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Ritirarsi dall'Iraq? Ancora una chimera

di Tariq Ali - 29/12/2006

 

Nessuno degli scenari attualmente in discussione a Washington o a Londra intravedono l’ipotesi di un ritiro completo dall’Iraq. Insieme alla guerra, sono andate perdute mezzo milione di vite irachene. Tentare di indugiare sul fallimento inviando ulteriori truppe o proseguire nell'indifferenza non servirà a migliorare le cose

Una volta che, come avvenuto rispetto all’avventura irachena, una guerra si dimostra un disastro e le sue giustificazioni si rivelano menzogne, insistere su espressioni del tipo “democratico Iraq all’orizzonte” e “finire il lavoro iniziato” diventa una totale fantasia. Cosa fare, quindi?

Negli Stati Uniti un gruppo di sapientoni al Foggy Bottom [nomignolo del Dipartimento di stato Usa, NdT] ha reso noto un report in cui si ammette ciò che il mondo intero, Downing Street a parte, già sa: l’occupazione dell’Iraq è stata una disfatta, la situazione peggiora giorno dopo giorno. Dopo che i cittadini statunitensi hanno votato di conseguenza alle lezioni di mid-term, la Casa Bianca si è limitata a sacrificare il signore della guerra del Pentagono Donald Rumsfeld.

Un altro signore della guerra, l’inquilino di Downing Street, prosegue imperterrito nelle sue imbarazzanti smentite secondo cui a Baghdad e Kabul nulla di grave starebbe accadendo. Ogni cosa, secondo Blair, può sistemarsi ricorrendo a una piccola dose della consueta medicina umanitaria (un intruglio così efficace e persuasivo che resistervi è impossibile). I disperati tentativi del primo ministro britannico di ricoprire il ruolo del buon statista ne hanno fatto una spassosa attrazione nelle capitali arabe amiche e nella Zona Verde di Baghdad. L’Iraq è il cordone ombelicale che lega Blair al suo destino.

Nel frattempo gli anziani di Washington riconoscono la scala del disastro. Le loro parole sono forti, le ricette per ovviare al fallimento vaghe e patetiche: “Concordiamo con l’obiettivo della politica Usa in Iraq, come sostenuto dal Presidente: un Iraq che possa in modo autosufficiente governarsi, sostenersi e difendersi”. Altrove essi caldeggiano un accordo con Iran e Siria per preservare la stabilità post-ritiro, sottintendendo che Baghdad non potrà più tornare a essere indipendente come un tempo.

È stato lasciato a un militare realista, l’ex capo della National Security Agency William Odom, il compito di invocare un disimpegno completo degli Usa entro i prossimi mesi – un piano sostenuto dagli iracheni (sciiti e sanniti) in diversi sondaggi. L’occupazione dell’Iraq, ci ha informato fra l'altro Kofi Annan, ha portato ad una situazione più critica rispetto al periodo in cui governava Saddam Hussein.

Quanta differenza se si pensa all’euforia dei primi giorni che seguirono la presa di Baghdad. Sul luogo del trionfo si aprirono due discussioni.

Da parte sua il Pentagono voleva raggiungere in breve tempo un’intesa con i generali di Saddam per istituire un nuovo regime, in modo che gli Stati Uniti e le truppe sussidiarie potessero ritirarsi nel nord dell’Iraq e in Kuwait. Il Dipartimento di stato e il suo alleato a Downing Street, invece, prediligevano la mera applicazione del pugno di ferro, nei termini di una lunga occupazione che potesse rendere il nuovo Iraq un modello Usa di “soft power” per l’intera regione.

Quest’ultima non è mai stata un’opzione credibile. È il sostegno incondizionato degli Usa a Israele che preclude ogni possibilità per una politica di attrazione e di cooptazione, di “soft power”, in Iraq o altrove. Servirsi di Fatah per fomentare i conflitti civili in Palestina è improbabile porterà a buoni risultati. Persino i regimi arabi più vicini agli Usa – Arabia Saudita, Egitto, Giordania e stati del Golfo, tutti fedeli all’alleato americano – consentono severe denunce delle politiche occidentali sugli organi d’informazione per scongiurare agitazioni da parte dei propri cittadini.

Nessuno degli scenari attualmente in discussione a Washington, tra cui quelli avanzati dai democratici, intravedono l’ipotesi di un ritiro completo degli Usa dall’Iraq. Insieme alla guerra, sono andate perdute mezzo milione di vite irachene. Tentare di indugiare sul fallimento (come si fece per il Vietnam) inviando ulteriori truppe non funzionerà.

Il parlamento britannico, ancor più indifferente del suo equivalente d’oltreoceano, ha votato contro ogni eventualità di inchiesta sul coinvolgimento del regno Unito nella guerra, nonostante sia più che noto che la maggioranza dei cittadini che rappresenta fosse e rimanga contraria al proseguimento del conflitto.

Il fanatismo ideologico di Tony Blair ha contribuito a distruggere l’Iraq, rivitalizzare i talebani in Afghanistan, incrementare la minaccia terroristica in Gran Bretagna e introdurre in patria leggi repressive senza precedenti. Il suo infelice partito e l’opposizione hanno dato il via libera a tali misure. È tempo per un cambio di regime anche qui.


Tariq Ali vive da lungo tempo in Inghilterra, dove dirige la rivista 'New Left Review'. Nato nel 1944 a Lahore, città oggi in territorio pakistano, ma che all'epoca faceva parte dei possedimenti britannici in India, si trasferì ventenne in Inghilterra, dove continuò gli studi nel campo della politica, della filosofia ed dell'economia, presso l'Exeter College di Oxford. Entrando a far parte della Federazione Laburista Universitaria, fu dapprima membro della commissione del Gruppo Socialista, e in seguito, a partire dal 1965, presidente della Oxford Union. Con la guerra del Vietnam nella sua fase più acuta, Tariq Ali si guadagnò una reputazione di rilievo nazionale partecipando a dibattiti accanto a personaggi come Henry Kissinger o come il Segretario agli Esteri britannico Michael Stewart.
Tariq Ali è autore de "Lo scontro dei fondamentalismi. Crociate, jihad e modernità" e di "Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell'Iraq" (trovali su Nuovi Mondi Shop).

 

Fonte: The Guardian
Traduzione a cura di Nuovi Mondi Media