli stessi, allora si capisce meglio il bisogno delle potenze dei livelli superiori di trovare accordi fra loro per porre un freno a tali conflitti.

Si spiegherebbe male altrimenti tale necessità: la domanda che essenzialmente poniamo è infatti quali interessi hanno gli attori di secondo e terzo livello alla riduzione o al disinnesco dei conflitti locali, dato che in teoria le differenze culturali con gli attori dello stesso livello dovrebbero costituire l’elemento più decisivo nella determinazione delle strategie, e che tali differenze sono le stesse che dividono profondamente gli attori al livello locale. Huntington questo non ce lo spiega, come non spiega efficacemente del resto i motivi per i quali i conflitti tra stati guida tendenzialmente non sfociano mai in conflitti militari aperti: in fondo perché la differenza di civiltà ad un livello produce scontri sanguinosi e al macroliovello no?

Si potrebbe obiettare che nel primo caso diventano decisivi l’elemento della contiguità territoriale e le cause storiche di conflitto: ma in tal modo il ruolo della civiltà viene ad essere evidentemente ridimensionato, e comunque si potrebbe argomentare che storicamente, potrebbero essere agevolmente individuati motivi “validi” per scatenare un conflitto globale tra stati guida.

Nei fatti, propendiamo per l’ipotesi che in fondo la “civiltà” o la “cultura” siano solo un elemento interveniente, quando non semplicemente una giustificazione per determinate scelte, nel determinare lo scontro tra stati “guida”, come del resto sarà possibile mettere in luce anche nell’esame delle principali linee di conflitto individuate da Huntington.

    B. Le linee dello scontro

Come si è precedentemente detto, Huntington distingue due livelli “spaziali” sui quali si articola il conflitto tra civiltà: a questo punto è possibile andare ad esaminare quelli che secondo Huntington sono le linee principali del conflitto, cioè, in altre parole, quali sono le “linee di faglia” rilevanti nello scenario dello scontro delle civiltà. In linea con la suddivisione spaziale, Huntington ci dice che

 

“ A livello regionale, o microlivello, la linea di faglia più pericolosa sembra quella che separa il mondo islamico dagli stati adiacenti ortodossi, indù, africani e cristiano-occidentali[25]. Al livello generale, o macrolivello, la frattura principale è tra “l’Occidente e gli altri”, con i conflitti più intensi destinati a scoppiare tra società musulmane e asiatiche da un lato e quella occidentale[26] dall’altro.”[27]

 

Riassumendo, a seconda del livello preso in considerazione, al maggior parte dei conflitti da una parte saranno tra musulmani e non musulmani (microlivello), e dall’altra tra Occidente (“incarnato”, secondo Huntington, prevalentemente negli interessi degli Stati Uniti) e stati o gruppi di stati non occidentali al macrolivello.

Sarà quindi utile cercare di evidenziare le caratteristiche peculiari di ciascuna di queste due “linee di faglia”, per poter meglio comprendere lo schema di Huntington.

 

     L’Occidente e gli altri

Perché la frattura principale a livello globale è individuabile nel confronto tra Occidente da una parte e stati islamici e asiatici dall’altra? Huntington ci spiega chiaramente il suo punto di vista:

 

“…il problema fondamentale nei rapporti tra l’Occidente e le altre civiltà si può riassumere nella discrepanza esistente tra i tentativi dell’Occidente, e dell’America in particolare, di promuovere una cultura occidentale universale e la sua sempre minor capacità di realizzare questo obiettivo.”[28]

 

Più specificatamente, secondo Huntington due sono i processi che incidono sulla minore capacità dell’Occidente: da una parte, soprattutto nel caso dei paesi asiatici, la crescente rilevanza in campo economico, e dall’altra il processo di “rinascita religiosa”, e di conseguenza di rivalutazione delle culture e tradizioni autoctone, nel caso dell’Islam. Si verificano cioè una molteplicità di tentativi di emancipazione dal “dominio” occidentale, in particolare in campo economico e militare, e non ultimo in campo culturale. In realtà, il discorso deve essere ulteriormente delineato: nei fatti, le sfide principali si collocano al livello economico e militare, e solo successivamente si traducono in un “conflitto” culturale.

Questo è desumibile dalle stesse argomentazioni di Huntington:

 

“L’Occidente tenta e continuerà a tentare di preservare la propria posizione di preminenza e difendere i propri interessi identificandoli con quelli della “comunità internazionale”….L’Occidente, ad esempio, sta tentando di integrare le economie non occidentali in un sistema economico universale sotto il suo controllo.”[29]

 

Quindi, il conflitto “culturale” si innesta solo in seconda battuta su una costellazione di conflitti di altra natura, ed in conseguenza dei risultati degli attori in tali conflitti.

Non è un caso che anche quello che Huntington definisce “l’asse islamico-confuciano” si concretizzi su “diritti umani, politica economica e soprattutto il tentativo – universalmente perseguito – di sviluppare il proprio potenziale militare, in particolare le armi di distruzione di massa…in modo da controbilanciare la superiorità militare convenzionale dell’Occidente”, ed in questa prospettiva risulta chiaro che una delle principali aree problematiche per l’occidente sia individuata da Huntington nei tentativi di preservare la propria superiorità militare. Questo è un punto molto importante, che però si deve temporaneamente tralasciare per permettere di prendere in considerazione le altre due aree problematiche individuate da Huntington, che presentano particolarità interessanti: da una parte “promuovere i valori e le istituzioni politiche occidentali”[30], e dall’altra di “proteggere l’integrità culturale, sociale e razziale delle società occidentali limitando il diritto di asilo agli immigrati e ai rifugiati non occidentali”[31].

Nel primo dei due “ambiti”, Huntington mette in evidenza come la resistenza alla penetrazione dei modelli istituzionali e culturali occidentali si siano intensificati negli ultimi anni, e come su tale terreno più volte l’Occidente ha accusato gravi “sconfitte” ad opera del famigerato asse tra paesi islamici e paesi asiatici, già rammentato in precedenza. E’ in tale ambito che risalta la rilevanza del crescente rilievo economico dei paesi asiatici: da una parte, Huntington evidenzia come all’interno dello stesso Occidente esistano delle forti pressioni provenienti dalla sfera economica a non “forzare” sulla questione dei diritti umani, al fine di salvaguardare i proficui rapporti finanziari e commerciali con le economie asiatiche, e dall’altra come, forti di questa situazione, i paesi asiatici, ed in particolar modo la Cina, si facciano perno centrale delle coalizioni anti-occidentali su tali questioni. Si potrebbe quindi parlare di un vero e proprio “scontro” non tanto tra le diverse civiltà, quanto tra “istituzioni” e valori della stessa civiltà occidentale: gli interessi in campo economico si pongono in contraddizione con la promozione della democrazia e dei diritti umani, che escono ampliamente sconfitti da tale scontro. Una riprova di tale “contraddizione” è nei fatti ammessa dallo stesso Huntington quando parla del “paradosso della democrazia”[32]:

 

“Nel mondo post- Guerra Fredda la scelta, ben più difficile, potrebbe essere quella tra un tiranno amico e una democrazia ostile. Il superficiale presupposto occidentale secondo cui i governi democraticamente eletti saranno sempre cooperativi e filoccidentali non si dimostra necessariamente vero per le società non occidentali…..Via via che i leader occidentali si rendono conto che i processi democratici nelle società occidentali producono spesso governi ostili all’Occidente[33], tentano di influenzare tali elezioni e al contempo perdono ogni entusiasmo per la promozione della democrazia in quelle società.”