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Iraq, torna l'inganno

di Norman Solomon - 15/12/2006

 

La propaganda di guerra 2003-2003 sta tornando. Con così tanti giornalisti che diffondono le loro storie sotto le luci delle stelle di Washington, non è affatto sorprendente che la maggior parte degli articoli della stampa internazionale analizzino la questione irachena attraverso l’ottica dell’indiscussa supremazia della potenza americana

Il periodo precedente l’invasione dell’Iraq trova un posto speciale negli annali del giornalismo made in Usa.

Persino i numerosi reporter, direttori di giornale e commentatori che tra il 2002 e l’inizio del 2003 avevano in qualche modo spinto affinché si arrivasse alla guerra, ora riconoscono che i principali mezzi d’informazione nel periodo in questione hanno messo da parte il reale giornalismo a favore della propaganda di guerra.

Sta accadendo di nuovo.

L’attuale parodia dei media rappresenta una grazie divina all’idea che le avventure belliche degli Stati Uniti debbano proseguire. E, manco a dirlo, anche nei suoi ultimi editoriali il New York Times si è confermato il leader dell’ultima parata giornalistica che avanza al tempo scandito dai tamburi di guerra.

Durante la corsa all’invasione, i giornali continuavano a parlarci delle armi di distruzione di massa dell’Iraq. Il Times e altre importanti testate ribadivano sistematicamente l’affidabilità dei propri articoli.

Ora, anziché spiegazioni sulle canne dei fucili e sui laboratori mobili per la produzione di armi, riceviamo autorevoli illuminazioni sui motivi per cui un rapido ritiro degli americani non sarebbe realistico o auspicabile. Il quadro è molto simile a quello di quattro anni fa: un incredibile schiaffo alla deontologia professionale giornalistica.

Al tempo, la tesi sulle armi di distruzione di massa (WMD) era appoggiata sia dalle fonti istituzionali sia da esperti, più o meno noti, idolatrati dall’establishment. Oggi la tesi a sostegno della permanenza delle truppe è appoggiata sia dalle fonti ufficiali dalle fonti istituzionali sia da esperti, più o meno noti, idolatrati dall’establishment.

Nelle settimane successive alle elezioni di mid-term, le notizie del New York Times sulle possibili soluzioni in Iraq sono state spesso autoritarie, specchio di fonti abili nel selezionare attentamente le conclusioni più desiderate.

Sappiamo già del titolo di prima pagina del 15 novembre a firma di Michael Gordon, “Ritirarsi dall’Iraq ora? Gli esperti suggeriscono di attendere”. Una tecnica simile è stata ripresa il 1 dicembre allo scopo di inscenare un’altra “News analysis”, questa volta da parte del reporter David Ranger, intitolata “L’unica cosa su cui sono tutti d’accordo: in questo momento nessuno deve andarsene dall’Iraq”.

Solitamente in tali reportage le fonti sono scelte di comune accordo dal cast dei primi personaggi politici che hanno contribuito a trascinare gli Stati Uniti nel pantano iracheno. Ciò che accade ora è la dimostrazione di una sorta di incubo elastico permanente, e mentre questi partecipano all’ennesima gara di opportunismo conformista, molti altri dovranno pagarne le conseguenze con la vita.

Con così tanti giornalisti americani che diffondono le loro storie sotto le luci delle stelle di Washington, non è affatto sorprendente che la maggior parte degli articoli della stampa internazionale analizzino la questione irachena attraverso l’ottica dell’indiscussa supremazia della potenza americana.

I reporter del New York Times John Burns e Kirk Semple hanno scritto nelle prime righe del “News Analysis” del 29 novembre: “L’influenza politico-militare americana in Iraq è caduta bruscamente”.

Il secondo paragrafo dello stesso articolo riportava: “Il destino degli americani qui dipende molto più dai conflitti tra gli iracheni, che a volte sembrano quasi fomentare i propri scontri pur di colpire più a fondo gli Usa”.

Il terzo: “Non è chiaro se gli Stati Uniti possano guadagnare nuovo terreno in Iraq…”.

E così via, tutti presi da problemi quali “l’influenza politico-militare americana” o “le vicende americane” o se “gli Stati Uniti possano guadagnare terreno in Iraq”.

Con una tale visione del mondo, non c’è da meravigliarsi che i media servano il nazionalismo anziché il giornalismo.

L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq, le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy.
È inoltre autore dell'introduzione a Censura 2006 – Le 25 notizie più censurate.
Sull'Iraq vedi Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (Prefazione del premio Pulitzer Seymour Hersh – Prefazione all'edizione italiana di Gino Strada), di Scott Ritter.

Fonte: Common Dreams
Traduzione a cura di Anna Lucca per Nuovi Mondi Media