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Marc Augé: intellettuali, i vigili delle periferie

di Marc Augé - 30/12/2006

Dopo la rivolta delle banlieues parigine, il teorico dei «non luoghi» esorta alla virtù dell'attenzione. Contro troppe solitudini

«Se non possiamo più avere una cieca fiducia nel progresso, occorre diffidare pure
del relativismo, che fa scomparire ogni investimento sul futuro»

Siamo in un'epoca in cui il positivismo del progresso e della globalizzazione sono divenuti una favola; non si può nutrire una fiducia cieca nell'evoluzione del pianeta perché tale fiducia cieca, quando diventa l'atteggiamento dominante, non considera i rischi delle violenze, delle illegalità, delle ideologizzazioni dei conflitti del nostro quotidiano, senza parlare del rischio di una regressione ideologica. Quindi, non si possono chiudere gli occhi e dire «tutto va bene». Tuttavia, più che di fiducia parlerei di vigilanza, anche perché se oggi rinunciamo alla speranza della fiducia, non resterebbe più niente. Perciò credo che, almeno come dovere riflessivo da parte degli intellettuali, si potrebbe spostare la coppia interpretativa fiducia/sfiducia verso un'altra coppia, quella formata dal termine vigilanza e dai suoi contrari, il senso dei quali ruota su per giù sul concetto di distrazione o di disattenzione. La vigilanza è una disposizione della mente caratterizzata dall'attenzione verso le cose e dalla volontà di avanzare nelle cose, ed è anche la costanza e la fermezza d'animo. Credo che dobbiamo diffidare dell'eccessivo relativismo. In tempi come questi, credere che ognuno abbia la sua verità e che tutte si possano incontrare felicemente può essere pericoloso, almeno in senso politico. Io non credo che tutte le posizioni culturali e ideologiche del mondo siano sullo stesso livello, ma che ci siano delle dimensioni più auspicabili e delle urgenze sociali più importanti di altre. Dal punto di vista emozionale, mi sembra che il sentimento dominante nel mondo in cui viviamo sia la scomparsa di un investimento sul futuro, se non addirittura la scomparsa di finalità; secondo piano: da un altro punto di vista, quello legato alla sfera del progresso scientifico e informazionale, noi procediamo molto velocemente nel campo della conoscenza. Ecco, allora, che emerge un paradosso abbastanza marcato al cui interno il progresso della conoscenza e l'incertezza sulle finalità sono due estremi evidentemente problematici; come dire, gli uomini hanno bisogno di essere rassicurati e quindi c'è bisogno di un supporto che la scienza, però, non è in grado di fornire in quanto alla base della scienza non vi è un principio «di certezza». Essa, per sua costituzione, avanza verso l'ignoto e questa non è una posizione comoda: per la vita delle collettività contemporanee c'è bisogno di certezze, per organizzare la società nella quale vivono i loro membri. Dunque, se la conoscenza va verso lo sconosciuto, io credo che il problema di fornirle il ruolo di rassicuratrice della società sia essenzialmente un problema pedagogico: tutti gli sforzi del mondo dell'educazione, dalle scuole elementari in poi, dovrebbero essere diretti a far accettare alla collettività, che ha bisogno di certezze e di organizzazione, l'idea del progresso saldamente unita a quella dello sconosciuto. Da questo punto di vista credo che i giovani delle banlieues abbiano cercato di mettere a ferro e fuoco la capitale perché hanno la sensazione di non accedere al mondo del consumo. Vede, paradossalmente, non è una rivolta ideologica contro il consumo ma per accedervi! È una rivolta veicolata dall'immagine, dalla televisione. Non si tratta di una rivolta di ordine fondamentalmente politico o contro il modello sociale dominante, dunque. Possiamo anche parlare di resistenza, ma le soluzioni sono più di ordine pratico che di ordine ideologico; per esempio si dice a volte che il modello di integrazione sociale francese sia in scacco. Io non lo credo: non è che il modello sia in scacco, semplicemente non è applicato. Il piano di analisi, in altre parole, non è quello teoretico dell'organizzazione statale, ma quello pragmatico dell'applicazione di un modello organizzativo alla società stessa. Non è il modello a dire che bisogna mettere gli immigrati nei ghetti, il modello dice che bisogna scolarizzarli, come tutti gli altri, ma nella realtà ci sono dei quartieri dove c'è questa segregazione di fatto. Il fallimento di tutto il processo di integrazione si gioca su questo gap tra teoria e pratica. Questo è l'elemento preoccupante e c'è bisogno di soluzioni tecniche. Ecco perché non sono completamente d'accordo con la formula di Fukujiama sulla fine della storia: semplicemente non credo che questa sia una formula definitiva... (...) Ma l'abitare è anche il luogo socio-filosofico della più grande ineguaglianza umana: ci sono persone che hanno grandi appartamenti, residenze moderne, e ci sono persone che vivono per strada. Negli anni Ottanta li chiamavano «i nuovi poveri»... adesso non li chiamano più nuovi perché sono poveri già da tanto tempo! È, cioè, sufficiente prendere a metafora questo tema dell'abitare per comprendere come esista una disuguaglianza assoluta di diritti economici e di dignità umana tra i due estremi delle classi sociali. Anche in questo l'abitare si avvia a diventare un topos etico. Se per nonluoghi designamo empiricamente gli spazi di comunicazione, circolazione e consumo, bisogna dire che essi si sviluppano in maniera talmente accelerata che il mondo stesso oggi è diventato un nonluogo. Ma in questi luoghi non c'è libertà, la residenza è assegnata. E da questo punto di vista mi è sembrato che quei luoghi che, in qualche modo, percepiamo come «parentesi aggregative», ad esempio aeroporti, supermarket, siano luoghi dove non si possano leggere le relazioni sociali simboliche: ci sono codici che indicano ciò che dovete fare, come e dove entrare, eccetera; sono spazi dove la condizione normale è quella di essere soli. È per questo che li ho chiamati nonluoghi.